Assemblea Nazionale Delegati CGIL - Chianciano Terme 13/14 Maggio 2004

ECCOCI

Aggregazione programmatica di sinistra in CGIL - Contributo alla discussione

INDICE

“Per una Cgil protagonista del cambiamento sociale”
“Welfare e Politiche Sociali”
“Globalizzazione e nuovo modello sindacale”

PRESENTAZIONE

Questo documento è frutto di una elaborazione tra le compagne e i compagni delle Aggregazioni programmatiche di “ECCOCI e FARE SINDACATO”.

Proponiamo questo lavoro comune come un contributo alla Conferenza di Chianciano Terme al fine di favorire una discussione più ampia, democratica e pluralista nel sindacato.

Con questa scelta intendiamo avviare sul piano nazionale anche un processo unitario capace di innovare la sinistra sindacale nella CGIL.

Assemblea Nazionale Delegati CGIL - Chianciano Terme 13/14 Maggio 2004

SOMMARIO

“Per una Cgil protagonista del cambiamento sociale”

Temi

Contro la guerra e la globalizzazione liberista e ciò che ne consegue sul piano economico ed etico. Rilancio del rapporto con i movimenti.

Difesa ed ampliamento dei diritti, estendere la democrazia e la partecipazione. Diritto di cittadinanza. Per i diritti degli immigrati, contro la Bossi-Fini.

Ricostruzione dell’autonomia contrattuale: dai contratti di lavoro alla lotta contro ogni forma di flessibilità e di precariato.

Due livelli contrattuali, democrazia di mandato (votare le piattaforme contrattuali). Legge sulla rappresentanza. No ad ulteriori limitazioni del diritto di sciopero nei servizi pubblici. Tutela del mercato del lavoro e ampliamento dei diritti dei lavoratori. Contro la legge 30 e il Libro Bianco di Maroni. Abolizione della Legge 30.

Riduzione dell’orario di lavoro (35 ore). Una nuova struttura del salario. Recupero salariale e ammortizzatori sociali.

Una nuova struttura del salario, aumenti salariali, una vertenza generale per il salario. Definizione di una nuova “scala mobile”. Superamento definitivo della concertazione. Riattualizzazione del conflitto di classe per un’equa redistribuzione del reddito, dell’orario e delle pensioni.

Miglioramento delle condizioni di vita degli anziani e dei giovani

Controllo dei prezzi e delle tariffe. Nuove politiche salariali e salario sociale. Politiche territoriali per lo sviluppo autocentrato.

Politiche regolative per i piani degli orari delle città e delle aree urbane (Commercio, Trasporti, Servizi pubblici, Produzioni di beni).

Riforma della CGIL

Il reinsediamento nei luoghi di lavoro e nei territori.

Il carattere militante e partecipato dell’organizzazione.

I luoghi della militanza. I luoghi e le modalità delle decisioni.

I criteri del pluralismo e di selezione dei quadri, dei gruppi dirigenti. Sindacato dei lavoratori e degli iscritti con la loro partecipazione attiva e determinante.

Capitoli

Introduzione; La fase della stagnazione liberista; Un progetto per cambiare; Vertenze generali per salario e stabilizzazione del lavoro; una moderna struttura del salario ed il progetto redistributivo ed ambientale; ricomporre la filiera produttiva ed il lavoro; un nuovo protagonismo dei lavoratori, da Mirafiori 1980 a Melfi 2004; una nuova militanza sindacale; autonomia sindacale

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“Welfare e Politiche Sociali”

Temi

Difesa e qualificazione dello Stato Sociale e del servizio pubblico

Una spesa sociale rispondente ai parametri europei: in rapporto alla disoccupazione, al livello di povertà, all’emarginazione e all’esclusione.

Per una riforma democratica dello Stato, contro il federalismo fiscale e per la giustizia fiscale

Una pressione fiscale con il criterio di prelievo progressivo su capitali, utili e rendite, diminuzione del prelievo sui lavoratori, restituzione di quanto prelevato dal fiscal drag attraverso interventi nelle detrazioni fiscali, aumento del prelievo su rendite e partecipazioni azionarie.

Uno Stato decentrato nelle competenze e nelle risorse, fondato sulla partecipazione attiva dei cittadini, ma non balcanizzato.

Amministrazioni Locali fondate sui criteri di partecipazione attiva e sulla costruzione partecipata dei Bilanci per la gestione delle politiche e delle risorse territoriali. Per il rilancio dell’occupazione, delle politiche per il Mezzogiorno e per una diversa politica industriale con un intervento attivo dello Stato, partendo dai territori.

Capitoli

Premessa; C’è ancora una questione femminile; dati e problemi; la sanità e la previdenza; alcune proposte; politica fiscale e redistribuzione; welfare locale ed allargato; note conclusive.

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“Globalizzazione e nuovo modello sindacale”

Temi

Difesa del Contratto nazionale e dell’autonomia sindacale. Sviluppo della partecipazione e del carattere militante e democratico del sindacato confederale

Partecipazione attiva (con il voto) dei lavoratori agli accordi sindacali. Riconquistare il potere sulle proprie condizioni di lavoro. Nuova contrattazione sull’organizzazione del lavoro. Estendere e rafforzare la democrazia sindacale e la partecipazione sociale. Legge sulla rappresentanza e difesa del diritto di sciopero.

Lotta per un diverso sviluppo economico e sociale compatibile con le risorse ambientali

Lotta per la sicurezza nel posto di lavoro, per la tutela della salute e per la salvaguardia dell’ambiente. Difesa della sanità pubblica e contro le privatizzazioni della salute. Per il diritto allo studio e alla formazione, per una scuola pubblica di qualità contro la riforma Moratti.

Capitoli

Globalizzazione in crisi?; un impegno preciso: no a nessuna guerra; assetto sociale ed iniziativa sindacale; la crisi della concertazione ed un nuovo modello sindacale, un nuovo meccanismo automatico per l’inflazione; privatizzazioni e ruolo dello Stato; previdenza, assistenza e istruzione; democrazia, pluralismo e lotta al terrorismo.

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“Per una CGIL protagonista del cambiamento sociale”

Introduzionevai a indice

In CGIL si è riaperto un dibattito sugli orientamenti strategici in questa nuova fase di stagnazione economica e di crisi politica e sociale. Da una parte è venuta emergendo la cosiddetta “destra” dei 49 dirigenti riformisti, che ripropongono una strada concertativa e d’unità con Cisl e Uil a prescindere dai contenuti. Dall’altra, vi sono ECCOCI e FARE SINDACATO, le nuove aggregazioni di sinistra, con lo scopo di fare svolgere alla CGIL una compiuta svolta, proponendo un dibattito che superi i patti di gestione tra le correnti uscite dall’ultimo congresso.

ECCOCI e FARE SINDACATO sono interessate a contribuire ad incidere in positivo nelle politiche della Confederazione, operando affinché la CGIL sia partecipe alla costruzione di un blocco sociale e politico per battere la destra berlusconiana ed a tradurre in pratica un progetto di trasformazione della società. Nel documento intendiamo, a questo scopo, presentare i punti nodali e le ragioni di questo nuovo impegno di critica ma anche di proposizione nella CGIL.

La fase della stagnazione liberistavai a indice

La prima questione concerne l’analisi di fase.

L'attuale fase della cosiddetta globalizzazione vede crescere povertà e sfruttamento in tutti i paesi occidentali e non offre possibilità d’autonoma crescita economica e sociale ai paesi del Terzo e Quarto mondo.

Emerge, così, il problema di una politica redistributiva, oscurata in quest’ultimo ventennio liberista, ed inerente il restringimento della forbice allargatasi tra classi proprietarie e subalterne, che si è invece ampliata, nell'ultimo ventennio, sia tra i paesi ricchi e quelli poveri, sia tra le classi sociali dei cosiddetti paesi più avanzati.

Incrementi esponenziali di profitti e rendite finanziarie, abbassamenti di salari e condizioni di lavoro, ma anche declino delle forme di solidarietà e coesione sociale rappresentano, così, il portato del ventennio liberista, e le solide fondamenta per un conflitto distributivo, da attivare con forza partendo dai rinnovi contrattuali.

Questo conflitto ha oggi una connotazione radicale, poiché padroni e destre stanno cancellando dalla loro agenda ogni appuntamento di regolazione sociale segnato pur anche da una piccola porzione di redistribuzione della ricchezza prodotta dai lavoratori in questi lunghi anni di pace sociale e di aumento di profitti e rendite finanziarie. Su tali obiettivi, e sui processi già avviati, basano, cioè, la costruzione di un nuovo/vecchio dominio di classe, in cui il compromesso sociale novecentesco, creatore del Welfare e di politiche redistributive, debba necessariamente venire meno. Deve venire meno, secondo i loro criteri, perché il contemporaneo modello di economia trova difficoltà nella ricerca degli spazi d’investimento. Essi non possono più essere i mercati finanziari, poiché un’economia di carta alla fine crolla: lo possono, però, divenire quei vasti settori dei servizi liberati dal monopolio del soggetto pubblico.

L’atteggiamento delle destre e di gran parte dell'imprenditoria ha quindi ragioni profonde, dettate da necessità vitali per il mantenimento di un’egemonia liberista sulla società. E la crisi di sovrapproduzione è buon motivo – secondo loro – per premere affinché si liberalizzino e privatizzino sanità, scuola ed istruzione, trasporti, servizi di assistenza e cura. Sono questi gli spazi “moderni” in cui investire e da ricondurre alla legge del profitto ed alla libera concorrenza.

In base a queste difficoltà Confindustria e governo di destra attaccano le condizioni dei lavoratori. E con l’attacco all’articolo 18 hanno mostrato la loro necessità, e non solo un desiderio degenere, di precarizzare il mondo del lavoro e l’intera società. Così come, con l’attacco alla magistratura, si esprime l’urgenza di superare la moderna divisione dei poteri istituzionali, per aumentare un controllo autoritario già cresciuto, nei luoghi di lavoro e nella società. E poiché la crisi economica e sociale, il pervadere dell’insicurezza rischiano di allentare le loro forme di consenso ed egemonia sulla società, essi chiedono e promuovono nuove forme di controllo autoritario sui lavoratori e sulla società. Tutto, insomma, - come sappiamo – si connette e diviene processualmente uno spirito del tempo.

La stagnazione economica è dunque evidente. Lasi può definire in modo tecnico recessione o stagflazione, ma il dato inconfutabile consiste nel ritenere questa fase recessiva non solo un evento ciclico, bensì l’espressione compiuta del liberismo, che da venti anni imperversa a livello internazionale.

Dopo le affermazioni delle politiche di Reagan e Tatcher, nella seconda metà del ‘900, il capitalismo si è riordinato fuori del patto sociale di quel secolo, esaltando l’aspetto finanziario dell’economia e scomponendo il welfare. Così questi sono stati anni d’aumento di produttività, flessione di salari e potere d’acquisto, crisi dei mercati interni. La crisi fiscale dello stato, già intuita in quel periodo, avrebbe richiesto uno scatto in avanti del patto novecentesco. Invece, la rivoluzione conservatrice ha mutato i rapporti a favore delle classi proprietarie, ed è stata assimilata dalla sinistra moderata, che non ha saggiato le sue insufficienze e la crisi del proprio blocco sociale (prova ne è la firma del Patto per l’Italia di Lega delle Cooperative, Confesercenti, CNA, Cia). Ed è indubbio che un problema centrale, per il sindacato, è stato l’assunzione del salario come variabile del tutto dipendente dai trend delle imprese. Ciò riporta alle scelte compiute trent’anni fa con la linea dell’Eur di Luciano Lama, ancora influente nella sinistra e nel sindacato, e su cui crediamo attuale una critica di massa.

Nel periodo qui osservato è così emersa la vittoria del capitalismo finanziario e speculativo che ha delocalizzato le produzioni, ripresentato una circolazione gerarchizzata e privilegiata dei beni, e generato una sovrapproduzione di capitali difficili da reinvestire nei settori tradizionali. Da ciò la destrutturazione del welfare, con l’apertura di “nuovi” mercati in cui investire (sanità, scuola, sistema formativo, trasporti, monopoli dell’energia e naturali) e la secca riproposizione del profitto per il profitto. Il mercato è così divenuto, in apparenza, l’unico criterio regolatore redistributivo della società.

Il capitalismo finanziario ha generato, in realtà, monopoli privati, nuovo sfruttamento e nuova povertà, e per la prima volta dal Novecento, le giovani generazioni vivono condizioni peggiori delle precedenti. Tutto ciò evidenzia come l’attuale recessione, non sia solo un evento economico circoscritto bensì rappresenti unacompiuta scelta dell’economia liberista.

Attraverso l’uso del “libero mercato” quale unico elementoregolatore della società, si tende a fissare una gerarchia sociale, tesaa sgretolare i rapporti sociali con forme di controllo autoritarie. Si è venuta così a compiere una demolizione delle conquiste economiche e sociali così come configurate nel Novecento. La nuova borghesia ha scelto le strada dello smantellamento del sistema di protezione sociale con cui fu costruito il patto sociale nel ‘900. Di qui l’attacco alla legislazione di tutela contrattuale e dei diritti del lavoro che sta prendendo corpo sia nei paesi a capitalismo avanzato che in quelli che si affacciano oggi sullo scenario produttivo internazionale disegnato dal WTO.

