Privatizzazioni: l'Italia arriva due volte in ritardo

Politiche dissennate, si persevera

Il caso emblematico dell'Enel

E in Italia? Dopo gli anni dell'"assalto alla diligenza", con le privatizzazioni selvagge del centrosinistra (in cui hanno eccelso Romano Prodi, Massimo D'Alema e Guliano Amato), che hanno prodotto l'evaporazione dell'Iri e l'immissione sul mercato di aziende-sistema, in tutto o in parte, come la Telecom, l'Enel, Ferrovie dello Stato, Autostrade, la Sme (la vicenda Cirio è solo uno degli anelli di quell'operazione oscura, su cui i magistrati tuttora cercano di fare chiarezza), il centrodestra procede senza entusiasmo. Non si sa se per mancanza di idee o per conflitto di interessi, o solo perché, più semplicemente, il cosiddetto "mercato", cioè i privati, si guardano bene dal mettere mano in saccoccia per tirare fuori risorse finora generosamente erogate dalla mano pubblica.

Il caso dell'Enel è emblematico e "scoperto", dopo il blackout del 28 settembre che ha "spento" l'Italia. Triripartita in produzione, trasporto e vendita; smembrata e mutilata di una ventina di centrali "obsolete" rivendute a tre consorzi privati; data in gestione la rete al Grtn, il famoso Gestore della rete di trasporto nazionale. L'ex monopolista energetico "non è più in sé", essendo stato ricombinato (sotto la guida "sinistra" di Chicco Testa e Franco Tatò) in una accozzaglia di una trentina di società che gestiscono - con grande dispendio di consigli di amministrazione e con la moltiplicazione di top manager e direzioni generali - quello che prima la società gestiva unitariamente, portando la luce fin nel più sperduto pizzo di montagna del profondo nord o l'estrema frazione rurale del profondo sud o isolotto in mezzo al "mare nostrum".

In compenso, l'Enel è diventata un mostro a più teste: una "multiutility", per dirla con Tatò, che ha diversificato la sua attività tra telefonia, acquedotti, partecipazioni in società e consorzi di gestione. E si appresta a entrare nel business delle fonti energetiche, in concorrenza con Eni e Montedison, che hanno nel frattempo fatto il percorso inverso, per entrare nel grande "circo della luce" che si ritaglierà le fette della ricostruzione nei Balcani, nei paesi dell'allargamento a est dell'Europa e, perché no, in quel poco o quel tanto di business afgano o iracheno distribuito in briciole dagli Usa anche all'Italia, in cambio della sua "bellicosa" fedeltà.

Di uguale natura e vocazione sono state le operazioni riguardanti la Telecom piuttosto che le Ferrovie o le Autostrade, in un continuo travaso tra pubblico e privato di risorse erogate a fiumi per renderle appetibili a compratori assai avari; tagliandole a fette, segando i cosiddetti "rami secchi", esternalizzando interi settori di attività, immobili, servizi ausiliari e soprattutto manodopera. Fino alla diaspora di pezzi dati in outsourcing, di branche in appalto, di lavoratori in subappalto.

Come stanno lì a rivelare le catastrofi occupazionali delle ditte di catering dell'Alitalia e degli aeroporti, o quelle di pulizia di treni e stazioni, o di manutenzione delle reti: elettrica, di telefonia, ferroviaria e autostradale. Fino ai trasporti urbani, alle centrali del latte, alle società di igiene ambientale o di riciclaggio dei rifiuti, non a caso a rischio di penetrazione mafiosa e camorristica. E giù giù per li rami, fino alla più recente "estrapolazione" dell'Anas dai conti pubblici, nel tentativo disperato del ministro Tremonti di ridurre le voci di spesa e l'incidenza del deficit sul Pil.

Così l'Italia arriva all'appuntamento con la storia delle privatizzazioni con un doppio ritardo: il primo, per non aver saputo portare a compimento una scelta tra pubblico e privato che almeno avrebbe avuto il vantaggio di costringere il capitalismo domestico a tirar fuori le sue risorse, mettendo mano alla borsa e affrontando il rischio di navigare in "mercato aperto", tanto reclamato ma praticato assai poco e malvolentieri.

Il secondo perché, mentre in Francia e in Germania la mano pubblica non ha mai abdicato al controllo di comparti strategici come le tlc e l'energia, e mentre nel Regno Unito e in altre parti d'Europa le privatizzazioni di settori portanti come ferrovie e metropolitane, trasporto aereo, persino le banche, sono oggetto di ripensamento e di seri e avanzati progetti di "rinazionalizzazione", in Italia, in attesa del denaro pubblico per le Grandi Opere, i privati stanno a guardare leccandosi i baffi, mentre il governo un po' lascia andare in malora quello che una volta era pubblico e un po' lascia fare, o non fare, a ciò che dovrebbe essere "il primato del privato" e che invece è solo la recitazione della controversia liberista.

Gemma Contin
Roma, 26 ottobre 2003
da "Liberazione"