Internet: la fruizione della ricchezza di informazione presente sulla Rete
richiede esperienza e pazienza.
L'illusione autoritaria dei "filtri", automatismi che nascondono assai più di quel che trovano
Scegliere, meglio che filtrare.

Avanti con i luoghi comuni che fanno tanto male, ahimè allo spirito critico. Uno, assolutamente dilagante tra gli intellettuali della parola scritta, e di recente riproposto anche a Bologna 2000, nella giornata dedicata a "Informazione, Conoscenza, Verità", suona così: "sulla rete Internet c'è troppa informazione, ma essere eccessivamente informati significa essere male informati". Lo ha detto il premio Nobe5l per la pace Eli Wiesel, in consonanza con quanto da anni va sostenendo anche Umberto Eco, in saggi e interviste. Ma lo ripetono, in maniera molto più volgare, insistita e pesante, molti altri, cui tale pensata deve apparire, evidentemente, un ottimo argomento polemico per difendersi da questa maledetta alluvione di democrazia che la rete rende possibile - ma non garantisce, ovviamente.

Sia chiaro che il problema esiste, eccome. Non si tratta di un espediente polemico dei conservatori a oltranza, e nessuno iscriverà d'ufficio Umberto Eco tra i retrodatati.
Ma, così formulato, genera degli equivoci e si presta persino a esiti controproducenti, al di là delle intenzioni dei proponenti.
Intanto le cifre, che sono drammatiche e molto "peggiori" di quanto molti potrebbero sospettare: ogni anno il mondo produce due esabyte di dati, ovvero dieci alla 18esima potenza di byte (ognuno può considerarsi l'equivalente di un carattere a stampa); per farsene un'idea, questa cifra corrisponde a centomila miliardi di pagine come questa - si immagini di impilarle e ne uscirebbe un grattacielo enorme e certo assai instabile.
I dati provengono da due studiosi dell'università di Berkeley in California, Peter Lyman e Hal Varian, e sono stati resi noti giusto il mese scorso.
Ma il loro studio contiene anche qualche sorpresa: in tutta questa gran mole di informazioni digitali, una grande quantità, esattamente 740 mila terabyte (un "tera" è mille miliardi) sono prodotti da singoli individui, nei modi e nei luoghi più diversi, mentre quelli provenienti dall'altro, cioè dalle imprese editoriali e mediatiche, sono soltanto 285 terabyte.
Si potrebbe parlare dunque di una sorta di "democratizzazione" dei dati; questo almeno è quanto ha suggerito in un suo commento il settimanale inglese The Economist.

L'altra sorpresa è legata al tempo consumato dalle persone per ingerire dati: nell'anno 1992 l'americano medio occupava 3.324 ore all'anno nel guardare la tv, ascoltare musica o leggere; oggi questa cifra è salita, ma non di molto, passando a 3.380 ore annue. E in fondo è comprensibile: i ritmi e il tempo lavorativi si sono allungati e così tutti i media si trovano a competere l'un contro l'altro per la conquista del nostro tempo e della nostra attenzione.

Alla fin fine e a conti fatti, l'americano medio ingerisce 3.344.783 megabyte all'anno, che sono una quantità rispettabile, ma una frazione davvero piccolissima dell'informazione prodotta. Insomma, la questione è legittima e vera. E si riflette anche sul modo stesso di operare dei mezzi di informazione: se un tempo la virtù dei giornali stava nello scovare le notizie, in un mondo in cui ne circolavano poche, ora il loro mestiere è di selezionare e scegliere, in un contesto di assoluta abbondanza.

Ma è proprio questa abbondanza che tanto disturba alcuni: troppo rumore (noise) vuol dire assenza di informazione. Sfugge loro che uno dei migliori regali che i fisici sperimentali hanno fatto alla cultura umana è consistita nell'inventare metodi e tecniche per operare in situazioni rumorose, dal noise estraendo il segnale sottostante che a prima vista risultava nascosto e indistinguibile; è quello che fanno tutti i giorni gli astronomi o i cacciatori di particelle elementari della materia.