In questo scenario l’obiettivo della pace e del rifiutodella guerra, così come la lotta intransigente al terrorismo nazionale ed internazionale, assumono ancor più oggi uncarattere etico e un carattere sociale direttamente connesso ai princìpidi libertà ed eguaglianza. E’ per questi motivi che nei sindacati e nei movimenti si deve sviluppare e rafforzare una nuova solidarietà che riscopra i valori genuini dell’internazionalismo per riaffermare il valore della giustizia sociale e della difesa dei diritti soprattutto in epoca di globalizzazione.

Per le ragioni esposte, si pone il problema del rafforzamento di una rete internazionale quale “associazione di interesse” delle classi lavoratrici e subalterne, per globalizzare i diritti raggiunti dai lavoratori nel corso del Novecento, per la loro estensione in qualità e quantità e per obiettivi di concreta giustizia sociale del lavoro e qualità del lavoro, e di un sistema di protezione sociale adeguato alle esigenze di una società complessa in cui la qualità della vita diventa un valore fondante.

Proseguendo nell’analisi di fase dobbiamo affrontare la questione dei processi di destrutturazione dello stato sociale. In quest’ambito diventa centrale la lotta alle privatizzazioni e allenuove forme di autoritarismo, con gli annessi tentativi di annullamento del ruolo del sindacato rivendicativo e contrattuale

La privatizzazione dei grandi gruppi e delle aziende pubbliche è stata una scelta checonsideriamo profondamente errata e di cui gran parte delle colpe ricade sul governo di centro sinistra.Questa scelta ha avuto ricadute immediate anche sul sistema di welfare complessivo, con la scelta della cosiddetta sussidiarietà orizzontale quale retroterra ideologico per giustificare la crescita dell’intervento privato in tutti i settori del welfare: previdenza, sanità, scuola, assistenza.

Questo tentativo non va banalizzato, anche se si veste spesso dei panni cialtroneschi della destra italiana. Raffigura invece un vasto piano di privatizzazione generale, coerente con i bisogni della classe di governo che nello specifico italiano coincide con quella produttiva.

Si è in tal modo determinata nel Paese una crisi di consenso ampia e grave verso governi e partiti, che si manifesta con forme di passività delle masse e di spoliticizzazione. In tale processo sono cresciuti schemi di controllo sociale che danno spessore, forma e contenuto ad una fase politico-sociale in cui prevale unnuovo autoritarismo, bastino, ad esempio, le vicende delle Leggi in materia di informazione, quella sull’immigrazione (Bossi-Fini), e l’attacco ai diritti delle donne, vedi l’involuzione sulle questioni della fecondazione assistita.

E’ questo, in conclusione, il tratto fondante del Governo Berlusconi, che con la legge 30/03 destruttura il sistema di tutele del lavoro così come configurato - grazie alle grandi lotte operaie degli anni '60 - nel sistema contrattuale e di diritto del lavoro. E' questo l’epilogo del sindacato rivendicativo, sostituito da un nuovo corporativismo parastatale e neocorporativo, di cui si fa interprete una parte della Cisl e non solo di questa che persegue tra gli obiettivi anche la fine del contratto collettivo nazionale di lavoro.

Noi pensiamo, invece, che la CGIL debba difendere e sviluppare i tratti di un sindacato rivendicativo che eserciti e attualizzi il conflitto di classe per la trasformazione della società.

La capacità rivendicativa continua oggi ad essere una delle centralità dell'iniziativa sindacale, e gli assegna un’obiettiva funzione di soggetto per la trasformazione e realmente riformatore. A fronte di avversari che tentano di negare ogni spazio rivendicativo, porsi come soggetto che rivendica per tutte/i laredistribuzione salariale e sociale, la qualità del lavoro e della vita, significa dedicarsi alla costruzione di un blocco sociale per il superamento del liberismo. La lotta alla precarizzazione, per i contratti collettivi di lavoro, contro i doppi regimi contrattuali, per un mondo di pace e multipolare sono reali esempi di una linea innovativa tesa al superamento di un riformismo inconcludente e inidoneo ai bisogni delle lavoratrici, dei lavoratori, delle disoccupate, dei disoccupati, delle pensionate e dei pensionati.

Su questi contenuti, può configurarsi un’innovativa CGIL come sindacato rivendicativo e contrattualista, che adotta il conflitto di classe per la trasformazione, ed è al contempo soggetto promotore di un blocco sociale per costruire l’alternativa al liberismo.

Per queste ragioni, chi nel sindacato ripropone la politica dei redditi commette un errore rilevante in quanto tale politica risulta funzionale solo agli interessi dell'impresa. Tale errore può produrre sordità verso le esigenze delle classi popolari e dei lavoratori, a chi chiede di soddisfare bisogni primari che l’attuale gerarchia sociale non appaga. Del resto la finalità di una società solidale, democratica, aperta, fondata sulla giustizia sociale, pur se in nuce, non può usare un mezzo come la concertazione, che, forse, può avere effetto soltanto in una situazione emergenziale, limitata temporalmente, come ad esempio a fronte di una grave crisi finanziaria internazionale, ma che è incompatibile con la dinamica propria dei sistemi di relazione democratici, che riconoscono nel conflitto sociale un elemento proprio della vitalità del sistema.

La concertazione si delinea, in sé, quale strumento di compressione delle domande sociali di una società complessa e articolata. Soffermarsi, quindi, ancora sull’obiettivo di un nuovo sistema concertativo, oltre ad essere fallimentare, appare incoerente con i quesiti sociali emersi con le lotte degli ultimi anni.

Un progetto sindacale per cambiarevai a indice

Se il quadro qui dipinto è veritiero, per le forze di progresso e per il sindacato è giunto il tempo di andare oltre il quotidiano e, dunque, di dare corpo a un progetto di fase adeguato, segnato, prima di tutto, da obiettivi di redistribuzione sociale.

Affiora, così, un quesito: viste le forze in campo, qual è linea è da seguire? Una linea difensiva, come quella attuale di tutela di quel che c’è (c’era) oppure una strategia offensiva per il cambiamento sociale? Il dilemma non è nuovo. Sia in campo politico sia in quello sindacale, si è presentato più volte. Per brevità, è solo da marcare un’attenzione all’articolazione e sviluppo di un progetto sindacale, che attualmente non c’è. In breve, difesa delle condizioni di lavoro e sociali e percorsi di emancipazione e liberazione del lavoro e della società stanno processualmente insieme. A tale fine, sembra non appropriato dovere distinguere in modo rigido un percorso sindacale e sociale in momenti di pura difesa e altri di segno opposto.

Gli orientamenti, questi sì, devono essere chiari. Per questo motivo sono da indicare le priorità per il movimento dei lavoratori in questa fase: difesa delle proprie condizioni, redistribuzione sociale, costruzione di un blocco sociale democratico e progressista. In questa direzione di marcia non vi è alcun intento pansindacalista; anche perché si è dimostrato profondamente errato coniugare la Cgil con un partito o una coalizione. La Cgil invece, può e deve essere un luogo della dialettica politica e sindacale, così come lo è stata nei migliori momenti della storia del movimento operaio. E' legittimo discutere, quindi, di priorità politiche condivise non è legittimo influenzare i partiti in veste di ceto politico concorrente ai partiti.

In questa ricerca in cui si vuole coniugare Opposizione e Ricostruzione, i titoli prioritari su cui lavorare sono: lotta alla precarizzazione, questione salariale, l’affermazione del diritto della parità di salario a parità di lavoro, lotta alla privatizzazione del sistema di welfare nei territori.

E’ difficile discostarsi da questi punti, se si crede in una politica concreta di estensione dei diritti e redistribuzione sociale. E queste difficoltà possono accrescersi con l’assenza prolungata di un progetto di largo respiro, che connetta conflitto distributivo, lotte per la stabilizzazione del lavoro atipico, vertenze territoriali che riunifichino azione dei lavoratori, domande della società e movimenti.

Il riposizionamento della CGIL, che sarebbe sciocco nascondere o ridimensionare, abbisogna di veder riempito un vuoto strategico. E questo può iniziare con alcuni impegni, partendo dalle concrete situazioni di vita e di lavoro. Riteniamo in tal senso utile dare coerenza a quanto sopra detto proponendo ad esempio che nessuna struttura della Cgil firmi accordi, nazionali, di settore, locali o aziendali che prevedano, anche in labile forma, ulteriori flessibilità e precarizzazioni del lavoro. Sarebbe, a tal fine, opportuno che gli organismi nazionali s’impegnassero a sancire formalmente con un voto questa posizione, formulando inoltre vincoli e codici di comportamento coerenti per tutte le vertenze e trattative.

Mai più una firma che precarizzi! Questa è la parola d'ordine per rilanciare un sindacato che difende in primo luogo i lavoratori. Questo può essere il primo impegno, formulato con una specifica presa di posizione ed un conseguente atto di indirizzo vincolante per tutte le categorie e strutture dal Direttivo Nazionale della Cgil. Il Direttivo Nazionale dovrebbe inoltre fare proprio l’obiettivo della stabilizzazione del lavoro atipico, individuando nel contratto a tempo pieno ed indeterminato il punto di approdo in ogni vertenza. Se si considera giusta ed utile l’estensione a tutti dei diritti derivanti dall’articolo 18, appare coerente il sostegno all’idea che la Cgil sia uno dei soggetti promotori e attori per l’estensione a tutti dell’articolo 18, per la discussione delle proposte di legge popolare e l’abrogazione dei contenuti del Patto per l’Italia.

Se, infatti, si ha in mente la ricostruzione di un blocco sociale si è necessitati, a coinvolgere le organizzazioni di massa ed i partiti democratici, affinché una battaglia di civiltà come la stabilizzazione del lavoro possa essere fatta propria da un vasto schieramento democratico e di classe, capace di prefigurare alleanze sociali per il cambiamento e di risultare maggioritario nella società. Ed in coerenza con le iniziative anti-precarietà la Cgil deve spendersi in forma generalizzata per la trasformazione degli atipici in contratti a tempo pieno ed indeterminato.

Vertenze generali per salario e stabilizzazione del lavorovai a indice

Ci pare, perciò, ormai ineludibile costruire delle vertenze generali per aumenti salariali, per la democrazia, contro il precariato, per rendere lavoratori stabili quelli precari, per una nuova struttura del salario.

La Fiom è stata l’unica categoria coerente con l’impegno sopra descritto. Da questa considerazione, si può dedurre una situazione critica della Cgil, che non può essere affrontata solo dalle categorie, bensì assumendo un impegno per una vertenza nazionale salariale e per una campagna generale contro il lavoro precario, e per la fine dei doppi regimi salariali e normativi. Non può esservi, infatti, lotta per la redistribuzione salariale e sociale e per una maggiore qualità ambientale, se non si recupera, in avanti, una ricomposizione del ciclo del lavoro. E se non si considera, l’insieme dei lavoratori, tipici, atipici, precari, eterodiretti e la loro rappresentazione unitaria da parte delle RSU e delle organizzazioni di categoria, nella cornice di un’azione per un lavoro stabile e dignitoso per tutte/i.

La critica concreta a questo modello economico e la proposizione di un nuovo sviluppo hanno così bisogno di essere sostanziate in campagne generali ed in vertenze territoriali. Ciò significa – a nostro giudizio – declinare un impegno forte dell’intera organizzazione confederale e categoriale, per allestire in modo complessivo ed articolato una lotta per una nuova economia sociale, riempiendo di nuovo significato le vertenze territoriali per il lavoro, costruendo nuove forme di socialità e per uno sviluppo autocentrato, equo, equilibrato e solidale.

Un tratto significativo di questo sforzo che la CGIL ha necessità di compiere, concerne la costruzione di un programma sociale ed economico che parta dai bisogni primari delle comunità territoriali e correlato alle dinamiche economiche più ampie. Da qui l’idea e l’impegno per un rilancio di produzioni e di politiche industriali di qualità, anche in sede locale.

E sul piano generale, al contempo, la difesa dei due livelli di contrattazione può avere efficacia se la CGIL rilancia con convinzione un nuovo contrattualismo e la proposta per una nuova struttura del salario. Su questa base intendiamo la formazione di una nuova capacità contrattuale della CGIL e del sindacato confederale, esperibile intrecciando piano generale e locale, vertenzialità aziendali e territoriali. E soltanto in tal modo è percorribile una riforma della struttura salariale, che si fondi su criteri di eguaglianza, capacità e professionalità.

Perciò proponiamo un obiettivo che ci sembra basilare per questa fase, e cioè una struttura del salario fondata su tre voci connesse: un salario di base, per la soddisfazione dei bisogni primari e rispondente al reale aumento della vita, ipotizzando adeguamenti automatici (scala mobile, ad esempio); un salario professionale vincolato alle capacità dei lavoratori nelle funzioni assegnate; un salario di produttività, legato all’andamento produttivo delle imprese (e non ai loro bilanci).

Tale struttura dovrebbe avere carattere vincolante. Queste tre voci, cioè, dovrebbero comporre la struttura organica del salario ed essere normate anche dalle leggi (salario sociale di base, che non può essere l’unica fonte di reddito salariale) e dalla contrattazione collettiva (salario professionale e di produttività, e quindi ccnl e contrattazione aziendale e/o territoriale). Tre voci, insomma, del salario connesse per un nuovo schema di contrattazione: un salario sociale di base adeguato al costo della vita (indicizzazione automatica), un salario di professionalità, un salario di produttività.

