La crisi dell’industria.

Il modello Fiat è fallito. I lavoratori devono poter intervenire sulle scelte delle imprese.

Parte 1. La contrattazione

L'inedita crisi industriale che stiamo attraversando può e deve essere colta dalla sinistra come una occasione: dal rapporto, tutto da costruire, tra bisogni sociali e produttivi, beni e servizi, compatibilità ambientale possono e devono scaturire risposte e soluzioni alternative a quelle del centro destra. Il sindacato è chiamato a contribuire alla costruzione di un nuovo rapporto tra politica, istituzioni, conflitto sociale.
Milano è il luogo dove, prima che altrove, si manifestano le trasformazioni dell’impresa e del mondo del lavoro e dove, più che altrove, si è evidenziata la necessità di politiche e pratiche sindacali diverse dal passato e l’esigenza di instaurare un differente e più equilibrato rapporto tra capitale e lavoro.
Su questi nodi abbiamo deciso di ospitare quattro interventi di Maurizio Zipponi, segretario generale della Fiom di Milano, incentrati sui grandi temi della contrattazione e della rappresentanza, dell’industria dell’auto, delle telecomunicazioni e del ruolo dell’attuale industria pubblica.

In Italia il calo di consensi al centro destra, la sconfitta (che assume un significato simbolico) subita dalla Casa delle Libertà e alleati nelle elezioni per la Provincia di Milano, la crisi del governo Berlusconi ci dicono che altri soggetti possono puntare al governo del paese offrendo una nuova classe dirigente e un nuovo programma. Il punto non è attendere l’accelerazione della crisi della compagine governativa, ma cominciare a individuare una serie di priorità che dicano ai cittadini ed ai lavoratori che esiste anche una rappresentanza politica alternativa al centro destra, oltre che un conflitto sociale ormai evidente.

Il nostro paese sta attraversando una inedita e pericolosa crisi industriale: le grandi imprese capaci di concorrere sul I mercato internazionale sono scomparse; l’azienda italiana per eccellenza, la Fiat, è sull’orlo del collasso; le recenti, grandi operazioni di investimento, cioè Telecom e Autostrade, si reggono su un mercato protetto; marchi, brevetti, intere strutture di ingegnerizzazione, alta e media tecnologia vengono sistematicamente ceduti alle multinazionali americane, giapponesi, tedesche e francesi che li esportano fuori dal paese; la piccola e media impresa, senza la svalutazione della moneta che le permetteva di concorrere riducendo i costi, è fuori gioco.

La somma di questi fattori, unita all’assenza totale di protagonismo dello Stato nell’individuazione dei settori strategici per il paese e nella conseguente elaborazione di una vera politica industriale, oltre che nel sostegno al credito dell’impresa, ha trasformato l’Italia in un gigantesco scaffale da cui le imprese di altri paesi prelevano tutto ciò che serve a rendere competitivo il proprio sistema; così il nostro paese si ridurrà ad un luogo di decentramento produttivo di altri paesi.

Mi confronto quotidianamente con la trasformazione di impresa, con il suo impatto nel mondo del lavoro, con la precarietà che porta con sé, e su questo vorrei fare una prima riflessione.

La condizione di lavoro è l’insieme di situazioni concrete (salario, orario, ecc.) e di questioni non immediatamente materiali (ruolo e senso del lavoro, rapporto tra tempo di lavoro e vita, ecc.). Nella mia esperienza concreta mi sono reso conto che non può esistere la possibilità di migliorare quella condizione se il lavoro delle persone non entra in gioco in un sistema industriale che compete a livello mondiale ai livelli più alti, laddove si concentrano ricerca, innovazione tecnologica, progettazione, e che prevede percorsi formativi strutturati dentro il rapporto di lavoro sin dall’inizio. In sintesi: una seria politica industriale è la condizione indispensabile per difendere un serio posto di lavoro a tempo indeterminato.

A questa affermazione deve corrispondere una assunzione di responsabilità sia del movimento sindacale che della sinistra politica. Oggi è indispensabile, contemporaneamente, aumentare i salari e costruire una industria autonoma e competitiva.

Non si scappa, le due cose devono marciare insieme: l’alto salario indica la collocazione di un paese in una fascia della concorrenza mondiale dove il valore del lavoro è considerato un fattore determinante; solo un’industria altamente competitiva e autonoma dal punto di vista tecnologico e della ricerca può generare salari elevati.

