Un destino strettamente intrecciato con la vita e la morte di Fiat Auto, le vicende dell'Italia e la storia industriale del Novecento

L'inverno del patriarca

Negli ultimi anni Gianni Agnelli conservava un potere ancora enorme di decisione e di influenza

Gianni Agnelli, di Andy Warhol
Gianni Agnelli, dipinto di Andy Warhol

E adesso è davvero la fine del "secolo breve". In Italia l'era della Fiat e dell'auto è volta a un definitivo tramonto, con la scomparsa del suo presidente d'onore, deceduto ieri all'alba, a 82 anni, nella sua casa di Villar Perosa. Gianni Agnelli si è sottratto così, "just in time", al giudizio degli uomini, per lo scempio che egli e la sua vorace e incontenibile famiglia hanno fatto della loro stessa creatura, la Fiat, e dei lavoratori che per decenni, lungo l'intero Ventesimo secolo, hanno sputato sangue, sudore e lacrime, per garantire a tutti loro potere, prestigio e profitti.

Per quasi sessant'anni l'Avvocato è stato il capo carismatico di un impero industriale e di un mondo che, dal profondo Piemonte e dalla sua capitale, è diventato a mano a mano modello di vita e di sviluppo del made in Italy: da Torino all'Aquila, da Cassino a Melfi, e fin sotto i contrafforti dei Nebrodi e delle Madonie, con l'insediamento di Termini Imerese, passata in pochi anni dalla vocazione ortofrutticola alla precarizzazione industriale.

Gianni Agnelli aveva 24 anni quando, morto il nonno Giovanni, fondatore della Fabbrica Italiana Automobili Torino - e per questo nominato senatore del regno da Benito Mussolini, «per straordinari meriti imprenditoriali» - la presidenza della Fiat andò a Vittorio Valletta e lui, giovanissimo e gaudente play boy internazionale, ne divenne il vicepresidente.

Guerra e affari

Era il 1945, appena finita la Seconda Guerra Mondiale, con l'economia italiana rasa al suolo da cinque anni di conflitto e da venticinque di un fascismo autarchico, bellicista e fratricida che consegnò il Paese al nazismo e ne condivise gli orrori. Era l'Italietta di provincia squadernata senza pietà e con infinita pietà dai film di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. Un'Italia in bianco e nero, miserrima e analfabeta. Un paese da ricostruire per intero: strade, ponti, case, fabbriche, scuole, ospedali. E mezzi di trasporto.

Per la Fiat è un'occasione da non perdere. La politica del lavoro di quegli anni è incentrata sulle emigrazioni. Torino diventa uno dei poli di attrazione per migliaia e migliaia di disoccupati del Sud. Un flusso sterminato di gente, "proletari", che trova non più in America, in Francia o nelle miniere del Belgio il punto di approdo, ma che, con le sue squinternate valigie di cartone legate con lo spago, comincia ad andare su e giù per la Penisola, dapprima nei vagoni di legno dei "treni della speranza" e poi, a poco a poco, a bordo delle mitiche Seicento, stracariche di bambini e di bagagli. Ogni volta una migrazione di interi nuclei famigliari.

In fabbrica, lavoro duro, cottimo, schedature e pugno di ferro con il sindacato: la Federazione dei lavoratori metallurgici, quelli che diventeranno nel giro di pochi anni le celeberrime e celebrate "tute blu", punto di riferimento di tutte le altre categorie e dell'intera classe operaia italiana. Fino alla creazione, sul modello americano, del famigerato "sindacato giallo", per spaccare la Cgil, depotenziare la forza d'urto degli operai, fiaccarne l'intelligenza, la volontà, la solidarietà.

In oltre vent'anni, fino al Sessantotto, l'Italia conosce una crescita insperata. I primi segnali del "nuovo che avanza" sono la Lambretta e la Seicento. Ma saranno la Vespa e la Cinquecento a diventare nell'immaginario collettivo i simboli, anche individuali e giovanili, di uno sviluppo che presto diventa "boom economico", su cui la Fiat impone il suo marchio e ne rappresenta la punta di diamante, soprattutto all'estero, dove l'industra italiana comincia a fare i primi passi.