Una moderna struttura del salario ed il progetto redistributivo ed ambientalevai a indice

E per ricomporre l’unità del lavoro subalterno, e per rispondere ad una domanda di giustizia sociale, la questione salariale è un altro capitolo fondamentale per un progetto di fase della Cgil. Al di là delle formali rivisitazioni dell’accordo del 23 luglio 1993 – su cui è da ribadire il giudizio critico e negativo, vista la sua inefficacia sociale – si possono tenere i due livelli contrattuali, se si pone l’accento sulle richieste di aumento salariale, legato alla concreta inflazione ed ai livelli di produttività generale raggiunti in questi anni, a partire dai CCNL. E per fare questo non si può eludere una riflessione, come suddetto, sulla struttura del salario, da articolare nelle tre voci fondamentali, integrate, vincolate e non sostitutive una dell’altra: un livello di SALARIO DI BASE, legato al livello di soddisfazione dei bisogni primari; una porzione di SALARIO PROFESSIONALE, adeguato alle funzioni ed alle mansioni del lavoratore; la terza, connessa al registro della PRODUTTIVITA’, e non alla redditività ed ai bilanci delle imprese.

Lo sforzo della Cgil va sviluppato, insomma, in una connessione di queste tre voci del salario in ogni trattativa dei CCNL, e per individuare nel livello di SALARIO DI BASE la cifra, per il 2004/2005, di novecento (900) euro netti mensili per ogni addetto, da indicizzare automaticamente in riferimento all’inflazione reale. La connessione delle tre voci dovrà essere vincolante, affinché il cosiddetto SALARIO DI BASE non si configuri quale unica voce di reddito per i lavoratori più deboli. Invece, dovrà essere definito come lo zoccolo da cui partire, per comporre l’intera struttura del salario e per edificare, nel quadro generale, una politica di redistribuzione sociale della ricchezza prodotta negli ultimi venti anni di liberismo.

A partire dai CCNL, e dalla loro difesa ed estensione, nel contesto di un progetto redistributivo e di qualità sociale dello sviluppo, l’opposizione allaprivatizzazione della sanità e dell’istruzioneha da essere dirimente per la Cgil e per tutti i movimenti. I capitoli di vari accordi CCNL riferiti a sanità e formazione, ad esempio, devono essere sottoposti ad una verifica, affinché non ledano in alcun modo il sistema sanitario nazionale e l’istruzione pubblica. E dove si riscontrassero accordi del genere, la CGIL deve ritirare la firma e chiedere l’abolizione di tali paragrafi contrattuali.

Lo sforzo e l’azione della Cgil contro le privatizzazioni del welfare allargato potranno essere migliori, se diffuse nei territorie con una finalità strategica per uno sviluppo sostenibile ed autocentrato. Sanità e scuola pubblica, governo sociale delle politiche dei trasporti, risanamento delle periferie e governo complessivo delle città possono figurare come livelli e articolazioni in cui si spende una nuova tensione confederale, una riforma organizzativa e una conseguente pratica sindacale, capace di mettere in campo programmi e progetti a difesa e sviluppo delle condizioni dei lavoratori, degli utenti e dei cittadini. Tutto ciò rappresenta un passaggio urgente per la Cgil, poiché padroni e governo di destra rimettono in discussione l’universalismo dello stato sociale ed ogni ruolo pubblico di orientamento, ed operativo, nelle politiche e nei servizi utili alla collettività. Essi svolgono la loro azione a monte, chiudendo i rubinetti del trasferimento di risorse pubbliche agli enti locali ed alle regioni, e destrutturando così alla fonte qualsiasi articolazione dello stato sociale.

E' quindi nei territori che deve svilupparsi una forte iniziativa anche allo scopo di sostenere tutte le iniziative già in atto da parte degli Enti Locali e delle regioni affinché con forza richiedano al governo centrale, non solo le risorse per la sanità, i trasporti, i servizi di cura e di assistenza e le politiche di inclusione sociale, ma anche una politica diversa sul welfare, oggi in balia delle privatizzazioni. Al contempo, è doveroso l’obiettivo di una grande riforma democratica che ampli gli spazi di partecipazione dei cittadini, per il loro coinvolgimento nelle scelte strategiche degli Enti Locali, anche attraverso l'uso di strumenti innovativi di bilancio e della programmazione qual è il Bilancio Sociale e Partecipativo.

Per dare gambe a questi percorsi è obbligatorio per la Cgil affermare forme di controllo e gestione pubblica e democratica di ognibene pubblico e collettivo. La Cgil ha l’obbligo di scelte chiare e nette. Ed il terreno non può che essere quello dell’opposizione allo smantellamento dello stato sociale allargato e territoriale ed alla lotta per il rafforzamento del welfare, a partire dalle realtà locali, con l’unificazione delle vertenze dei lavoratori e dei cittadini, rivendicando tariffe sostenibili socialmente e standard omogenei ed adeguati dei trasporti, dei servizi sociali e dei servizi pubblici in generale, attuando i Livelli essenziali di assistenza previsti anche dal dettato costituzionale nel Titolo V riformato dalla legge 3/01.

E’ utile, a questi fini, ricordare come uno degli obiettivi del movimento internazionale contro la globalizzazione liberista sia la democratizzazione dell’uso delle risorse naturali, ad esempio l’acqua, contro la loro riduzione a merce. Anche su questo terreno occorre un preciso impegno della Cgil: per difendere il ruolo pubblico, infatti, non si deve semplicemente tutelare l’esistente o ciò che ne rimane: bensì, rivendicare e coniugare l'azione democratica e la partecipazione dei cittadini con la trasparenza dell’amministrazione ed ilruolo pubblico.

Alla crisi evidente della finanziarizzazione dell’economia, infine, il sindacato deve attrezzarsi e rispondere con un orientamento di lotta, progetto e programma. E nel contesto di una lotta per la redistribuzione sociale, non può essere accantonato il tema della restituzione del fiscal drag e, soprattutto, la difesa e lo sviluppo di una politica fiscale fondata sulla progressività e sul reperimento di risorse date da una tassazione delle rendite e delle speculazioni finanziarie. Occorre una politica fiscale, che senza aumentare il carico fiscale complessivo agisca però attraverso la progressività sulle fasce reddituali più alte, proprio quelle fasce che la controriforma di Tremonti, con le due aliquote, vuole favorire a scapito dei redditi più bassi. Va inoltre esercitato un rigido controllo su quella cospicua parte di imprese (30%) che evade il fisco e la contribuzione previdenziale e i cui profitti alimentano il mercato azionario drogato e le speculazioni finanziarie, che nel Mezzogiorno si intrecciano spesso anche con le attività della criminalità mafiosa.

Occorre stabilizzare i posti di lavoro precari, e porre fine al fenomeno dei LSU che non ha fatto altro che aggiungere precarietà alla disoccupazione, sopratutto per molti comuni del Mezzogiorno.

Ricomporre la filiera produttiva ed il lavorovai a indice

Per molte ragioni, quindi, si pone la necessità, alla luce dei processi economici in corso, di ricomporre la filiera produttiva, riunificare il lavoro e i CCNL.

L’attuale frammentazione del ciclo produttivo, il suo svolgersi in aziende piccole e contoterziste produce significative divisioni tra le classi lavoratrici. E’ il frutto della cosiddetta anarchia del capitalismo liberista, cui è necessario contrapporre un processo di riunificazione dei lavoratori e dei lavori.

Il ricondurre ad unità i lavoratori di una filiera produttiva è in simmetria con l’esigenza della fine dei doppi regimi salariali e normativi. Riunificare il lavoro, perciò, significa anche dotarsi di CCNL che accorpino le attuali filiere del sistema produttivo, che includono servizi, trasporti, attività manifatturiere, oggi frantumati usando diversi contratti collettivi. Ed allora un compito sindacale sta nell’indagine sulle filiere e la coerente azione di ricomposizione contrattuale.

Un altro compito sindacale, a fronte di una strenua politica di delocalizzazione e di declino industriale, consiste nel battersi per progetti di reinsediamento industriale territoriale, riferiti alle produzioni d’alta qualità sociale e produttiva e dunque di un nuovo concetto di produzione e di valore aggiunto, fuori dalla logica tradizionale di chi calcola il valore solo in termini di punti di PIL(agro-industria, industria per i trasporti pubblici, recupero edilizio e dei centri storici, etc.). A tal fine, il sindacato confederale ha da porsi quale obiettivo un nuovo intervento pubblico nei settori strategici dell’economia, volti alla soddisfazione di bisogni sociali e consumi interni primari e di qualità.

Appare, insomma, sempre più evidente il diritto-dovere di aggregare i lavoratori, allo scopo di evitare il dumping sociale, con un’unitaria politica salariale e normativa (riferita alle punte più alte delle conquiste operaie) delle moderne filiere produttive, riducendo così le quantità dei CCNL e riposizionandoli lungo l’asse produttivo (dalla produzione alla distribuzione del prodotto). In tal modo si potrebbe produrre una scomposizione e una nuova aggregazione di categorie.

Un nuovo protagonismo dei lavoratori, dalla sconfitta di Mirafiori (1980) alla lotta di Melfi del 2004vai a indice

L’assunzione da parte della Cgil di questi orientamenti, e della loro articolazione nei CCNL e nei territori, può permettere, in rapporto con le lotte e le vertenze dell’ultimo anno, la sviluppo di un protagonismo di militanti e delegati sindacali. Questa nuova leva di quadri, che già si avverte, può e deve essere una risorsa fondamentale, anche per dare soluzione all’inadeguatezza serpeggiante nell’organizzazione. Ma uno stimolo alla crescita di un tale protagonismo e della Cgil stessa abbisogna di alcuni chiarimenti, per così dire, dirimenti.

Ad un protagonismo, che s’intravede e si sostanzia, da Scanzano a Melfi, la Cgil deve offrire un valore fondamentale, l’autonomia. A questi fini, è d’obbligo una riflessione seria sull’autonomia e sul ruolo della Cgil, in relazione con la costruzione di un blocco sociale per il cambiamento.

Se si vuole far vivere un sindacato generale, democratico e di classe, non si può che porre l’accento sulla riconferma dell’autonomia da padroni, governi e partiti, come valore a prescindere. Per questo, consideriamo pericolose e velleitarie le ricorrenti tentazioni pansindacaliste. Su quelle tendenze, cioè, che usando l’alibi dell'autonomia dal partito di provenienza e dai partiti in generale, vogliono influenzare la costruzione di organigrammi e peso politico nei partiti in cui generalmente i protagonisti di queste operazioni militano.

Questa non è autonomia. E’ autoreferenzialità delceto politico, impregnato spesso di cultura minoritaria. A fronte di questa situazione, che frena lo sviluppo di una politica sindacale e sociale di ampio respiro strategico nonché la costruzione di un ampio blocco sociale per la trasformazione, si esplicita la necessità di ridare sostanza un protagonismo di massa dei militanti e dei delegati sindacali.

E’ questa la nostra idea di autonomia della Cgil. Autonomia come un valore ed una pratica che vivono nella dialettica, alta, tra azione sindacale di massa e movimento politico e sociale. A questo fine è indispensabile una Cgil concretamente pluralista, che non si trasformi in base elettorale e militante di un partito, di una sua corrente o di una coalizione, o di reti clientelari che tentano, ai fini della loro autoriproduzione, un’influenza organizzativa sui soggetti politici di riferimento. In coerenza con tali critiche, occorre un nuovo criterio nella scelta dei gruppi dirigenti che, tenendo conto del pluralismo, superi quelle rigidità derivanti da un’idea delle aree programmatiche quali entità chiuse, autoreferenziali, e gerarchizzate.

Per superare questa situazione di stagnazione occorrono, nuovi criteri certamente non rigidi e schematici, di ricostruzione della identità organizzativa della Cgil, che poggi sul nuovo protagonismo nei luoghi di lavoro, sul merito, sulle capacità di ognuno di contribuire in piena libertà alla discussione nell’organizzazione. Per fare ciò, però, è utile riscoprire i fondamenti politici, morali ed etici di un’azione collegiale, non piramidale e superare una logica, che sovente affiora, ovvero quella di una Cgil trasformata in una federazione di correnti (aree) tra cui non esiste nessun vero vincolo di solidarietà e alcun confronto di strategia.

Ci troviamo oggi, in sintesi, in una pericolosa china in cui, non solo si perseguono vie contrattuali più moderate rispetto alla linea generale della Confederazione, ma addirittura si praticano percorsi di segno radicalmente diverso da quello che confederalmente ci si prefigge. Questo è uno dei punti nodali che ha portato le compagne ed i compagni di ECCOCI e FARE SINDACATO a predisporre e presentare all’Assemblea nazionale dei quadri della Cgil questo documento.

Oggi non si tratta semplicemente di adeguare una linea generale giusta alla politica sindacale contrattuale quotidiana, bensì di valorizzare gli elementi di una svolta - seppur contraddittoria - e di applicarli con coerenza nella pratica quotidiana dell’organizzazione e nell’organizzazione stessa. Di farli diventare per davvero progetto, di tradurli in piattaforme e farli vivere nella pratica quotidiana della CGIL.

Pare a noi, questa, un’azione densa di radicalità, che cerca di andare alle radici delle questioni, perché si scontra con le insufficienze strategiche di una maggioranza che troppo spesso insegue la politica sul terreno della politica di partito. A queste tentazioni non si sottrae nemmeno ciò che resta di LavoroSocietà, esperienza ormai esaurita e conclusa che non offre più alcun stimolo dal punto di vista critico. Sopratutto dopo avere, manifestato grandi ambiguità in occasione del rinnovo del contratto della scuola, dei ferrovieri, su quello dei tranvieri, assecondando gli esiti di quegli accordi contrattuali, che certamente non sono coerenti con una linea di rinnovamento più volte declamata, ma poco praticata.

