La vita di Gianni Agnelli ha attraversato molti decenni, durante i quali ha imparato a fare il mestiere di grande industriale o almeno ha fatto finta talmente bene che tutti ci abbiamo creduto. Ha fatto accordi e disaccordi di ogni sorta, ma sempre tenendo in primo piano la proprietà della fabbrica che suo nonno gli aveva lasciato

Biografia non autorizzata

Gianni Agnelli rimase per vent'anni vicepresidente della Fiat. Sembrava destinato a quel ruolo per sempre, in rappresentanza di una proprietà senza potere. Fece invece un gesto di cui nessuno lo credeva capace, lui che era ormai un ricco perditempo di mezz'età: fece un colpo di stato, defenestrando il senatore Valletta e tutti i vallettiani, compreso il successore designato di Vittorio Valletta, Gaudenzio Bono. Erano i tempi della fondazione di Togliattigrad. Quando Valletta morì, pochi mesi dopo, nell'agosto del 1966, Agnelli, oramai con la corona saldamente in testa, era sul panfilo, al largo del Vietnam. Negli stessi anni '60, Gianni Agnelli mise anche mano alle finanze di famiglia. Il centro di tutto era l'Ifi, (Istituto finanziario industriale) fondato dal nonno Giovanni proprio per gestire in modo unitario e programmato le eredità (e le vite) dei suoi discendenti. Ad esssi invece di azioni Fiat sarebbero state distribuite parti di Ifi. I nipoti del primo senatore Agnelli, dodici, ricevettero tutti lo stesso numero di azioni, tranne Gianni, che ne ebbe quattro volte tanto, per segnare il suo primato. Il nonno Agnelli voleva evitare che la nuora avesse voce in capitolo attraverso ei figli e in generale che le donne avessero qualche responsabilità. A cento anni dalla fondazione, nessuna donna ha mai fatto parte di un consiglio di amministrazione Fiat o Ifi. Dal 1946 al 1959 Gianni fu vicepresidente dell'Ifi, lasciando i compiti di rappresentanza al cugino Giovanni Nasi, di poco maggiore. Di fatto l'Ifi, governato anch'esso da Valletta, fece altri investimenti, utilizzando i dividendi Fiat e il potere industriale e finanziario Fiat; vanno ricordati la Riv di Villar Perosa, fabbrica di cuscinetti a sfera, e il materiale fotografico di Ferrania,. Altri investimenti erano ancor più strettamente connessi con l'attività centrale della Fiat: tra questi le assicurazioni della Sai, specializzata nella responsabilità civile automobilistica e il cemento dell'Unicem, con cui costruire le strade che le auto Fiat avrebbero percorso. Poi la squadra di calcio e la stazione sciistica del Sestriere, per il divertimento operaio e il riposo dirigenziale.

Quando nel 1959 Agnelli divenne presidente dell'Ifi, si attribuì compiti di alta rappresentanza, lasciando l'attività di tutti i giorni a Gaetano Furlotti, un esperto di finanza scelto tra i dirigenti Fiat. I rapporti tra Fiat e Ifi presero nuovi indirizzi: e Gianni, presidente di entrambe, stabilì un forte potere personale sulla fabbrica e sulla cassaforte di famiglia. Il potere personale era tale che l'Ifi esercitava un controllo completo con un terzo delle azioni soltanto. Al contrario di tutte le altre maggiori imprese quotate in borsa, come le imprese elettriche, la Fiat mantenne un orgoglioso distacco dal resto dei capitalisti italiani. Per lunghi decenni non ammise nel consiglio di amministrazione esponenti di altri gruppi. Non aveva bisogno di controlli incrociati che erano invece la norma per le altre grandi imprese.Nel consiglio di amministrazione della Fiat, negli anni d'oro di Agnelli, un terzo dei membri erano Ifi, cioè rappresentanti della proprietà; un terzo Fiat, cioè rappresentanti della gestione e un terzo banchieri alleati dell'Ifi, spesso svizzeri o francesi.

Gli anni a cavallo del 1960 furono quelli del boom. La seicento cambiò la geografia dell'Italia, e tutto sembrava a portata di mano. Le macchine straniere erano ancora penalizzate; il mercato comune entrava in funzione a tappe. Il contratto metalmeccanico del 1962 prpose di ridistribuire almeno in parte il recente benessere; per questo fatto, sommato alla nazionalizzazione elettrica, gli industriali e i banchieri dichiararono la fine degli anni d'oro. Occorreva una lezione - la prima di una lunga serie - agli operai. Il credito si faceva più costoso, l'autofinanziamento languiva. Per far fronte alle necessità di investimenti Fiat, evitando però soci di peso (le industrie ex elettriche avevano 1.500 miliardi di lire d'allora da spendere!) l'Ifi di Gianni Agnelli vendette Ferrania a 3M (uno dei primi investimenti americani che avrebbero caratterizzato gli anni '60 in Italia) e la Riv agli svedesi di Skf. Va notato che Villar Perosa era il luogo d'origine della famiglia Agnelli e Gianni fu per decenni il sindaco del paese. Il contratto del 1966 andò male, ma la risposta fu il contratto del 1969, l'autunno caldo. Gianni Agnelli insieme a al suo gemello Leopoldo Pirelli era ormai uno dei protagonisti. Gli operai ottennero non solo le 65 lire di aumento orario che avevano richiesto, ma nuove condizioni di lavoro, pensioni più umane, più potere, in fabbrica e fuori.

