Le conseguenze negative della guerra comprometterebbero una ripresa duratura dell'economia mondiale, che già di per sé versa in condizioni non certo floride

Venti di guerra, economia gelata

Il clima generale è in questo momento dominato dal timore di una guerra imminente, le cui conseguenze negative comprometterebbero una ripresa duratura dell'economia mondiale, che già di per sé versa in condizioni non certo floride. Non è un caso che perfino un conservatore come il presidente della Banca centrale europea abbia dichiarato ieri che non è possibile ridurre i tassi di interesse ufficiali a causa della possibile guerra all'Iraq. D'altro canto, si susseguono sulla stampa dichiarazioni di economisti, analisti e cosiddetti esperti di ogni genere, i quali sostengono che il peggio è passato e le forze positive sono di nuovo all'opera per le sorti magnifiche e progressive della libera economia di mercato.

Parabola discendente

Quanto siano fallaci questi proclami di ottimismo, lo aveva rilevato addirittura l'Economist in un suo editoriale di alcuni mesi fa: «Tuttora la maggior parte degli economisti continua a prevedere una crescita robusta del 3-3,5 per cento nei prossimi 12 mesi. Molti di questi sono gli stessi che alla fine degli anni '90 negavano che l'America stesse sperimentando una bolla e che insistevano lo scorso anno sull'inesistenza della recessione. Essi sbagliavano allora e probabilmente sbagliano di nuovo.

La fase discendente dell'economia americana non è stata ancora superata. Un periodo protratto di lenta crescita, forse addirittura un ulteriore calo della produzione, comporterà nuovi dissesti finanziari del tipo Enron e WorldCom». (The unfinished recession, The Economist, 28 settembre 2002, p. 3).

Riferendosi alle conseguenze economiche generali di una guerra all'Irak, il noto economista statunitense, William Nordhaus, in un'intervista al settimanale liberale tedesco Die Zeit Del 16 gennaio 2003, prospetta vari scenari, che vanno da quello più tranquillo a quello catastrofico. Il primo, una guerra breve e vittoriosa degli Stati Uniti, corrisponde grosso modo a situazione e prospettive a breve termine dell'economia mondiale, che appaiono le più probabili anche in assenza di guerra, ossia una vera e propria ripresa appena nel 2004. Il secondo, una guerra lunga che si diffonde in tutti i paesi dell'area medio-orientale traducendosi in una recessione mondiale profonda che durerà anni.

Esaminando la situazione attuale dei paesi capitalistici sviluppati, si nota che nei due paesi, Gran Bretagna e Stati Uniti, in cui i tassi di crescita (1,7 e 1,3 per cento in media del pil nel 2001-2002) sono più favorevoli rispetto al ristagno dell'area dell'euro (1,1 per cento), i fattori propulsivi sono di carattere effimero. Essi sono, infatti, rappresentati dall'aumento dei consumi privati (3,8 e 2,8 per cento) e degli investimenti residenziali (5,2 e 1,9), che a salari reali fermi costituiscono la forma di impiego delle rendite dei ceti più ricchi, finanziate in parte con un crescente indebitamento verso l'estero. In questa fase, quindi, la prevalenza della finanza sull'economia reale si esercita attraverso la spesa a debito in consumi vistosi, che difficilmente possono essere il perno di una domanda durevole.

Impero finanza

Le politiche economiche congiunturali, sia monetarie che fiscali, sono generalmente espansive; quelle di bilancio mostrano un incremento della spesa pubblica di 1 punto e mezzo percentuale fra il 2000 e il 2002 nei paesi capitalistici sviluppati nel loro complesso che, insieme alle minori entrate derivanti dalla stasi congiunturale, hanno fatto sì che il disavanzo sia cresciuto di tre punti percentuali nel biennio scorso. C'è peraltro bisogno di ben altro per stimolare una duratura ripresa.

C'è urgenza di politiche strutturali, ma non di quelle suicide richieste dai fondamentalisti liberali, di sempre maggiore flessibilità del lavoro, dei salari e delle condizioni di vita di larghe masse della popolazione, a maggior gloria di una ristrettissima cerchia di super ricchi in marcia verso un nuovo feudalesimo.

C'è bisogno di politiche che spezzino la prevalenza della finanza sull'economia reale con i suoi effetti deleteri, riscontrati negli anni '80 e '90 del secolo scorso, sulle condizioni di accumulazione del capitale e quindi di una crescita economica guidata dall'obiettivo del risanamento ecologico e della distribuzione solidale del reddito e della ricchezza a livello nazionale e internazionale. Per capirci, gli stessi Stati Uniti, invece di imbarcarsi in un guerra criminale dalle conseguenze imprevedibili, avrebbero occasioni di investimento enormi se ponessero mano a una riqualificazione delle loro disastrate infrastrutture civili.

Spese risicate

Un noto studioso del complesso industrial-militare, come Seymour Melman, ha di recente quantificato in 2mila miliardi di dollari la spesa necessaria in opere pubbliche per risanare le infrastrutture degli Stati Uniti. Con l'attuale governo guerrafondaio questo resta un pio desiderio; come dimostra il disastro dello Shuttle, Bush risparmia perfino nelle spese che, oltre ad alimentare il prestigio del Paese nel mondo, hanno una ricaduta sul settore militare ma non contribuiscono a mostrare i muscoli.

Elvio Dal Bosco
Roma, 9 febbraio 2003
da "Liberazione"