Una nuova militanza sindacalevai a indice

In questo contesto vediamo crescere l’opportunità e l’occasione per la diffusione di una nuova militanza sindacale e di una sua nuova qualità pluralistica, fondata su processi formativi aperti e plurali, e su una selezione dei dirigenti che si realizzi sul merito e sulle competenze e sugli iter di formazione reali verificati attraverso le capacità vertenziali esperite.

In virtù delle argomentazioni qui esposte emerge la questione riferita alla valorizzazione delle nuove categorie e delle strutture territoriali comprensoriali, quale impegno per il reinsediamento sociale della CGIL. E’ quindi con nuove categorie e con rinvigorite strutture camerali, che può svilupparsi un reinsediamento sociale della CGIL, su cui già oggi si tenta uno sforzo, trovando però difficoltà quasi strutturali. Ai fini di tale reinsediamento, potrebbe essere utile la trasformazione delle strutture regionali in Coordinamenti Confederali Regionali, assieme ad un’evoluzione del NIDIL, non in una nuova categoria, incoerente con lo scopo di ricomposizione del lavoro, bensì in Comitato Confederale per la Stabilizzazione del Lavoro, articolato e connesso all’attività nei territori e nelle categorie.

Per un sindacato che vuole reinsediarsi nei luoghi di lavoro e nella società, infatti, vi è da irrobustire una coerenza riguardo alle sedidella decisione. Queste devono essere nei luoghi del lavoro, della militanza e della contrattazione, e quindi sono da concentrare nei territori comprensoriali e nelle categorie, in sinergia fra loro.

Le strutture regionali non possono continuare a porsi quale strumento del centralismo decisionale, bensì ridefinirsi come organismi di coordinamento delle politiche e della capacità vertenziali. Per questo ci sembra utile lanciare l'idea dei Coordinamenti Confederali Regionali, superando le segreterie, che oggi diramano scelte politiche, organizzative ed operative senza un rapporto diretto con la rete dei militanti e dei delegati di base. Ciò si attaglia più ad un’organizzazione piramidale e correntizia che ad una democratica, fondata sulla libera partecipazione di iscritti, militanti, lavoratori. Perciò ci pare opportuna la trasformazione dei Comitati degli Iscritti in vere e proprie Sezioni Sindacali, come luoghi della militanza sindacale, assieme ai nostri delegati delle RSU.

Una nuova autonomia sindacalevai a indice

Su questi terreni di nuova militanza, allora, ci pare necessario affrontare il tema dell’autonomia sindacale e della pratica quotidiana. La crisi dell’autonomia sindacale si è manifestata già con il centro sinistra. Il sindacato nella situazione di "fuga dalla politica" determinata dalla crisi dei partiti è rimasto uno dei punti di forza della politica di massa.

Con il governo del Centro Sinistra si è assistito al blocco del conflitto sociale attuato attraverso la concertazione, ed all’estensione della forbice tra salari e profitti. Così facendo si è affermata l’obsoleta idea di fare accumulare ai capitalisti le risorse, che determinerebbero poi margini di redistribuzione. Il capitalismo finanziario non prevede però più i margini di redistribuzione di quello keinesyano. Da ciò discendono anche gli attacchi all’autonomia della CGIL, le pulsioni a presentarla come braccio sociale di un partito o di una coalizione politica, e la pratica quotidiana, spesso assuefatta all’intesa sociale tra una sinistra blandamente riformista e i poteri economici forti.

Non siamo qui a negare il valore del rapporto dialettico tra sfera sindacale e sinistra politica e sociale. La fine delle correnti di partito ha visto, però, il sorgere di cordate personali e del rilancio di un nuovo pansindacalismo. Tale proiezione dei dirigenti sulla sfera politica, non ha certamente aiutato una corretta dialettica tra sindacati e partiti, tra sinistra sindacale e politica. E più si aggrava la crisi della forma-partito, più cresce la pulsione di una parte consistente della dirigenza sindacale di sostituirsi ai partiti. La stessa esperienza recente di "Lavoro e Libertà", anche se fallita sul nascere, è il prodotto di questa grave crisi dei gruppi dirigenti e dell’evidente inadeguatezza dei loro criteri di selezione, fondate più sulla fedeltà alle cordate personali che sul confronto reale e sulle competenze.

Un’organizzazione di massa e di classe come la CGIL che noi auspichiamo, non può che essere autonoma da ogni forma di organizzazione di rappresentanza economica e politica. Non può e non deve agire – come è accaduto - quale base elettorale o sociale di un partito politico, di una sua componente, di un progetto politico o di una coalizione. Siamo convinti che caratteristiche e peculiarità di un’organizzazione sindacale di massa devono essere mantenute, difese e rafforzate e rapportate ad un autonomo progetto sindacale, in un rapporto dialettico con le forze politiche di sinistra, ma senza sovrapposizioni di ruoli o ambizioni pansindacaliste.

La CGIL deve inoltre realizzare un rinnovamento. L’architettura organizzativa attuale è vecchia, pesante e non rispondente alle novità sociali e produttive, all’insediamento, al proselitismo dei nuovi soggetti sociali. La discussione sulla riforma organizzativa ha da avviarsi in rapporto alla cornice di decentramento di poteri, direzione politica, risorse finanziarie, posizionando e riqualificando la pesante burocrazia sindacale nei territori. A ciò dovrà sottendere anche una rispondente organizzazione della democrazia interna, attraverso il miglioramento delle Regole e dello Statuto, che valorizzi, nella sua complessità storica e politica, il pluralismo interno all’organizzazione, che non si esaurisce nella rappresentanza assunta dalle Aree congressuali.

“Welfare e politiche sociali”

Ai fini di una nuova strategia della CGIL, crediamo essenziale una contiguità tra una politica di rinnovamento nell’ambito contrattuale e una politica di sviluppo di un ragionamento sulla reale situazione del welfare e del sistema fiscale. Perciò, vogliamo dedicare qui le nostre attenzioni al rinnovamento del welfare da attuare nell’ambito di un concreto reinsediamento territoriale della Cgil.

Premessa vai a indice

La sfida del nuovo welfare nasce dall’esigenza di dare risposte certe al peggioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne e dei lavoratori, di fronte ad un modello economico del capitalismo che sembra essere tornato ad una concezione ottocentesca, precedente alla nascita del movimento operaio organizzato, sia nei rapporti tra impresa e lavoro sia nel rapporto tra impresa e società civile.

La questione sociale ha assunto forme nuove in questa fase di liberismo senza regole, in cui prevale un modello di capitalismo che privilegia la speculazione finanziaria e che ha rotto il tradizionale patto tra capitale e lavoro. Alla precarietà crescente sul lavoro si è accompagnata una crescente precarietà ed insicurezza sociale, connessa alla svalorizzazione del lavoro ed al diffondersi di tipologie di lavoro poco qualificate ed a bassa remunerazione. Nel nuovo secolo ricompare, in forme e bisogni più articolati, la forbice ottocentesca delle “Due nazioni” disraeliane. Noi sappiamo le ragioni per cui alla crescita economica non corrisponde una parallela progressione sociale. Esse consistono nei mutati rapporti di forza nella società a favore delle classi proprietarie, che hanno replicato alla crisi politica e sociale maturata negli anni Settanta con la sistematica destrutturazione del patto sociale, che aveva distinto la società occidentale, uscita dalle macerie della Seconda Guerra mondiale.

Naturalmente, i processi costituitisi non hanno avuto carattere meccanico. Sono il frutto ed il portato di complesse dinamiche economiche e sociali, ma non vi è dubbio che sono stati “osservati ed accompagnati” da volontà e norme politiche definite. Perciò, ci avviciniamo al tema consapevoli dei motivi per cui una riforma democratica del welfare deve oggi dare risposte, in primo luogo all’allargamento sia della disoccupazione che della occupazione precaria, e in secondo luogo all’aumento delle persone a rischio di cadere nella soglia di povertà, siano essi lavoratori, che pensionati.

C’è ancora una questione femminile vai a indice

In questo contesto del ragionamento non possiamo esimerci dall’affrontare una questione che rimane ancora per larghi tratti irrisolta, quella del pieno inserimento produttivo e sociale delle donne e del riconoscimento della presenza di genere. La legislazione dell’attuale governo tende sempre più a disconoscere il ruolo attivo e positivo delle donne nella società italiana. In questo grande “show businness” che è il governo Berlusconi, l’immagine delle donne viene formalizzata in base al modello televisivo vigente. Scompare il contributo dato dalle donne a questo Paese, non solo in termini produttivi, ma anche mortificandone la specificità e il diritto all’autodeterminazione come avvenuto con la vicenda legislativa della “fecondazione eterologa”.

Per questi motivi chiediamo che anche la Cgil si muova con maggiore forze per riaffermare, a partire dai posti di lavoro e non solo nell’elezione degli organismi dirigenti, una fattiva presenza delle donne con il loro contributo originale di idee e di proposte per migliorare la qualità della vita a partire dai luoghi di lavoro.

Dati e problemi vai a indice

La dimensione materiale dell’argomento corrisponde a più di 400 mila miliardi di lire annui, pari a circa il 23% del Prodotto interno lordo. Tale, infatti, è il corpo della spesa sociale italiana, ancora abbondantemente sotto la media europea, che corrisponde al 28% del Pil.

Ma non è solo la questione del sottodimensionamento della spesa sociale il problema da risolvere sopratutto nel momento in cui in tanti prendono a prestito formule quali workfare, welfare society, welfare community, e altro ancora, utilizzandole per una torsione verso la pratica dello stato sociale minimo. Del resto, la storia delle privatizzazioni mostra la qualità di questa modernizzazione. Prima si sono privatizzate le grandi aziende con valenza strategica nazionale e dopo, accompagnate da percorsi legislativi che hanno decentrato competenze, ma non risorse finanziarie, si sono avviate le esternalizzazioni e privatizzazioni del welfare allargato (acqua, luce, gas, farmacie, trasporti, centrali del latte, etc.) che vedeva aziende di proprietà, diretta o indiretta degli enti locali e di altri centri pubblici, in buona salute e fornitrici di servizi e beni di alta qualità, che dunque - anche in una logica di mercato - erano soggetti concorrenti economicamente sani.

Altri dati, di diffusa conoscenza, riguardano l’evasione contributiva e l’elusione ed evasione fiscale: per il primo aspetto, la cifra è di 40 mila miliardi annui; per i secondi di oltre 230 mila miliardi l’anno. Da ciò si può misurare la connessione tra crisi fiscale dello stato e politiche del welfare adeguate ai bisogni primari di tutti i cittadini, e la necessità di obiettivi di adeguamento dei numeri di entrate e spesa ai parametri europei. Ciò dimostra – se ancora ve ne fosse bisogno – che non sono le risorse a mancare, ma che manca in questo Paese un’adeguata politica di ispezione fiscale e contributiva che è alla base di tutti i sistemi economici liberali.

Lo stato sociale, inoltre, si sostanzia nelle classiche articolazioni della sanità, previdenza, istruzione e servizi sociali in generale, nonché di qualificate politiche attive per il lavoro e per gli ammortizzatori sociali.

La Sanità e la Previdenzavai a indice

Per quanto riguarda la sanità, la spesa si attesta su più di 130 mila miliardi annui, con un’incidenza sul Pil del 7,5%. Queste cifre, comparate con le medie europee, dimostrano come gli allarmismi e gli attacchi tesi all’ulteriore ridimensionamento della spesa sanitaria in Italia sono, da una parte senza fondamento, e dall’altra frutto di una tenace volontà privatizzatrice. Sta, infatti, avanzando - soprattutto in alcune regioni del Mezzogiorno - la privatizzazione strisciante del sistema sanitario. Del resto, oggi, le prestazioni integralmente gratuite sono quelle ospedaliere e nel rapporto con il medico di famiglia. Vi è una spesa privata, sopratutto nell’ambito farmaceutico molto consistente, e i più danneggiati sono i ceti più deboli. Molte ricerche ricordano che, persino nell’uso del servizio sanitario pubblico, sono avvantaggiati i più colti e ricchi. Consideriamo, quindi, come nodo centrale, non solo per la sanità, la necessità di rivedere i criteri di finanziamento del sistema di welfare.

La fiscalità generale deve essere il punto di riferimento prioritario del finanziamento del welfare. Nel momento in cui il governo - attraverso la controriforma fiscale di Tremonti - riduce a due le aliquote Irpef e nel contempo sopprime l’Irap, che finanzia per il 40% la spesa sanitaria, ci chiediamo seriamente quale futuro potrà avere il Sistema Sanitario Nazionale. Le imprese vengono di fatto esentate da una qualsivoglia compartecipazione al mantenimento del sistema di welfare, sottraendole a una responsabilità sociale fondamentale, che in un paese democratico ed europeo, qual è l’Italia, riguarda tutto l’insieme del corpo sociale.

