Oggi è assolutamente giusto partire dall'esigenza primaria della rivalutazione dei salari, falcidiati da molti anni a questa parte. Ed è egualmente giusto mettere l'accento sull'obiettivo del salario sociale.

Il salario variabile indipendente?

Qualche riflessione su una tesi emersa nel dopo '68

Nel gran rimescolio politico-teorico di questi ultimi anni si è delineata una tendenza a riferirsi a concezioni e strategie, che, ben lungi dall'essere nuove e originali, costituiscono una rivalutazione di formulazioni del passato.

Rivalutazioni del genere non vanno rifiutate in linea di principio: dopo tutto, alcuni dei principali scritti di Lenin sono un esplicito ritorno a Marx ed Engels a confutazione della vulgata socialdemocratica, si ispirasse a Bernstein o meno. Tutto sta nel verificare la validità intrinseca delle rivalutazioni prospettate. Non ritorniamo qui sul riemergere di concezioni premarxiste proprie del socialismo idealistico o utopistico su cui siamo già intervenuti. Suggeriamo qualche riflessione su una tesi emersa nel dopo ‘68, ma sposata per qualche tempo dal principale dirigente della Cgil, Luciano Lama, non sospettabile di infatuazioni rivoluzionarie: la tesi secondo cui il salario doveva essere assunto come una variabile indipendente. Una tale tesi comporta in realtà, lo si voglia o no, un rigetto dell'analisi e della critica marxiana al capitalismo. Con i tempi che corrono non forse inutile richiamare, sia pur schematicamente, i tratti essenziali di una società capitalistica:

  1. i produttori sono separati dai mezzi di produzione che sono monopolizzati da una classe ben definita, la moderna borghesia;
  2. la produzione è fondamentalmente produzione di merci;
  3. la forza-lavoro è essa pure una merce con relativo mercato: la sua specificità risiede nel fatto che solo una arte del valore che produce va al soddisfacimento dei bisogni di sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie, mentre dell'altra si appropriano i proprietari dei mezzi di produzione sotto forma di profitti.

E' significativo che questa suddivisione sia esplicitamente affermata in un contratto di lavoro dell'industria tessile di Liegi già nel remoto 1634. In realtà, una parte può aumentare solo a condizione che l'altra diminuisca, in termini assoluti o in termini relativi. Ecco il contenuto della lotta di classe in regime capitalista: i capitalisti cercano si ridurre il salario al minimo vitale fisiologico, mentre i lavoratori cercano di inserirvi il soddisfacimento di nuovi bisogni. In questo quadro, Il salario non è né può essere una variabile indipendente, come non lo è neppure il profitto.

Mezzo secolo di vicende economiche

Ricordiamo che, approssimativamente nell'ultimo mezzo secolo, si sono alternati periodi di crescita e periodi di contrazione dei profitti e, nei momenti di maggiore ascesa, grazie alle lotte operaie, cioè grazie a rapporti di forza socio-politici, aumentavano pure i salari. Grosso modo, alla metà degli anni '70 la tendenza si invertiva: erano colpiti duramente i salari, ma neppure i profitti restavano indenni (in molti settori si contraevano, in altri addirittura scomparivano). Circa vent'anni dopo questa nuova dinamica si sarebbe ulteriormente rafforzata perché il ristagno economico si prolungava e le lotte, anche imponenti, che ci sono state, erano segnate da sconfitte con gravi responsabilità delle direzioni sindacali. Non va dimenticato, infine, il condizionamento internazionale. Quando, nonostante tutte le distorsioni, l'economia sovietica continuava a crescere registrando successi clamorosi come le prime conquiste spaziali, le borghesia, soprattutto dei paesi dell'Europa occidentale, non poteva non tenerne conto nella definizione degli orientamenti sociali. Questo condizionamento via via si riduceva nel corso degli anni '80 per venir meno con la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento dell'Unione sovietica. Nell'era della cosiddetta globalizzazione, cioè della massima centralizzazione e internazionalizzazione del capitale, i tratti essenziali del capitalismo si sono accentuati all'estremo: quello che avviene in aree prima si margini dei processi economici, oggi influisce sempre più direttamente su quello che avviene, in particolare in materia di salari e di occupazione, negli stessi paesi capitalisti più sviluppati: salari e profitti sono meno che mai variabili indipendenti. Per parte nostra, siamo d'altronde convinti che anche sul dibattito sul salario variabile indipendente incide una diffusa sottovalutazione del carattere ciclico dell'economia che, certo, viene preso in considerazione analiticamente, ma non colto nel suo carattere essenziale e nella sua centralità per il funzionamento del sistema.

Partire dai salari e dal salario sociale

Tutte le considerazioni che abbiamo fatto non ci inducono affatto a ignorare che una formulazione errata teoricamente può avere una sua utilità propagandistica ed essere presentata come un obiettivo di lotta. Oggi è assolutamente giusto partire dall'esigenza primaria della rivalutazione dei salari, falcidiati da molti anni a questa parte. Ed è egualmente giusto mettere l'accento sull'obiettivo del salario sociale. Ma senza mai perdere di vista che perché il salario non sia più una variabile dipendente, cioè cessi di essere una merce, è necessario che non vigano più i rapporti di produzione capitalistici. Analogamente, è giusto avanzare obiettivi democratici nel quadro di una Unione europea costruita senza la partecipazione democratica dei popoli, ma non va dimenticato che una Europa veramente "altra" presuppone nuovi rapporti di produzione nel quadro di istituzioni politiche qualitativamente nuove, diremmo di natura consiliare. In conclusione, ci urtiamo a quella che resta la contraddizione cruciale di questa fase: trasformazioni rivoluzionarie appaiono sempre più indispensabili e urgenti per uscire da un contesto devastante di ristagno economico prolungato, se non di crisi tout court, di un succedersi di guerre senza fine e di galoppante distruzione dell'ambiente, ma non si sono ancora stabiliti rapporti di forza e raggiunti a livello di grandi masse livelli di coscienza necessari per queste trasformazioni. Aggiungiamo che non si contribuisce affatto a far evolvere favorevolmente la situazione semplicemente con il negare i problemi, pretendendo che non si pongano più, come fanno teorici come Holloway e, in certe prese di posizione, sia pure in misura e forme diverse, anche gli zapatisti. Per noi la scelta è assolutamente senza ambiguità: partecipazione attiva alla costruzione dei nuovi movimenti, senza cedere a nessuna tentazione manipolatoria, tenendo fermi punti di riferimento teorici e strategici, in ultima analisi, non meno ma più validi che in passato (il che esige ovvi aggiornamenti).

Livio Maitan
Roma, 30 aprile 2004
da "Liberazione"