Nel 1966 Gianni diventa presidente della Fiat e da allora in poi sarà per tutti "l'Avvocato". Suo braccio destro - prima amministratore delegato e poi presidente, per venticinque anni - è Cesare Romiti. La gestiranno in simbiosi, scambiandosi "il gioco delle parti" tra chi rompe con il sindacato e chi ricuce, tra chi impone la linea dura e chi incontra Luciano Lama, in una pantomima perfettamente riuscita, dalla gestione dell'Autunno Caldo (1969) fino alla marcia silenziosa dei Quarantamila (1980), passando dalle liste di proscrizione delle "teste calde" e dal licenziamento dei "comunisti".

Attraverso alterne fortune societarie e industriali, l'azienda torinese ha continuato per mezzo secolo a tirare dentro o a mettere fuori forza lavoro, drenando denaro pubblico e contrattando provvidenze e sovvenzioni con tutti i governi che si sono succeduti, da De Gasperi a D'Alema, pretendendo i finanziamenti per il Mezzogiorno che la "gran Cassa" ha copiosamente elargito per il "salvataggio" dell'Alfasud di Pomigliano D'Arco e per gli insediamenti prima siciliani, a Termini Imerese, e poi lucani, a Melfi.

Stato e Famiglia

E giù giù chiedendo continue risorse allo Stato. Ché neppure la Fiat è riuscita ad essere un'industria di mercato, nelle storture storiche e nei vizi di fondo del capitalismo italiano: "straccione" lo definì Antonio Gramsci, perché vocato più a pietire e a vivere di elemosina pubblica - e che elemosina - che a rischiare in proprio; come dimostra anche la più recente invenzione della "rottamazione" e da ultimo della "conversione ecologica", nell'alternativa imperiosa di rottamare vecchie auto al posto di migliaia di posti di lavoro. Anche se i posti di lavoro poi sono stati rottamati lo stesso.

Agnelli sarà sempre in prima linea, facendo da un lato l'ambasciatore speciale dell'Italia all'estero: dagli Stati Uniti, dove sarà "guest star" dell'associazione italiani-americani Niaf e intimo amico di personaggi come Henry Kissinger, all'Unione Sovietica, dove sbarcherà con gli impianti di Togliattigrad e con la benedizione di quello stinco di santo di Leonid Breznev. E facendo, dall'altro, il presidente di Confindustria in pieno "compromesso storico", in mezzo all'ennesima crisi economica e sotto la minaccia del terrorismo. La Fiat anticiperà e seguirà le vicende del Paese, adattando se stessa alle fasi di espansione e a quelle di contrazione, facendone sempre pagare il prezzo ai suoi operai, sfruttati quando le cose vanno bene, "tagliati" quando vanno male.

Dinasty

La famiglia, intanto, si mescolerà con disinvoltura alle vicende politiche nazionali, un po' con il fratello maggiore Umberto, eletto senatore democristiano, un po' con la sorella Susanna: esponente repubblicana, ministra degli Esteri, oggi deputata europea. Nel 1991 anche Gianni sarà nominato senatore a vita dall'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. In questa veste ha un atteggiamento pragmatico: sostiene l'Ulivo quando si tratta di fare sacrifici e stringere la cinghia per l'ingresso dell'Italia nell'euro; nel 2001 si schiera invece con il Polo: il tempo dei sacrifici è finito e l'industria ha bisogno di flessibilità e libertà d'azione. Ma l'idillio con Berlusconi dura poco: fino alla stroncatura del "suo" ministro degli Esteri ed "eccentrico" amico Renato Ruggiero, sostituito ad interim dallo stesso Cavaliere, rimpiazzato poi con l'invisibile Franco Frattini. In quell'occasione Gianni Agnelli conierà lo sferzante giudizio sul nostro Paese, ridotto dai nuovi parvenu a una «repubblica dei fichidindia».