Sulla sanità incombe inoltre una duplice scure. La prima è quella del superamento del Fondo Sanitario Nazionale, la cui responsabilità ricade integralmente sul governo del precedente centrosinistra. La seconda scure è quella della cosiddetta “devolution”, che se divenisse operante porterebbe alla nascita di 20 sistemi sanitari regionali differenziati, in cui la qualità delle prestazioni sarebbe legata soltanto alla capacità di entrata dovuta all’imposizione locale, aprendo oggettivamente le porte alla privatizzazione, a fronte di una insufficienza strutturale di risorse derivante dal progressivo restringimento del Fondo Nazionale (già oggi sottostimato di 5 miliardi di Euro per garantire i Livelli Essenziali di Assistenza) e poi al suo completo superamento.

In merito alla previdenza, il primo elemento che emerge è la confusione determinata dalla mancanza di una netta e definita separazione tra le voci previdenziali e assistenziali. Ciò permetterebbe ragionamenti sulle spese previdenziali sicuramente più lucidi. Il primo dato riguarda la non veridicità di chi afferma che la spesa previdenziale sia fuori controllo. Depurandolo delle voci improprie, il sistema risulta essere sano. Oggi il problema reale sul fronte previdenziale non è il costo complessivo, ma il mantenimento e la crescita del livello delle entrate, tale da consentire l’equilibrio del sistema a ripartizione. A mettere in pericolo la previdenza pubblica non è né l’aumento della popolazione anziana, né la famigerata “gobba”, ma la mancanza di risorse derivanti dalla vasta area di elusione ed evasione contributiva che si annida nelle piccole imprese ed in particolare nel Mezzogiorno.

Alcune idee e proposte vai a indice

Di seguito, proviamo ad elencare delle voci su cui vi è l’esigenza di connotare una politica del welfare nell’attualità. Prima di tutto, pensiamo che vi sia la necessità di uno stato sociale che alimenti uno sviluppo, compatibile con l’ambiente e la società; di una spesa sociale, quindi, pari alla media europea; di una linea di opposizione ad ulteriori tagli previdenziali; di politiche attive per il lavoro; di avviare politiche territoriali programmate in cui l’ambiente e il patrimonio culturale, le risorse umane e sociali vengano assunte come una ricchezza; di un ruolo dell’intervento pubblico in economia e di politiche settoriali in grado di intervenire sulla nostra struttura produttiva per meglio qualificarla ed innovarla (ciò serve anche, sul versante prettamente concorrenziale, a renderla competitiva sul piano internazionale); dello sviluppo di un’organica politica per il mezzogiorno, che superi la logica dannosa dei contratti d’area; di un superamento dei ticket sanitari, che si figurano sempre più come vere e proprie “tasse” e non compartecipazioni simboliche alle spesa o deterrenti rispetto agli abusi; di politiche di prevenzione a partire dalla sicurezza nei luoghi di lavoro; di una vera politica per il reperimento di risorse necessarie a politiche di sviluppo per creare nuova occupazione; di una seria e determinata lotta all’evasione fiscale; di forme di controllo sul capitale speculativo, con l’introduzione di provvedimenti quali la Tobin Tax; di politiche di incentivazione alla redistribuzione di lavoro, e quindi di riduzione d’orario a parità di salario.

Abbiamo usato il termine “provocatorio”, rispetto a questo lungo elenco di obiettivi. In realtà, esso traccia un orientamento schematico e una traccia di lavoro politico e sociale. E sottolinea le due principali colonne di uno stato sociale rinnovato: una seria politica fiscale, basata sulla progressività, sul controllo e sulla lotta concreta all’elusione ed evasione fiscale e contributiva, con pesanti sanzioni pecuniarie e penali verso le imprese che non rispettano le regole, ed un insieme di azioni per la redistribuzione sociale.

Politica fiscale, politiche di redistribuzione sociale vai a indice

Un nuovo welfare state non può che ripartire da una stretta connessione tra lavoro e territorio. Il welfare deve essere acquisito come elemento di crescita della società e non come elemento di spesa. La qualità della vita di una società non si misura solo dal rapporto di distribuzione reddituale, ma anche dalla qualità dei servizi erogati alla comunità. Il nuovo welfare deve essere un sistema territoriale a rete, che consenta di sviluppare tra i diversi soggetti che esistono sul territorio una vera interconnessione. Imprese, istituzioni, lavoratori, cittadini, sono un corpo unico pur nelle diverse specificità ed interessi che rappresentano. La contrattazione aziendale deve coniugarsi ad una politica territoriale organica. La crescita economica senza un’adeguata crescita sociale è una crescita che non produce benessere collettivo, ma che riserva benefici solo a fette sempre più ristrette di popolazione, quelle élites che attraverso alti redditi possono comprare anche le prestazioni sociali e sanitarie di cui necessitano.

L’idea di privatizzazione del welfare caratterizza in particolare l’attuale governo italiano, ma trova i suoi riferimenti culturali nella cultura della destra anglosassone, e forse non solo della destra. Mantenere al controllo pubblico la previdenza, la sanità, l’istruzione, l’assistenza, deve essere oggi uno degli impegni prioritari del sindacato. Impegno pubblico che non equivale a controllo statale, ma controllo nell’indirizzo e nella gestione che può articolarsi secondo le opportunità tra i diversi livelli istituzionali: Stato, Regioni autonomie locali. Ben sapendo che il processo federalista in atto ( difficilmente reversibile) o è governato con serietà o si risolverà nello sfascio istituzionale e di conseguenza nello sfascio del welfare state.

Non ci pare inoltre una soluzione adeguata la recente proposta discussa nel seminario che ha interessato sei Camere del Lavoro sul finanziamento del welfare attraverso un Fondo alimentato dall’1% del valore aggiunto delle imprese presenti sul territorio. Il problema del finanziamento del welfare va risolto con il pieno funzionamento della fiscalità centrale e locale. L’IRAP, che questo governo vuole abolire, aveva lo scopo di far compartecipare le imprese anche al finanziamento di una parte cospicua del welfare, in particolare la sanità. Il 40% delle risorse sanitarie derivano, infatti, dall’Irap. Oggi si corre il rischio di destrutturazione attraverso la mancanza di una politica di finanziamento adeguata e attraverso la mannaia della “devoluzione”. Occorre perciò ribadire la necessità di una adeguata riforma fiscale in cui il prelievo centrale e locale sia armonizzato anche attraverso un accorpamento dei tanti tributi oggi esistenti, evitando una proliferazione di voci, ma mantenendo un livello di prelievo atto a perseguire il mantenimento e l’estensione di strutture e servizi efficienti nei territori. Dunque l’ipotesi di un contributo dell’uno per cento dell’utile d’impresa può essere accantonata, chiedendo invece che sia solo mantenuto un prelievo fiscale sulle imprese da destinare a compartecipare al finanziamento di tutto il sistema del welfare e non solo alla sanità (come è oggi per l’Irap).

Non vi è dubbio che la questione fiscale abbisogna di una profonda revisione. Basta annotare alcune cifre per capirlo. Nel 1997 le aliquote complessive per le imprese erano pari al 53,2%, cui bisognava aggiungere l’imposta patrimoniale che portava l’aliquota complessiva attorno al 60%. Adesso, l’aliquota massima si colloca attorno al 41% e quella minima ottenibile con l’applicazione della Dual Income Tax (DIT) si riduce sino al 31%, portando il livello di tassazione delle imprese del nostro paese tra i più bassi d’Europa. I nuovi investimenti, tra l’altro, sono oggi tassati in Italia con un’aliquota marginale del 17,73%, rispetto ad una media europea del 24,30% (aliquote inferiori sono presenti soltanto in Svezia e Grecia, aliquote superiori invece vi sono in tutti i paesi europei rimanenti, con Germania e Francia rispettivamente al 37 e 41%). Con l’introduzione dell’IRAP, inoltre, le aziende hanno risparmiato circa 14 mila miliardi, con un risparmio soprattutto delle grandi imprese a scapito di quelle piccole, che hanno avuto un’accentuazione della pressione fiscale.

Sulla sponda dei redditi da lavoro, invece, uno dei problemi più urgenti riguarda il recupero pieno del “Fiscal drag” a fronte di un aumento della pressione fiscale sui redditi medio bassi sia a livello centrale (Irpef), sia attraverso la fiscalità locale (regioni ed enti locali) ma anche attraverso la tassazione indiretta che colpisce sopratutto i bassi redditi (IVA) . In questi anni le trattenute fiscali ai lavoratori sono salite del 4 %, mentre i contributi pagati dalle imprese sono diminuiti del 9%. Questa è una delle questioni dirimenti per le politiche del welfare, che interpreta le istanze di giustizia sociale. Segnala, inoltre, quanto si è formalizzata, nel corso di questo decennio, la supremazia dell’economia sulla società e come sia invece necessaria ed utile socialmente una ripresa d'egemonia della società e della politica sulle dinamiche economiche. Certo, significa che questi obiettivi devono essere iscritti in una politica ed in un movimento per la giustizia e redistribuzione sociale.

Abbiamo provato ad elencare sopra l’insieme di azioni per una forte redistribuzione sociale. Tuttavia, intendiamo cogliere anche qui alcuni aspetti essenziali, partendo da un assunto che è quello del perseguimento di politiche per la piena occupazione e per il diritto di tutti ad avere un lavoro stabile e “ricco” professionalmente. Sotto questa luce possiamo rileggere i capitoli degli ammortizzatori sociali e delle politiche di sostegno all’ingresso nel mondo del lavoro. Prima di tutto, vi è da notare quanto occorra, oggi, lo sviluppo di lavori non mercantili, poiché l’innalzamento della produttività nei settori tradizionali, come è noto, non è condizione di per sé sufficiente a garantire piena occupazione (un maggior numero di beni è prodotto con un numero di ore lavorate sempre più basso, cioè con meno occupati, visto che non si pratica la riduzione d’orario).

Perciò, pensiamo utile valorizzare l’espansione di economie di relazioni, di prossimità che possano rispondere ai bisogni crescenti nella società. Ciò non significa, ovviamente, una sottovalutazione del ruolo strategico nel settore industriale e primario, bensì il tentativo di superare il deficit di politica industriale italiana, caratterizzatasi in questo tempo solo con il sostegno alle imprese tramite sgravi fiscali, contributivi e espliciti finanziamenti (cfr. formazione professionale).

Per tali ragioni, insieme a un sistema fiscale che s’imponga su profitti e flussi speculativi finanziari, riteniamo utile sottolineare l’importanza, sul versante del lavoro, di politiche pubbliche con lavori di pubblica utilità. Anche qui un chiarimento: spesso LSU etc., sono stati usati per riempire vuoti di organico dell’amministrazione pubblica. E’ bene dire che intanto chiediamo giustizia per questi lavoratori, e cioè l’ottenimento di un lavoro stabile e dignitoso, e che per questo ipotizziamo lavori d’utilità sociale non sostitutivi degli attuali servizi pubblici, ma integrativi e corrispondenti all’emersione di nuove esigenze (gestione di fonti alternative di creazione d’energia, risanamento di periferie e centri urbani, tutela e manutenzione dell’ambiente, cura delle persone, messa a valore delle potenzialità artistiche e culturali in generale).

Ci siamo lungamente soffermati su possibili tracce d’intervento pubblico e sociale, poiché forte è in noi l’esigenza di affermare come lo Stato non può essere ridotto a mero erogatore di ammortizzatori sociali, e come, altresì, vada mantenuto, qualificato e reso più efficace un ruolo dello Stato nell’economia, a partire dai punti strategici che determinano sviluppo e competizione, orientando per questa via il sistema produttivo. Anche per questo siamo stati e siamo contrari alla privatizzazione delle aziende pubbliche strategiche, e siamo contrari ai processi di esternalizzazione e privatizzazione delle aziende municipalizzate. E’ un argomento, questo, degno di nota, poiché corrisponde ad un passaggio politico e sociale non indifferente. Dopo le grandi privatizzazioni, si è passati, infatti, alle alienazioni delle società municipalizzate e pubbliche locali, che avevano determinato una concreta politica allargata del welfare.

La filosofia con cui si motivano questi processi si sostanzia ritualmente nelle formule del federalismo e della cultura d’impresa. In realtà, stiamo assistendo alla formazione di nuovi monopoli e oligopoli privati. Vi è a giro, infatti, una massa finanziaria - i guadagni accumulati in modo esponenziale dalle imprese – che ha difficoltà ad essere reinvestita nei settori tradizionali. Vi è, dunque, un forte interesse a far sì che questa sovrapproduzione di capitali sia impiegata in settori da decenni considerati, correttamente, monopolio pubblico, sovvertendo lo stesso pensiero liberale moderno, il quale asseriva che un monopolio naturale si configura di per sé come bene pubblico.

Il welfare locale ed allargato vai a indice

E’ importante – a nostro avviso – contribuire su questo terreno, poiché così si può cercare di mettere in comunicazione l’azione del sindacato e dei movimenti sociali sul territorio, che si disegna quale base reale per ripartire anche con nuovi rapporti sociali. Si raffigura, qui, la dimensione concreta vissuta dai cittadini, quando scriviamo di tariffe dell’acqua, di trasporti pubblici, farmacie, centrale del latte, dell’energia.

Va sottolineata anzitutto, la necessità di superare o non accettare difformità contrattuali tra vecchi e nuovi assunti, pensiamo ad esempio al fenomeno delle cooperative sociali, ma anche alla proliferazione in atto nei contratti del comparto pubblico che interessano gli assunti a tempo determinato. Ciò attiene ad elementi di giustizia e riunifica le loro condizioni e in ultimo - aspetto, questo, importante per la riflessione inerente questa scheda - permette di battere le tendenze ad una competizione fondata sulla riduzione di salari e diritti, negando la possibilità di esistere ad aziende allestite ad hoc sulla base del sotto salario e delle gare d’appalto al massimo ribasso. Altri paragrafi del ragionamento riguardano il mantenimento delle organizzazioni del lavoro aziendale (esempio, la conservazione dei siti produttivi e commerciali sul territorio); la garanzia dell’applicazione contrattuale di settore alle nuove aziende; la tutela del carattere sociale dei servizi.