I primi anni '70 furono gli anni della Montedison. Questa era uscita dalla stagione delle fusioni elettriche come il centro del capitalismo italiano, ma era anche il luogo delle scorrerie per ogni risma di affaristi e di pirati. Nel 1968 vi era stata la scalata dell'Eni (e dell'Iri) che aveva portato alla presidenza Cesare Merzagora. Ma era pronto a prendere il potere Eugenio Cefis, presidente dell'Eni, una volta ottenuto il consenso degli altri grandi nomi dell'industria e della finanza italiane e naturalmente della Banca d'Italia e del governo.

Agnelli ha altro da pensare, nel 1970. La Fiat chiede e ottiene l'impianto siderurgico di Piombino, strappandolo all'Iri, con la minaccia di importare l'acciaio francese di Fos; il governo che ha promesso il quinto centro siderurgico a Reggio Calabria (Gioia Tauro) dice un altro sì. Sono gli ultimi fuochi dell'acciaio italiano. Intanto, è saltata la convertibilità del dollaro e, dopo la guerra del kippur, si accende l'inflazione da petrolio.

Il presidente della Fiat , nel 1974 capisce prima di altri che è il momento di stabilire un patto con i sindacati. Ottiene facilmente l'elezione a presidente della Confindustria e inizia una trattativa, per vari aspetti personale, con Luciano Lama segretario della Cgil che porterà a stabilire il punto unico di contingenza, all'inizio del 1975. La rincorsa di prezzi e salari non partirà mai alla pari, ma sarà un po'meno ingiusta. L'anno seguente, con uno straordinario colpo di scena la Fiat chiama in primavera ed espelle in estate l'uomo del destino, Carlo De Benedetti. Nessuno ha mai capito bene cosa sia avvenuto: forse De Benedetti, arrivato per tenere in caldo il posto di Umberto Agnelli, eletto senatore a Roma, era troppo invadente e voleva soppiantare la proprietà degli Agnelli; forse per Gianni Agnelli erano preferibili le proposte di Cesare Romiti, allora responsabile finanziario: le alleanze esterne e la ristrutturazione interna della Fiat; o forse ancora il pugno di ferro praticato da De Benedetti nei confronti di impiegati e operai era considerata eccessiva. A distanza di poche settimane, infine, entrava nel capitale Fiat un socio imprevedibile, la banca libica. Il decennio si chiude con un'altra lotta contrattuale che comincia con la minaccia di licenziamenti e la richiesta di svalutazione della lira (intervista di Umberto Agnelli) passa attraverso i 35 giorni alla Fiat, con le fabbriche chiuse e con la marcia dei quarantamila che concludono il decennio. Gianni Agnelli non è però in prima fila; ormai tocca a Romiti.

Negli anni '80 Agnelli rimane defilato. La Fiat comincia il decennio cercando, senza riuscirvi, di impedire alla Nissan di arrivare in Italia: in effetti i rapporti con il governo non sono i migliori; e nasce l'Arna, la Cherry italiana. D'altra parte Fiat tenta un accordo alla pari con Ford Europa; gli amici americani di Gianni Agnelli, come Henry Ford II, sarebbero molto favorevoli, ma c'è disaccordo sul nome del successore di Vittorio Ghidella che - dato il successo importante della sua uno - sarà il primo a comandare. Agnelli non ci sta; vuole che sia sempre a Torino, a casa Agnelli, il comando. L'accordo così salta. Subito dopo la Ford vuole rifarsi comprando l'Alfa Romeo. Gianni Agnelli e Romiti si rifanno vivi a Roma e all'ultimo momento ottengono dal governo Craxi di sostituirsi a Ford, nonostante la proposta sia peggiore. La Fiat ha pescato intanto nel disastro del banco Ambrosiano, travolto da P2 e crolli bancari: arrivano nella sua orbita il Corriere e l'assicurazione Toro.

Cossiga nomina Gianni Agnelli senatore a vita e Agnelli è sempre più lontano dalla Fiat di tutti i giorni, mentre svolge attività politica, anche per interposta persona. La sorella Susanna sarà sottosegretario e poi ministro degli esteri. Agnelli senatore si fa notare quando, esprimendo il suo voto decisivo, boccia Giovanni Spadolini (che ne morirà poco dopo) per la presidenza del senato ed elegge Carlino Scognamiglio, rampollo della Milano bene.

Agnelli ormai è un politico come gli altri; solo che invece di un pacchetto di voti ha centomila operai dietro di sé. E dunque, dopo aver deriso De Mita come intellettuale della magna Grecia, è sempre più ricercato dai giornalisti che pensano di illuminare un pezzo con una battuta di Agnelli. Gli chiedono se la nostra sia effettivamente una repubblica delle banane; e Agnelli, sferzante, corregge: non di banane si tratta ma di fichi d'india. Si tratta di discutere l'estromissione recente dell'amico Renato Ruggiero dal ministero degli esteri nel secondo governo Berlusconi. Ma anche Agnelli ha fatto il suo tempo, non è più l'ambasciatore dell'Italia splendente; crudelmente Silvio Berlusconi se ne è accorto; lui che preso da innamoramento, roso dall'invidia, raccontava di tenere sul comodino la fotografia dell'avvocato.

Guglielmo Ragozzino
Roma, 25 gennaio 2003
da "Il Manifesto"