Nel 1996 Gianni passa la mano a Cesare Romiti, che rimane in carica fino al '99, a cui elargirà, al momento dell'uscita di scena, una liquidazione di 195 miliardi di lire e il viatico per la scalata alla Rizzoli-Corriere della Sera. Lo sostituisce con Paolo Fresco: uno che arriva dritto dritto dagli "States"; un avvocato genovese diventato vicepresident della General Electric. E venti milioni di euro saranno "regalati" persino a Paolo Cantarella, autore del disastro di Fiat Auto.

Dopo le morti premature e drammatiche del nipote Giovannino e del figlio Edoardo, Gianni vorrà in consiglio di amministrazione il nipote John "Jack" Elkann. Ma, scomparso Giovannino - che della Fiat era l'erede designato e si stava "facendo le ossa" in Piaggio - sul futuro dell'azienda si sono addensate nubi sempre più nere, ancor più grevi dopo le chiusure "temporanee" di Termini Imerese e dell'Alfa di Arese, con i lavoratori in cassa integrazione a zero ore, senza certezze di rientro.

E intanto lo scettro passava dalle mani di Gianni "l'industriale", già seriamente malato, a quelle di Umberto "il finanziere", ieri subito nominato ai vertici della Sap, e degli uomini a lui più vicini, come quel Gabriele Galateri di Genola, uomo Ifi subentrato a Cantarella nonché marito di Evelina Christillin, mente della cordata "trasversale" che dovrebbe trasformare Torino: le sue aree pregiate, i manufatti di prestigio e le attività, passando dall'industria all'enterteinment, in vista delle Olimpiadi invernali del 2006.

Dopo 136 giorni anche il fedelissimo Galateri getterà la spugna, "mollando" la patata bollente ad Alessandro Barberis, direttore generale e quarto amministratore delegato nel giro di un anno, in attesa che dal "fondovalle" in cui si trova per ora il Lingotto appaia sulla scena qualcosa di più dell'ombra dei "cavalieri erranti" che si accapigliano per avere le spoglie dell'azienda a quattro palanche, senza pagarne la caterva di debiti e lasciando per strada altre migliaia di dipendenti.

Gli ultimi interessi

Sta di fatto che gli interessi degli Agnelli si sono spostati dall'auto, sempre più in crisi, ad altri settori come l'energia; ma soprattutto verso il "capitalismo virtuale", sempre meno impegnato in attività industriali e sempre più centrato su partecipazioni finanziarie laddove e ovunque le bolle speculative, le rendite parassitarie o le condizioni politiche consentivano di massimizzare i profitti o di scivolare via con nonchalance nello slalom delle perdite, scaricate sui gropponi di Brasile, Argentina e via andando. Per questo, subito dopo l'arrivo di Fresco, il gruppo ha firmato uno scambio di quote che ha visto la General Motors acquisire il 20% di Fiat Auto. Ma mentre la "famiglia" ha già dovuto vendere le sue azioni americane, gli uomini di Detroit "aspettano sulla riva del fiume" quelle decisioni che proprio ieri la Sap Giovanni Agnelli & C. si apprestava ad assumere.

Negli ultimi anni Gianni Agnelli conservava un potere ancora enorme di decisione e di influenza. Per ultimo si è sentito in dovere di "restituire" alla sua città, «per condividere con lei l'amore per il bello», una parte del patrimonio artistico confluito nel lascito della "Fondazione Giovanni e Marella Agnelli". Ne fanno parte due Picasso, sette Matisse e molte vedute di Venezia del Canaletto, città molto amata dall'Avvocato e sede di un'altra fondazione di grande prestigio quale Palazzo Grassi. L'ultima donazione alla città di Torino si trova ora nello "Scrigno": una specie di astronave di vetro progettata da Renzo Piano e poggiata sul tetto del Lingotto, l'antica fabbrica di automobili divenuta il "cuore culturale" della città.

Così Giovanni Agnelli ha preparato la fase conclusiva della sua vita, giocando fino alla fine il ruolo di mecenate e di sovrano di un impero che gli si è andato sfaldando tra le mani, assieme ai destini di Torino e, forse, dell'intero Paese. Fino a che "'a livella" lo ha riportato alla sua ultima e mortale dimensione umana.

Gemma Contin
Roma, 25 gennaio 2003
da "Liberazione"