Vogliamo fare un esempio, per capire meglio le ipotesi di azione sul tema: la questione della vendita delle Centrali del Latte. In molte città questo tipo d'alienazione è stato compiuto ed ha prodotto minore qualità del prodotto e difficoltà con i produttori locali. Ebbene, si è così dimostrata l’utilità sociale, nonché economica, della gestione pubblica, che garantisce processi di lavorazione di alta qualità e controllo sul prodotto, diversamente dalle multinazionali del settore. E tale gestione potrebbe essere messa in relazione con la filiera produttiva agro alimentare locale e con il sistema di cooperative agricole, permettendo una lievitazione del ruolo pubblico e stimolando la valorizzazione dei produttori locali e l’utilizzo corretto e l’articolazione del territorio (nel senso del rispetto delle diversità di alta qualità prodottesi in questi anni, vedi le produzioni “pregiate” di latte). Quando, invece, si privatizza selvaggiamente il segno è un altro, quello della minore qualità del prodotto “latte”, che ha un valore sociale, e di un impoverimento del territorio.

Sul registro locale ci sono da fare altre considerazioni. La prima. Consiste nel disporre iniziative per un nuovo ruolo pubblico delle aziende municipalizzate o simili. Proprio perché molte di tali attività rappresentano monopoli naturali, esse non possono che vedere un protagonismo dei soggetti pubblici locali. Per tali ragioni, crediamo che la quota azionaria pubblica debba essere mantenuta in forma dominante o vincolante (non è tra l’altro da trascurare l’introito finanziario che continuerebbe ad arrivare alle Amministrazioni, che potrebbe migliorare con una politica aziendale di maggiore promozione).

La seconda. Forze sociali, sindacali e politiche democratiche e progressiste, e le organizzazioni sindacali dovrebbero svolgere un’azione di pressione verso gli Enti Locali, sempre più stretti da scarse possibilità finanziarie e alti tassi dei mutui bancari accesi, allo scopo di stimolare vertenze nei confronti del governo centrale, per modificare il patto di stabilità interno. Già con le cosiddette Leggi Bassanini, nei fatti, vi è stato un passaggio di competenze alle amministrazioni locali, senza, però, un adeguato sostentamento di risorse finanziarie dal centro alla periferia, facendo così aumentare l’affidamento di attività ai privati. Perciò, è urgente una modalità vertenziale degli Enti Locali verso il Governo, affinché si concretizzi una politica fiscale giusta ed adeguata ed un decentramento di denaro pubblico su progetti chiari e definiti, con la massima trasparenza.

Note conclusive vai a indice

Si ritorna, così, ai nodi strategici di una riflessione sul welfare. Sul welfare locale, non abbiamo scritto, ad esempio, quanto siano aumentati i fenomeni di esclusione sociale e come pesi un approccio diffuso da stato sociale minimo. Non abbiamo scritto dell’insoddisfazione ampia e diffusa rispetto a questa pratica affermatasi tendente allo stato minimo, per cui il cittadino, oltre ad essere soggetto di contribuzione per la fiscalità generale, deve pagare medicine, ticket, costi scolastici notevoli, trasporti. Riassumiamo, così, questo scenario: il nostro sistema di sicurezza sociale non riesce a garantire flussi di redistribuzione del reddito, in grado di avvicinare i punti estremi della società. Oggi, vi è un addensarsi quantitativo rispetto al polo in cui si trovano i più poveri e un aumento della distanza tra i più ricchi ed i più poveri.

Emerge, insomma, un’incapacità dello Stato, perseguita dalle classi dominanti, a rispondere a domande sociali complesse ed articolate ed a fornire eque politiche di coesione. Eppure ve n'è gran bisogno. Da parte nostra, per riassumere, è rilevante la sottolineatura su alcuni punti:

Non possiamo dimenticare la voce inerente all’aumento delle pensioni minime, sociali e di reversibilità. Non dobbiamo tranquilizzarci, poiché la riforma dello stato sociale non è questione tecnica, è la questione politica per eccellenza, e riemergerà continuamente, in special modo in questo quadro politico.

Bisogna, dunque, ritornare al contenuto: le condizioni, il valore, la retribuzione, lo status del lavoro, la redistribuzione sociale. Non dobbiamo arrenderci all’idea che c’è un campo limitato, che è quello di una “torta” che ha dimensioni date, che non possono essere modificate. Taluni dicono che ci vuole un welfare per competere, ma per fare ciò ci vuole meno stato sociale; e questa è la sintesi del ragionamento la cui conseguenza è che lo stato sociale non è più quello dei diritti, che crea coesione sociale (cioè democrazia), ma una cosa che deve assomigliare di più alle reti di protezione sociale di una parte definita del mondo sviluppato.

Diritti, piena occupazione, politica fiscale, partecipazione civica (altro tema disperso) possono quindi contestualizzare lo stesso sviluppo del settore no profit, di quell’insieme di attività che ormai vengono raggruppate nel cosiddetto terzo settore. In tal senso si può incoraggiare una politica che integri e non sostituisca i classici servizi sociali, con misure di controllo e protezione dall’invasione interessata di capitale privato, accompagnata da giuste misure di sgravi fiscali. Ma non è credibile, oltreché non giusto, affidare solo ad esso la speranza di sviluppo occupazionale, se vogliamo parlare di pubblici lavori, piena occupazione, coesione sociale. Il no profit può svolgere una funzione decisiva e crescente, non in sostituzione dello Stato sociale, ma per costruire un’alternativa reale alle forme mercantili dell’economia.

Infine, pensiamo che il sindacato ed i movimenti sociali possano qualificarsi con obiettivi che tutelino diritti politici e sociali. Infatti, l’obiettivo della cittadinanza è intimamente egualitario, poiché la sua attuazione è subordinata al riconoscimento universale dei diritti sociali. Una proposizione universalistica dello stato sociale e della cittadinanza si pone quale tratto di un sindacato (e di un blocco sociale) che vede la democrazia moderna come un processo di democratizzazione delle istanze d’eguaglianza, e cioè di formazione del welfare e della sicurezza sociale. Questa prospettiva riconosce i diritti degli individui come soggetti sociali oltre che politici, ed è una visione emersa quando la classe operaia si è trasformata in un soggetto sociale, che si serve di mezzi politici.

Riteniamo, perciò, utile recuperare quel concetto antico e non obsoleto dell’individuo che dovrebbe avere il diritto ad un’eguaglianza di opportunità nell’accesso non solo all’istruzione, ma anche al reddito ed all’occupazione. Ciò vale a dire, non il diritto a competere su una base d’eguaglianza per i mezzi di sopravvivenza, che dovrebbe essere diritto di ogni cittadino, ma un eguale diritto al lavoro ed al benessere sociale e materiale. Questo è stato un atteggiamento ed un obiettivo risultato teorico delle lotte concrete della classe operaia per l’eguaglianza. A questo, mutate le forme e la fase, ci richiamiamo.

In questi decenni si è affermata una gamma di bisogni vitali come l’istruzione, la sicurezza sociale, l’incolumità fisica, la salute, i trasporti, la casa e l’uso del tempo libero. Non sostituiscono i bisogni primari, cui una pratica dell’eguaglianza, e quindi delle politiche del welfare, devono rispondere, ma li arricchiscono; ed esprimono il segno di una società matura civilmente. Queste complesse domande sociali che assieme alla valorizzazione della differenza di genere si valorizzano del tutto affrontando la questione della democratizzazione della politica economica e sociale e in una lotta per la gestione popolare della divisione del lavoro sociale, aspettano le risposte del sindacato e di un nuovo blocco sociale, non domani ma da subito.

Ricordiamo, infine, come sia la lotta per l’uso di mezzi collettivi per il perseguimento di scopi collettivi (non individualistici) ad essere il principale veicolo per una nuova “individualità sociale”, che è la dimensione moderna dell’individuo cittadino. Oggi la scommessa pare essere, rispetto allo sfascio sociale prodotto dal liberismo, se il sindacato ed un nuovo blocco sociale sono in grado di prospettare una riunificazione degli interessi popolari comunitari, evitando storture burocratiche e degenerazioni scioviniste, per creare reali prospettive di autonomo sviluppo individuale nella società e a favore di essa, non al di sopra di essa o contro di essa.

“Globalizzazione e nuovo modello sindacale”

La globalizzazione in crisi?vai a indice

Se consideriamo fondamentale che la CGIL adotti una fisionomia compiuta quale protagonista del cambiamento sociale e per nuove politiche sociali, bisogna dunque prendere atto che la globalizzazione si è manifestata quale concentrazione dei poteri economici delle multinazionali, e con la liberalizzazione dei mercati e la finanziarizzazione dei capitali. L’aumento del lavoro industriale nel mondo è stato ripagato con la diminuzione della sua qualità, fino allo scempio del lavoro minorile e servile. Nel sud del mondo, l’apertura incontrollata dei mercati distrugge le economie nazionali, per far posto alle multinazionali.

In opposizione a questo operano i nuovi movimenti sociali, che hanno il pregio di aver stracciato il pensiero unico ed indicato la possibilità di alternative. Per questo la CGIL deve scegliere compiutamente di essere parte dei movimenti antiliberisti, per la pace e la democrazia, sulla base delle proprie scelte, fondate su non violenza e partecipazione democratica.

Questa globalizzazione è in crisi, le disuguaglianze sono aumentate e l’erosione dei diritti, con la privatizzazione dei beni comuni, è divenuta il campo basilare su cui anche i sindacati hanno da misurarsi con strategie forti.

La guerra sembra un tentativo di risposta alla crisi e un mezzo di dominio. Afghanistan e Iraq, contro cui si è preparata da tempo la guerra, indicano che la guerra preventiva punta ad un dominio politico ed economico del mondo, operando una rottura e mettendo in discussione il concetto di legalità internazionale. Non si costruisce ne’ pace ne’ democrazia con l’uso di nuove forme di occupazione coloniale delle grandi imprese multinazionali. Anzi, l’Iraq dimostra come questo sistema provochi distruzione economica, violenza generalizzata e guerra civile.

Un impegno preciso: no a nessuna guerra vai a indice

La CGIL allora deve rafforzare il proprio impegno per la pace in Palestina e Israele, contro l’occupazione militare ed economica dei territori palestinesi. Occorre un impegno contro il muro dell’annessione e della segregazione, costruito contro il diritto internazionale ed i fondamentali diritti nazionali ed umani palestinesi. Per la CGIL, assieme alla riprovazione di ogni attacco terrorista alla popolazione israeliana, come di qualsiasi forma di antisemitismo, è impellente un sempre maggior sostegno alle iniziative per la pace, per due stati e due popoli.

La costruzione europea è ferma alla gestione della moneta unica; e l’Europa politica produce un trattato costituzionale che dà legittimità alle politiche liberiste e di deregolazione del mercato del lavoro. Il trattato, inoltre, non afferma in esplicito il rifiuto della guerra e prevede un forte aumento delle capacità militari dell’Unione. Per tutte queste ragioni la CGIL non può condividere l’attuale bozza di trattato costituzionale e deve ritenere negativa la sua approvazione.

Per questo insieme di motivi, il sindacato europeo deve oggi misurarsi con un patto di stabilità che determina nei fatti un’impostazione liberista. Uno sviluppo socialmente ed ambientalmente giusto è impossibile con i vincoli di quel patto, che impedisce un ciclo espansivo di qualità economica, sociale e sostenibile. Primo compito del sindacato europeo sta dunque nel contrastare il patto di stabilità e il sistema di poteri del trattato di Maastricht. La crisi di efficacia sindacale a livello europeo, conseguente agli attacchi liberisti e ai processi di delocalizzazione delle aziende, esige forti iniziative sindacali nazionali ed europee, con iniziative per il controllo delle scelte delle multinazionali e per la riqualificazione dell’industria europea, e contro il dumping sociale.

Dobbiamo, quindi, plasmare una strategia sindacale europea, rafforzando i rapporti con gli altri sindacati e sperimentando maggiori iniziative comuni. Ciò impone l’urgenza di una riflessione su qualità e funzioni del sindacato europeo, che nel tempo della globalizzazione ha da costruirsi in relazione con l’azione sindacale a livello internazionale, evitando chiusure tutte in chiave solo “europeista”.

Per questo occorre lavorare su alcuni principi fondamentali:

L’assetto sociale del paese e le iniziative sociali e sindacalivai a indice

Per ciò che riguarda il nostro paese, Governo e Confindustria tendono a ridisegnarne l’assetto sociale, negando ruolo e significato al conflitto ed alla contrattazione. L’accordo separato sul contratto dei metalmeccanici e la legge 30 hanno cancellato nuove ipotesi concertative e di politica dei redditi. Il sindacato, perciò, deve definire nuove scelte strategiche per riconquistare la contrattazione e ricomporre il mondo del lavoro. Difendere e accrescere i diritti; conseguire una redistribuzione sociale ed una diversa distribuzione del reddito; cambiare il modello economico e sociale in senso solidale, equo e sostenibile. Questi sono gli obiettivi cui si deve dotare la CGIL.