Dunque servono delle competenze e delle tecniche per farlo. Ma proprio qui scatta la piccola insidia, anche terminologica: volentieri in questo campo si invocano dei "filtri" efficaci. Pensate che bello se la nostra posta - sia quella cartacea come quella elettronica - potesse venire depurata "automaticamente" (altra parolina magica quanto pericolosa) da tutte le informazioni non richieste e inutili che la intasano fastidiosamente. Pensate che bello se qualche agente intelligente potesse scovare per noi le giuste ricerche su come fanno sesso i coleotteri, anziché infliggerci centinaia di pagine web solo vagamente apparentate all'argomento.

E soprattutto pensate che bello se sistemi altrettanto automatici impedissero ai dipendenti di un'azienda o ai frequentatori di una biblioteca pubblica di navigare verso siti 'XXX' (ovvero pornografici). La tecnologia ci fornirebbe la magica e facile soluzione a problemi che hanno radici sociali (la maleducazione, la furibonda spinta al marketing spinto, l'infelicità delle persone e la loro immaturità in campo sessuale): ci pensa il computer e noi possiamo fare una vita più serena.
Purtroppo le cose non vanno così - per svariati motivi tecnici e scientifici - ma è anche bene che non vadano così.

Proprio sulle pagine de "il Manifesto" si è ricordato che il grande valore del giornale e dei libri è la loro sfogliabilità: ovvero la possibilità di imbattersi in notizie e punti di vista inattesi, anche quando si sia proiettati soltanto sui risultati dell'ultima gara di motociclismo. E' uno di quei casi in cui un difetto (il giornale contenitore e zibaldone) si trasforma in una possibile virtù; in cui una inefficienza (stampare tante pagine anche se nessuno le legge tutte) diventa uno strumento di efficacia. E' una di quelle cose che per definizione il giornale personalizzato, assemblato in automatico via Internet, non può garantire, a meno che uno scelga tutte le categorie tra quelle che gli vengono proposte, ma allora di nuovo avrebbe troppe notizie.

Ma "filtro", dovrebbe essere chiaro, è una parolaccia sia sull'Internet che in ogni attività culturale: rimanda infatti a un utensile che con tecnologia elementare impedisce che certi oggetti ci raggiungano, anzi ce ne nasconde persino l'esistenza. Oltre a tutto i criteri del filtraggio sono sovente trasparenti (nel senso di invisibili) e accuratamente celati dal costruttore; una casa di software che produce filtri Internet ad uso dei bambini e delle famiglie, nei mesi scorsi ha cercato di sostenere che l'elenco dei siti proibiti contenuti nel suo programma di filtraggio erano un segreto industriale e ha intentato causa a un gruppo che aveva sfondato i codici e reso pubblico l'elenco. Un saggio giudice americano le ha dato torto, in base al criterio che il consumatore deve sapere che cosa compra e che sul terreno della libertà di espressione bisogna andarci cauti con i segreti.

La parola giusta da usare è probabilmente un'altra: scelta. Significa che, come sul banco del mercato ortofrutticolo o nell'edicola dei giornali, tutto deve essere esposto, visibile, raggiungibile e acquistabile.

Anche in un Suq arabo si potrebbe esclamare: che confusione, c'è troppa scelta di cereali, peperoncini e verdure; ce n'è talmente tanta che diventa impossibile trovare le cose migliori.
E certamente qualsiasi occidentale si trova in questa condizione di sovraccarico informativo, mentre passeggia in un Suq; ma si accorgerà rapidamente che gli abitanti locali si muovono con assoluta disinvoltura da un banco all'altro e sanno fare la scelta migliore per le loro esigenze e per il loro portafoglio, anche se non c'è il cartellino con la descrizione delle merci né quello del prezzo.

Esattamente in questo modo vanno le cose sull'Internet: le opzioni sono diventate enormi e richiedono criteri - individuali e collettivi - per saper cogliere quello che ci serve. Persino le scadenti prestazioni degli attuali motori di ricerca sono lì a ricordarci che non c'è automatismo vincente e sostitutivo quando si tratti di conoscenza; vincono solo l'intelligenza e la pazienza umana.

Franco Carlini
Roma, 5 novembre 2001
da "il Manifesto", 5 novembre 2000.