Giorgio Gaber è morto

Gaber, un anarchico puro

Chi è stato davvero Giorgio Gaber? Mi è difficile, in un momento in cui la sua scomparsa è ancora così bruciante e dolorosa, non pensarle a lui, prima di tutto, come ad un amico. Un intellettuale non conformista con il quale il rapporto umano, la comunicazione, lo scambio erano possibili al di là delle nostre diversità. Un musicista, e soprattutto un uomo di teatro straordinario, che mi ha aiutato a interrogarmi - qualche volta a capire.

Certo, molto ci favoriva la comune origine meneghina: che non è un dato geografico, ma culturale, antropologico, storico-politico. Parlo di quella Milano che crebbe, ai primordi del «miracolo economico», in opposizione aperta alle magnifiche sorti e progressive del neocapitalismo italiano: chi, come me e altre migliaia di compagni di sindacato e di partito, collocandosi nel solco del movimento operaio, con una forte determinazione ad innovare quella storia, in qualche modo "riscrivendola" e reinventandola quotidianamente; chi, come un pezzo dell'intellettualità, della borghesia "illuminata", dei giovani, cavalcando un rifiuto quasi apocalittico dell'esistente - un No che può definirsi quasi impolitico, che guardava corrucciato, appartato ma mai neutrale, le arti della mediazione e del compromesso politico. Giorgio Gaber apparteneva a questa temperie, nella quale erano le sue radici e nella quale aveva sviluppato la sua straordinaria sensibilità artistica. Un anarchico puro, che è rimasto fedele al lato migliore dell'anarchia - lo spirito critico, la curiosità, la libertà assoluta dagli schemi e dalle convenzioni. E l'ironia graffiante, che condivideva con gli altri grandi esponenti della "scuola milanese", come Enzo Jannacci. Una volontà di dissacrazione, che però si intrecciava, in nodi quasi sempre inestracabili, a una visione in fondo tragica della vita e della società.

Il pessimismo di Gaber, di cui molto si è parlato, era, in realtà, una delle sue "armi" di salvezza. Mi è sempre parso sbagliato, e anche un po' ingiusto, accusare le produzioni teatrali dell'ultimo decennio di qualunquismo: se per qualunquismo intendiamo sostanzialmente acquiescienza, passività, menefreghismo - e assenza di ogni vera lettura critica della realtà. Gaber, al contrario, ha sempre attraversato criticamente la modernizzazione e i suoi processi: non se n'è mai fatto incantare, non si è fatto omologare, non ha mai ceduto alle lusinghe del "pensiero unico" conformista. Con la sinistra - le sue scelte generali, i suoi riti, il suo linguaggio, il suo farisaismo - ha rotto ben presto: ma non aveva forse dalla sua mille buone ragioni? E non è certo un caso che una persona come lui, che non era mai stato comunista, sia stato capace di scrivere una pièce sulla nostra storia tanto sintetica quanto sostanziosa e commovente: era ben consapevole, anche nella sua disperazione impolitica, che a quella vicenda storica, che alla fine degli anni '80 veniva brutalmente tagliata, era consegnata la parte migliore di noi. Quel bisogno di volare non poteva essere cancellato, così come quel "sogno" non poteva andare del tutto perduto, anche se si era «rattrappito».. «Perché, con accanto questo slancio ognuno era più di se stesso, era come due persone in una».

Fausto Bertinotti
Roma, 5 gennaio 2003
da "Liberazione"