Dopo anni nei quali al centro sono stati i valori dell’impresa e della speculazione, adesso si deve rimettere al centro dell’economia il lavoro, la solidarietà internazionale e l’ambiente. Dare valore al lavoro in tutta la filiera produttiva è una delle leve fondamentali per uno sviluppo giusto, equo ed equilibrato e duraturo, soprattutto ora che tutti sembrano aver scoperto il dissesto del sistema industriale, la precarizzazione e la caduta del potere d’acquisto e del tenore di vita di lavoratori e pensionati. I giovani e chi è espulso dalla produzione perdono la possibilità di una vita migliore, e la condizione del lavoro degrada con ritmi sempre più duri, e con autoritarismo e sfruttamento.

Declina, dunque, il sistema industriale, e la speculazione finanziaria domina l’economia, in un contesto in cui la fede cieca nel mercato indebolisce il sistema economico del Paese. A questa situazione critica Confindustria e governo di destra hanno cercato di dare una risposta comune aggredendo tutti i diritti del lavoro e proclamano che per uscire dalla crisi occorrono ancor più mercato selvaggio e più riduzione dei diritti.

L’attacco si è poi esteso allo Statuto dei lavoratori e al rapporto di lavoro.

Al contempo, con il Patto per l’Italia si configura il più grave attacco al rapporto di lavoro, e cioè la Legge 30/03, che porta a termine la destrutturazione del rapporto di lavoro subordinato. Essa allarga la precarietà e offre alle imprese un dominio sulle lavoratrici e i lavoratori, istituzionalizza la precarietà e intende mutare natura e ruolo del sindacato nel senso di una totale subalternità all’impresa.

È dunque a partire dal lavoro, e dalla esigenza di redistribuzione sociale e qualità sociale dell’economia, che si possono costruire, attraverso la pratica contrattuale, le condizioni per un nuovo sistema di relazioni industriali ed un nuovo modello contrattuale. Ed anche per aprire un percorso verso un modello sociale antiliberista, che riconosca i diritti sociali e democratici dei lavoratori, ed il loro diritto ad essere un soggetto collettivo autonomo dall’impresa.

Questa situazione si definisce in un contesto mondiale in cui il “mercato” propone la propria riproduzione con uno sfruttamento intensificato, aumentando le fasce d’esclusione. Per questi motivi la guerra permanente sta diventando la forma prevalente della politica internazionale; e perciò, una nuova politica economica e sociale antiliberista esige la rimessa in discussione dei vincoli che ostacolano la crescita dei diritti e della società. E ciò significa ridiscutere le politiche del fondo monetario internazionale e i vincoli del patto di stabilità europeo.

L’accentramento dei poteri e dei luoghi della decisione riduce, inoltre, la libertà che si misura ora solo in reddito e capacità di consumo, e pone un ostacolo alla partecipazione di massa alla vita politica. Da qui, perciò, un attacco alla democrazia formale e sostanziale, che nel mondo del lavoro si trasforma nel divieto per i lavoratori di votare su piattaforme e accordi che li riguardano. Per questo la lotta per la democrazia, a partire dai luoghi di lavoro, deve essere per la CGIL un impegno prioritario.

Partendo dai temi della redistribuzione sociale, della qualità sociale dell’economia e della pace e della democrazia, si può collocare dunque l’impegno della CGIL nei movimenti antiliberisti, che hanno sviluppato una critica a questo modello di sviluppo. E così, per la CGIL, è conseguente l’urgenza di approntare oggi una iniziativa generale per un nuovo contratto nazionale, la riunificazione del mondo del lavoro e l’aumento delle retribuzioni. È così necessario acquisire orientamenti e scelte di politica economica e finanziaria, e di una vera politica industriale. E ciò può e deve avvenire anche con l’affermazione di un ruolo pubblico nell’economia, non solo fatto di regole e controlli, ma pure con una concreta partecipazione e capacità di orientamento nel sistema delle imprese per realizzare produzioni di qualità sociale ed un’occupazione stabile e “ricca”. Ed il ruolo del contratto nazionale quale strumento di solidarietà generale e di classe è fondamentale, sia nella redistribuzione della ricchezza (con la crescita delle retribuzioni), sia nella definizione dei diritti (contro la precarizzazione e la flessibilità dei lavoratori). Con questa premessa generale, la contrattazione di secondo livello ha da essere il campo in cui la condizione di lavoro è l’oggetto della reale contrattazione collettiva, per combattere la frantumazione del lavoro.

Crisi della concertazione, un nuovo modello sindacale, nuovo meccanismo automatico per adeguare stipendi, salari e pensioni all’inflazione vai a indice

Si impone, perciò, la ricerca di un modello organizzativo nuovo del sindacato per la ricomposizione del lavoro. Occorre dunque costruire un sindacato in grado di riunificare e rappresentare tutti i lavoratori del ciclo produttivo. Per la CGIL, quindi, non vi è possibilità di reggere le sfide attuali se non sono nutrite da un reale concorso di tutte le soggettività della filiera produttiva. Questa partecipazione si deve basare su percorsi democratici, e assegna ai lavoratori la titolarità decisionale delle piattaforme e degli accordi sindacali.

Alla diversificazione dei rapporti di lavoro corrisponde la centralizzazione del comando. E così vediamo la diffusione di tutte le forme di precarietà ed i processi di terziarizzazione. Alla filiera produttiva corrispondono così imprese giuridicamente autonome e l’individuazione del “core business” in un segmento sempre più limitato rispetto alla filiera del prodotto.

Per le imprese quindi i nuovi modelli organizzativi figurano centralizzazione del comando, raggiungimento del massimo profitto nel tempo più breve possibile, delocalizzazione della produzione dove i costi sono più convenienti. L’effetto per le lavoratrici e i lavoratori è un minore potere contrattuale.

Per il sindacato, perciò, il tema è l’unificazione e l’obiettivo della CGIL deve essere quello di riconquistare un potere collettivo in grado di intervenire su diritti, salario, condizioni di lavoro, attraverso modelli organizzativi e contrattuali che oppongano alla frantumazione l’unificazione del lavoro dipendente. Bisogna, insomma, riunificare, a partire dal contratto nazionale, ciò che le imprese precarizzano e dividono. Ed il contratto nazionale deve ricostruire la filiera del lavoro e la sequenza del valore. L’antidoto alla frammentazione consiste appunto nel ricostruire la filiera, ed è essenziale per ridistribuire su tutti la ricchezza prodotta.

Le politiche del governo e l’arroganza di Confindustria hanno in questi anni mostrato l’incapacità strutturale, dal punto di vista della tutela dei salari e delle condizioni di lavoro, e la conseguente crisi del patto sociale del 23 luglio del ’93 e della politica dei redditi. Quel sistema era fondato non solo su vincoli e regole contrattuali, ma su un patto economico sociale, con obiettivi condivisi su politica economica e condizioni dello sviluppo. Moderazione salariale e flessibilità, accettate con precisi vincoli nell’accordo, avrebbero dovuto essere compensate dall’aumento degli investimenti, e da una generale politica di contenimento di prezzi e tariffe. Come era già stato previsto, niente di tutto ciò si è realizzato.

Ed il 23 luglio sì è configurato per ciò che è, e cioè quale strumento per disciplinare il conflitto tra le parti, usando l’inflazione programmata per ridurre il salario reale. Di fronte alla crisi del 23 luglio, le imprese cercano adesso di rivedere quell’intesa, peggiorandone le condizioni. Il bersaglio centrale è il contratto nazionale, per ridimensionarne il ruolo sul piano normativo e salariale, affidando più spazio alla contrattazione decentrata, motivando che solo così si fa fronte alla caduta dei salari. Questa giustificazione, come ben sappiamo, non ha nessun fondamento, e significa in realtà tornare alle gabbie salariali, ridurre i diritti, il potere d’acquisto e il tenore di vita dei lavoratori. Infatti, un contratto nazionale così definito favorirebbe solo una competizione tra territori fondata sul dumping sociale.

La CGIL invece deve, a nostro avviso, riunificare il mondo del lavoro e redistribuire il reddito, partendo dal contratto nazionale: questo è l’unico terreno in cui il lavoro esercita il massimo e più unificante ruolo di solidarietà. Ed il contratto nazionale, assieme ad un’azione progressiva sul fisco, deve diventare la leva vitale per invertire il processo che restringe la quota di reddito generale che va al lavoro. Non è più possibile accreditare l’inflazione programmata o ogni altra forma di misurazione preventiva sui prezzi che abbia il compito di contenere i salari. Le polemiche sul paniere dell’Istat e la differenza tra inflazione ufficiale e quella reale, indicano la esigenza di un’autonoma valutazione sindacale sulla tutela del salario dall’inflazione.

Al contempo, riteniamo necessario, ma non sufficiente, usare per i contratti nazionali il mero rivelatore della produttività di settore, perché non corrisponde al processo di distribuzione reale della ricchezza. Infatti, com’è evidente, la redistribuzione del reddito verso finanza e rendita non è annotata, anche se poi si palesa come condizione materiale.

Starà, perciò, all’autonoma valutazione sindacale scegliere come bilanciare le proprie richieste nazionali, sapendo che per noi l’obiettivo della CGIL, nei prossimi anni, deve consistere nell’invertire il trend di riduzione delle quote del lavoro nel reddito nazionale. Per questo, un nuovo sistema di relazioni industriali deve essere basato sul consolidamento del contratto nazionale, sul piano normativo e retributivo. E per questo crediamo indispensabile che gli aumenti salariali contrattuali abbiano quale riferimento la ricchezza complessiva del paese. Per quanto riguarda l’adeguamento di salari, stipendi e pensioni all’inflazione reale, la proposta che facciamo consiste in un nuovo meccanismo generale di adeguamento automatico.

La lotta alla precarizzazione del lavoro dà luogo all’altra spinta per affermare i diritti del lavoro. Dopo l’approvazione della Legge 30/03 ci troviamo in una situazione in cui dobbiamo rendere inefficace una legge. Di fronte a tale esigenza l’atteggiamento del sindacato non può essere di contrattualizzazione della legge. Il sindacato deve rigettarla, in particolare in quelle parti fondative che inseriscono nuove figure di precarietà, e deve ribadire la totale opposizione all’introduzione degli Enti bilaterali. Ciò esige una scelta rivendicativa vigorosa nel contratto nazionale e nelle imprese, per fissare regole e diritti per i lavoratori, avendo quale scopo generale la conversione a tempo indeterminato di tutti i rapporti precari. Sul livello dell’iniziativa istituzionale e legale, ciò vuole dire usare ogni spazio che la giurisdizione consente per rendere inefficace la legge, e connettere questo intervento allo sviluppo di una campagna politica e sindacale generale ed articolata, affinché il Parlamento modifichi alla radice la legislazione che ha precarizzato il lavoro ed abroghi la legge 30/03.

Si pone, inoltre, con forza il tema degli orari di lavoro ed occorre riproporre, anche a livello europeo, la riduzione a 35 ore settimanali, ed anche ripristinare la contrattazione aziendale degli orari in rapporto alla qualità e all’intensità del lavoro, rifiutando i meccanismi di flessibilità che le aziende pretendono di esigere.

In tal quadro, il secondo livello di contrattazione diviene mezzo concreto di confronto con i problemi di produttività ed organizzazione del lavoro. La contrattazione di secondo livello deve ridiventare vera e propria contrattazione aziendale, affrontando, in primo luogo, le questioni dell’organizzazione del lavoro e del salario aziendale. Il premio di produttività o risultato dovrà pertanto essere solo una porzione della contrattazione d’azienda, per sviluppare strumenti che consentano alle Rsu il controllo su scelte produttive aziendali e contrattazione dell’organizzazione del lavoro. Ed al centro della contrattazione deve esserci l’unificazione e l’estensione dei diritti al livello più alto.

Privatizzazioni e ruolo dello Statovai a indice

Le privatizzazioni, attuate anche dal centrosinistra, non hanno determinato alcun miglioramento dei servizi, e le imprese (privatizzate) che operano in servizi essenziali restano monopoli, ed hanno perso ogni funzione pubblica. Così la fine dell’intervento pubblico ha affidato settori strategici a imprese multinazionali, con risultati sconvolgenti. Rischiano la chiusura gli stabilimenti manifatturieri soprattutto al sud, mentre lavori di progettazione, ricerca e commercializzazione si dislocano fuori dall’Italia. Tutto diviene così precario e dipendente.

È essenziale, perciò, un grande programma di investimenti pubblici e privati che rilanci l’industria come elemento strutturale decisivo e compatibile ambientalmente nel nostro paese, segnatamente nel Meridione. E l’intervento pubblico dovrà qualificarsi per capacità di raccoglimento delle risorse e selezione di obiettivi e progetti per una crescita dimensionale delle imprese, per reti produttive territoriali di ordine strategico, e per percorsi di occupazione “ricca” a tempo indeterminato.

Un programma di industrializzazione richiede due condizioni inerenti regolazione del mercato del lavoro e valorizzazione del lavoro. Un ruolo attivo dello Stato negli orientamenti fondamentali dell’economia, ed una sua presenza non solo regolativa, si attuano con progetti di rilancio della ricerca pubblica e di politica industriale, capaci di imporre una qualità produttiva, sociale ed ambientale in tutte le fasi del ciclo. Una politica industriale di questo segno richiede un atteggiamento determinato del movimento sindacale, per impedire ogni forma di destrutturazione del lavoro, con la sostituzione dei lavoratori stabili con i precari. Occorre, insomma, ricomporre il legame tra produzione e ricerca.

