Per di più è una legge delega discrezionale, dai criteri vaghi

Riforma fiscale, riforma di classe

Purtroppo il Parlamento ha definitivamente approvato un'amplissima delega al governo in materia fiscale, che quindi è diventata legge dello stato. Con questo atto il centrodestra realizza un altro punto del suo programma, e si tratta di un punto pesante. L'intera legislazione fiscale viene ridisegnata. A poco serve dire, come hanno fatto alcuni sindacalisti, che dipenderà molto dai decreti attuativi. Su di essi il Parlamento avrà poca o nulla voce in capitolo, poiché essi passeranno solo dalle competenti commissioni parlamentari per un semplice parere.

E qui sta, appunto, il primo enorme elemento negativo. Come già per le leggi delega sul mercato del lavoro, sulle pensioni, sulla scuola - cito a rinfusa, ma c'è solo l'imbarazzo della scelta - i principi costituzionali che sovraintendono alla delega al governo in materia legislativa sono del tutto travolti. I criteri e i principi della delega diventano vaghi e indistinti e quindi quest'ultima diventa ampiamente discrezionale. In questo modo avanza un nuovo modello di legiferazione, che tende sempre più pesantemente a cancellare la separazione del potere legislativo da quello esecutivo, mortificando e soffocando il primo a esclusivo vantaggio del secondo. Se il Parlamento già ora appare lontano dai cittadini, ancora di più lo è un governo che si arroga oltre i limiti che gli sarebbero consentiti - e che secondo la Costituzione italiana dovrebbero essere molto severi - la potestà legislativa.

Tutto questo è ancora più grave visto la materia di cui stiamo parlando, il fisco, per il quale la Costituzione stabilisce il principio della progressività, per cui chi più ha più dovrebbe contribuire alle spese dello stato. Infatti la legge votata stabilisce che entro il 2006 l'intero ordinamento fiscale verrà modificato riducendo l'attuale numero di aliquote, pari a cinque, a due sole, il 23 per cento per i redditi fino a 100 mila euro e il 33 per cento per quelli superiori. E' evidente che in questo modo - in un paese che ha il più alto tasso in Europa di evasione fiscale, alla quale ovviamente non possono partecipare, neppure se lo volessero, i percettori di redditi da lavoro dipendente - si favoriscono i ceti più abbienti, i ricchi, le grandi imprese, i professionisti. Tutti questi pagheranno meno, mentre il sistema delle deduzioni fiscali, che dovrebbero secondo la propaganda governativa portare ad un riequilibrio nel trattamento dei diversi redditi, rimane assai indefinito. Come è stato autorevolmente affermato persino dalle colonne del Sole-24 Ore, la legge comporta la pratica soppressione del principio della progressività e la discriminazione tra i redditi delle persone fisiche. Questi ultimi verrebbero definiti con procedure (come gli studi di settore o il famigerato concordato triennale, già approvato nel contesto della legge finanziaria) anziché in base ai loro elementi costitutivi, mentre gli unici ad essere individuati senza possibilità di errore o di scappatoie resterebbero i redditi derivanti da un rapporto di lavoro subordinato. In altre parole ancora e assai più ingiustamente di prima, l'architrave del gettito fiscale, chi cioè paga le spese dello stato, sono i lavoratori dipendenti.

"Meno tasse per tutti", lo slogan su cui si è tanto ironizzato delle destre in campagna elettorale, si è dunque tradotto in meno tasse per i ricchi. Il reaganismo di cui è profondamente intrisa la ricetta economica delle destre, al di là di qualche tentativo di aggiornamento, fa quindi valere i suoi diritti. Le conseguenze per le mancate entrate sono considerevoli e stimabili attorno ai 20-22 miliardi di euro. Il che significa che lo stato avrà meno risorse a disposizione da destinare alla spesa sociale. La controriforma fiscale ora approvata è quindi il presupposto finanziario della liquidazione dello stato sociale, della americanizzazione spinta di quello che un tempo, pur nelle diversità tra i vari paesi, si poteva a ragion veduta chiamare modello sociale europeo. La concentrazione di ricchezza nelle classi dominanti continua dunque su molti piani, su quello dello spostamento a favore dei redditi da capitale a scapito di quelli da lavoro, dal momento che i rapporti tra i due sono indietreggiati al livello dei primi anni sessanta del novecento; su quello della diminuzione rapida e consistente della tassazione dei più ricchi; su quello dello smantellamento di uno spazio pubblico che costringe le classi lavoratrici e meno abbienti ad acquistare servizi che una volta erano pubblici e gratuiti perché entravano nella sfera dei diritti collettivi.

Ma poiché un disegno così perverso, tale da risultare di difficile digestione anche a qualche sopravvissuto sincero spirito liberale, non pareva bastare, ecco che il Senato in seconda lettura ha peggiorato ulteriormente il testo proposto dal governo e la Camera ha ovviamente approvato. Così possiamo leggere nel testo dell'ormai legge, che chi favorisce la flessibilizzazione delle retribuzioni al fine di rendere i lavoratori partecipi dell'andamento economico dell'impresa, riceverà ulteriori favori fiscali. Una norma di pretto stile neocorporativista completa il quadro. Non solo si è annullata la libera disponibilità delle liquidazioni per i lavoratori nella legge delega sulle pensioni, ma qui si fa un passo in avanti. Mentre la commissione lavoro della Camera è ancora impegnata sul testo di legge, non a caso proposto da Alleanza Nazionale, sulla partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese, la maggioranza di governo decide di "oliare" in anticipo il meccanismo delegando l'esecutivo a stabilire in questo caso favori fiscali. Per questa strada si vogliono ottenere due obiettivi che con forza andrebbero respinti. Il primo è quello di ricreare una sorta di "aristocrazia operaia": infatti nell'attuale globalizzazione un'azienda può avere la testa in Italia e il resto del corpo sparso tra i paesi dove il costo del lavoro è più basso. Come si sa non è un'ipotesi fantasiosa ma quasi certa. In questo caso i lavoratori compartecipi degli utili sarebbero attirati verso un interesse a mantenere bassi i salari dei loro colleghi nelle unità produttive decentrate. In secondo luogo in questo modo, come già abbondantemente succede con la legge recentemente varata sulla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro - il famoso disegno di legge 848 - il sindacato verrebbe attirato verso una logica neocorporativa di compartecipazione subordinata al governo allargato delle imprese e dell'economia. Come si vede le disgrazie non vengono mai sole.

Alfonso Gianni
Roma, 28 marzo 2003
da "Liberazione"