Il legame tra produzione e ricerca richiama, così, la questione del modello sociale.

Modello sociale, di sviluppo e di lavoro sono questioni connesse. Tanto che il disconoscimento della democrazia nei luoghi di lavoro si collega allo smantellamento di una idea universale di inclusione sociale. Eliminare il diritto al lavoro dai diritti di cittadinanza è un’azione che occulta il taglio delle risorse per lo stato sociale, trasformato welfare per i poveri. Infatti, si mette fuori uso la previdenza pubblica e il diritto a una pensione decente sia ai lavoratori tradizionali sia ai precari. E si opera in modo parallelo sul passaggio al sistema contributivo e sull’elevazione dell’età; e la tentazione di ridurre i costi aziendali con il taglio dei contributi ritorna di continuo, rischiando effetti terribili per i giovani.

I tagli alla spesa pubblica introducono in tutti i servizi pubblici i criteri della privatizzazione. In questo quadro procede la proposta di ovviare nei contratti al ritirarsi dello stato sociale con fondi sanitari o asili nido aziendali. Per la CGIL tutto ciò deve essere inaccettabile, essendo dentro la pratica della privatizzazione e della rottura delle solidarietà.

La scelta della CGIL per la redistribuzione del reddito riteniamo debba passare anche attraverso le politiche fiscali, tariffarie, dei servizi sociali per rendere benessere e sicurezza alle classi a rischio di povertà ed ai lavoratori. C’è bisogno, dunque, di collocare l’individuo sociale al centro del welfare e fare della capacità inclusiva del paese un rivelatore essenziale della qualità dello sviluppo. La riaffermazione del diritto a meccanismi sociali di redistribuzione e partecipazione, è un requisito vitale per rimuovere un’idea di stato sociale per indigenti. E questo ci sembra un punto di incontro fra il movimento sindacale e gli altri movimenti che si oppongono alla privatizzazione dello stato.

Per un nuovo modello sociale è obbligatoria una maggiore pressione fiscale sui redditi alti.

In particolare, per la CGIL dovrà essere prioritario rivendicare una politica fiscale progressiva ed una pressione fiscale che colpisca speculazione ed evasione fiscale. Ciò richiede la rimozione della delega fiscale del governo che regala sgravi fiscali alle imprese, pregiudicando ogni politica sociale. Ed è inoltre doveroso riorganizzare la lotta all’evasione fiscale, messa fuori uso dall’attuale governo. Bisogna, inoltre, salvaguardare salari, stipendi e pensioni contro il drenaggio fiscale, con un dispositivo automatico che alzi le aliquote nell’identica proporzione dell’inflazione, per conservare invariata la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Si deve, inoltre, ristabilire una tassa di successione, oltre che abolire ogni disposizione che diminuisce i controlli sulle imprese e sui loro bilanci, vedi, ad esempio, quelle che rendono meno grave il reato di falso in bilancio. Alla CGIL, infine, proponiamo una campagna generale e nazionale che si prefigga gli obiettivi di un controllo e di una tassazione sui movimenti di capitali (Tobin Tax).

Previdenza, Assistenza ed Istruzionevai a indice

In primo luogo la spesa sociale va portata ai livelli europei.

Per quanto concerne la spesa previdenziale, essa non deve essere ridotta. Al contempo è urgente assicurare il principio della pensione anticipata per i lavori usuranti, in base a indici specificati su nocività, gravosità e rischio del e nel lavoro. E per i giovani e i precari deve definirsi il diritto garantito alla pensione, assicurando a tutti un minimo contributivo anche per i periodi di non lavoro e abolendo ogni tipo di sottocontribuzione. L’Inps, infine, deve essere interessata alla gestione dei fondi, in special modo quando la gestione privata si palesi incapace di offrire sicurezze e garanzie. Va sopratutto combattuto il tentativo palese di privatizzazione del sistema previdenziale che poggia su due fattori entrambe destabilizzanti: la decontribuzione e il passaggio obbligatorio del TFR nei fondi pensione privati. Su questo fronte dobbiamo chiamare tutti i lavoratori ad esprimere un NO compatto a questa politica, e se si rendesse necessario anche attraverso lo strumento referendario.

L’assistenza deve essere garantita sia attraverso il Fondo nazionale, che con le risorse delle autonomie territoriali. Va attuata la riforma 328/00 in tutte le regioni, sopratutto devono essere definiti i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEA) che sono parte fondante della legge di riforma dell’assistenza e garantiti dall’articolo 117 della Costituzione. Soltanto la definizione e l’applicazione dei LEA su tutto il territorio può garantire il permanere di un sistema universalistico e uniforme delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. In alternativa a questa line c’è solo la dissoluzione del sistema di assistenza che oggi è affidato ai comuni. Comuni che a fronte dei persistenti tagli ai trasferimenti statali e con il blocco della fiscalità locale, si trovano oggi ad affrontare gravi difficoltà. Dopo la fine della sperimentazione del “Reddito minimo d’inserimento” per larghi versi insufficiente (a partire dalla soglia reddituale allora individuata in 500 mila lire) deve essere individuata una soglia di povertà, definendo un “reddito sociale di base” che deve essere garantito a tutti i cittadini in stato di bisogno.

Per quanto concerne l’Istruzione, La controriforma della scuola attuata dal Ministro Moratti porterà in breve tempo al collasso del sistema scolastico pubblico, sia per mancanza di risorse, sia per la crescente dequalificazione delle strutture a tutti i livelli. Anche qui occorre una mobilitazione per garantire risorse umane e strutturali al fine di evitare che la scuola pubblica si trasformi nella scuola per non abbienti, mentre chi ha risorse finanziarie usufruirà di istituti privati, dalla scuola dell’obbligo sino alle specializzazioni post universitarie.

Elementi conclusivi, Democrazia e Pluralismo, Lotta al terrorismovai a indice

Noi proponiamo che la CGIL si vincoli ad un’azione generale di ampliamento della tutela del lavoro e del posto di lavoro, in connessione con il miglioramento delle tutele sociali per i disoccupati ed il lavoro precario. Per queste ragioni, chiediamo alla Confederazione di approntare una proposta ed un percorso concreti per l’obiettivo del reddito sociale, che comprenda periodi di studio e disoccupazione, finanziato da tributi su speculazione e grandi patrimoni. E la CGIL deve prendere chiara posizione sul superamento della “devolution sanitaria”, per realizzare un nuovo sistema di solidarietà nazionale per garanzie universali delle prestazioni, valorizzando un nuovo servizio pubblico della sanità contro tutte le forme di gestione liberista affermatesi in questi anni. Noi, inoltre, riteniamo che la CGIL debba manifestare la propria contrarietà al ritorno alle mutue nazionali di categoria e alla riproposizione sulla sanità delle scelte fatte per le pensioni integrative.

Crediamo quindi che la Confederazione debba essere chiara e conseguente nell’opposizione alla privatizzazione dei servizi pubblici, poiché pensiamo che sia giusto proporre il servizio sociale a tutela di figli, anziani e delle figure sociali deboli; così come gli asili nido devono essere gratuiti per le famiglie dei lavoratori ed a reddito medio-basso. Una particolare attenzione va posta, infine, sul ruolo del trasporto pubblico sia su gomma sia su ferro. Nel processo di destrutturazione del welfare allargato, anche molti Enti Locali governati da giunte di centro sinistra scelgono la privatizzazione del servizio pubblico. Noi proponiamo invece alla CGIL di candidarsi a guidare un fronte di alleanze sociali che salvaguardi e sviluppi il trasporto pubblico, chiedendo ai governi locali progressisti di impegnarsi con il movimento sindacale e democratico nelle richieste di ripristino dei finanziamenti del governo alle amministrazioni locali su questo versante.

Anche sulla scuola pubblica crediamo utile accennare in breve ad una precisa posizione e cioè quella che definisca certezze e prospettive alla scuola pubblica realmente gratuita fino a 18 anni di età. Perciò è da abrogare la controriforma del governo Berlusconi, così come vanno corrette diverse impostazioni dei governi precedenti, con l’abrogazione di ogni finanziamento, diretto o indiretto, alla scuola privata.

Nel settore universitario, rileviamo come oggi si sia configurata una nuova gerarchizzazione sociale. Per i figli di lavoratori e delle classi popolari diviene sempre più difficile accedere allo studio universitario, vista la dimensione delle tasse universitarie, di cui chiediamo una fortissima riduzione, poiché esse sono utilizzate in modo evidente per rendere difficile l’accesso alle classi popolari. Per tali ragioni pensiamo utile che la CGIL si doti di obiettivi per garantire l’accesso all’università ai figli dei lavoratori e delle classi popolari, con un sistema articolato di borse di studio, forte riduzione generale delle tasse universitarie ed anche di un’esenzione dalle tasse che premi i redditi da lavoro dipendente e che sia molto più diffuso e reale di oggi. Da qui si misura la qualità di uno stato sociale e dei percorsi redistributivi e perciò la spesa complessiva per l’istruzione nel bilancio dello stato deve aumentare considerevolmente in proporzione alle altre voci, segnatamente alle spese per gli armamenti militari e per il rafforzamento dell’esercito professionale, su cui manifestiamo una netta contrarietà.

Noi pensiamo necessaria una piattaforma ed un’azione confederale che assuma come prioritarie queste rivendicazioni, che formano gli assi di una nuova politica di sviluppo, impostata su una crescita equa e giusta sia socialmente sia ecologicamente. Per questo, tali priorità vanno sostanziate da una politica di investimenti tesa all’incremento della qualità della vita, al risparmio energetico, alla valorizzazione del patrimonio culturale e artistico, al diritto all’abitazione ed alla mobilità sostenibile, al risanamento ambientale ed a quello dei grandi centri urbani e delle aree degradate. Su tutti questi temi sono possibili e necessari programmi d’investimento in alternativa alla politica delle grandi opere.

Assumere la democrazia come base per la contrattazione vuole dire, in conclusione, anche ridefinire la stessa vita interna della CGIL.

Gli iscritti devono avere il potere reale di governo dell’organizzazione, e la CGIL ha di fronte a sé la necessità di adeguare la propria struttura alle esigenze d’estensione della partecipazione e della militanza. Questo significa una ridefinizione delle strutture e dei rapporti tra esse, come abbiamo già scritto in altri capitoli. Per questo la costruzione dei comitati degli iscritti quali nuove sezioni sindacali CGIL, deve essere sentita come, riorganizzazione e rappresentanza di tutto il ciclo lavorativo.

La scelta della democrazia, dello strumento del conflitto sociale e di un’innovata capacità di contrattazione, oltre ad una nuova concezione di militanza sindacale crediamo debbano essere considerati quali elementi fondanti per una nuova piattaforma strategica della Confederazione.

Democrazia, per noi, significa che il sindacato contratta in base ad un mandato costruito dai e con i lavoratori e verificato con essi. La democrazia significa che il sindacato non è autoreferenziale ed avulso da una chiara definizione delle sue funzioni rappresentative, e che i lavoratori sono i veri titolari del loro contratto. E questo vuol dire che le piattaforme e gli accordi hanno da essere sottoposti al referendum dei lavoratori interessati.

Il referendum certo non esaurisce le forme di partecipazione, poiché fondamentale è il ruolo delle Rsu in fabbrica. In riferimento a questo pensiamo che tutti i delegati delle Rsu debbano essere eletti su base proporzionale, senza nessuna riserva per organizzazione. E riguardo ai contratti nazionali, proponiamo che vi siano delegazioni elette democraticamente e su base proporzionale, in modo da assicurare una rappresentatività alle organizzazioni pari alla loro tangibile consistenza.

Per quanto riguarda la CGIL, democrazia del referendum e democrazia delle Rsu e delle rappresentanze nazionali devono essere ambedue necessarie per attuare una piena democrazia sindacale. Ed una legge sulla rappresentanza è fondamentale, proprio per tutelare l’equilibrio democratico nella rappresentanza e il diritto dei lavoratori a deliberare sugli accordi. La CGIL, infine, non deve svolgere nessuna vertenza o accordo senza la consultazione referendaria dei lavoratori; e su queste basi democratiche deve proporsi un’unità d’azione alle altre organizzazioni sindacali, poiché il referendum è presupposto fondativo per l’unità d’azione con le altre organizzazioni sindacali.

Concludendo il nostro ragionamento sulla democrazia non possiamo esimerci dal richiamare l’impegno per la lotta ad ogni forma di violenza e di terrorismo. Il primo impegno per garantire la continuità dell’azione sindacale è la presenza di un forte tessuto democratico. Ribadiamo perciò il nostro costante impegno a combattere ogni fenomeno di violenza. Riteniamo inoltre necessaria una forte vigilanza e dura lotta nei confronti di ogni fenomeno di natura terroristica. Sappiamo che il terrorismo nazionale di varia estrazione politica, ha tentato in tutti i passaggi cruciali della storia democratica di questo paese di innescare una spirale tesa in definitiva a porre in crisi le istituzioni democratiche e spingere verso soluzioni autoritarie. Lo stesso impegno va tenuto nei confronti del terrorismo internazionale che è oggettivamente un supporto ad ogni politica di repressione e di guerra, come nel caso dell’Iraq e dell’Afghanistan.

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Eccoci, Fare Sindacato
Chianciano, 13 maggio 2004