Questo è lo snodo ineludibile, un punto di arrivo e, insieme, di partenza. Di arrivo, nel senso che scaturisce dall’esperienza di questi anni. Di partenza, per discutere e decidere cosa è necessario governo faccia per realizzare una politica industriale diversa e incisiva. E’ evidente che le scelte di politica industriale non possono essere un fatto privato tra capitale e lavoro, cioè tra Confindustria e sindacato, ma devono prevedere un ruolo dello Stato.

A questo proposito è senza senso riproporre, come alcuni anche all’interno del sindacato stanno facendo, l’accordo del luglio ’93 e la famosa “concertazione”.

Non solo perché ha prodotto un pesante peggioramento delle condizioni di lavoro (generando una ripartizione della ricchezza tra salari e rendite clamorosamente squilibrata) a cui non ha corrisposto il miglioramento della competitività del nostro sistema industriale, ma anche perché i fattori fondamentali di riferimento sono cambiati.

Allora si discuteva di ingresso in Europa, di inflazione a due cifre, di un sistema contrattuale diverso. Oggi il nodo è: il valore del lavoro legato ad una forte innovazione. Per questo diventa inevitabile arrivare ad una nuova mediazione tra capitale e lavoro che comprenda un protagonismo pubblico, definisca i campi su cui puntare e costringa il sindacato ad avere idee anche sui nuovi Le esperienze di questi anni indicano una continua sovrapposizione tra rinnovo del contratto nazionale ogni quattro anni, rinnovo del biennio salariale nazionale ogni due e vertenze aziendali; c’è poi una discussione aperta sulla contrattazione territoriale, sulla contrattazione regionale: tutti contrattano tutto, mentre i lavoratori stanno sempre peggio. Al gran parlare di contrattazione corrisponde una totale assenza di risultati. Sarebbe il caso di pensare ad un solo contratto nazionale dell’industria, unificato nella parte normativa e nei minimi salariali che devono essere adeguati all’inflazione reale e contenere quote della produttività di settore, della durata di tre anni e alla contrattazione aziendale a metà del periodo.

C’è un problema: la contrattazione aziendale interessa solo il 30% delle aziende italiane, nel 70% delle realtà lavorative, il più delle volte di piccole dimensioni, non esiste una rappresentanza sindacale eletta dai lavoratori.

In questi casi è possibile pensare a contrattazioni territoriali, magari su scala provinciale, i cui risultati vengono applicati laddove il sindacato non è presente. Una nuova classe dirigente industriale, capace di guardare al futuro, deve accettare diritti dei lavoratori: uno è l’estensione della contrattazione, l’altro il diritto alla conoscenza.

Per questo è necessaria una impietosa analisi della prima parte dei contratti, che attiene alle conoscenze che i lavoratori, attraverso le proprie rappresentanze sindacali, debbono ricevere rispetto ai processi di trasformazione delle imprese, in modo da poter capire per tempo i mutamenti e poter intervenire sulle scelte dell’azienda.

Tutta questa parte dei contratti sta solo sulla carta, nella prassi nulla di quanto scritto viene applicato, non si contratta niente della nuova organizzazione del lavoro. I lavoratori devono, al contrario, poter conoscere e discutere preventivamente le scelte delle imprese, anche per poterle criticare, altrimenti mancherà un importate tassello nella cosiddetta “democrazia industriale”.

Per questo la riscrittura della prima parte dei contratti deve partire proprio dal nodo del potere: per mettere in campo azioni efficaci i rappresentanti dei lavoratori devono poter intervenire laddove le decisioni vengono prese, ossia nei consigli di amministrazione delle imprese, almeno di quelle che hanno una certa dimensione. Dobbiamo conquistare il diritto di conoscere processo in cui è inserita ogni azienda, per chi lavora, a chi cede lavoro, dove progetta, dove ingegnerizza e dove produce.

L’ultima elaborazione interessante da questo punto di vista risale al luglio del 1986. Allora Cgil, Cisl e Uil siglarono con Iri un protocollo di intesa allo scopo di governare i processi di trasformazione che avevano investito le aziende a partecipazione statale. Quella proposta illuminata non è mai stata tradotta in prassi. A partire dagli anni ’80, infatti, il modello di relazioni sindacali che ha fatto scuola è stato quello imposto da Fiat basato sulla negazione di qualunque confronto reale e sulla cancellazione del punto di vista dei lavoratori. La Fiat di oggi, a un passo dal fallimento, è figlia di quell’impostazione cieca e arrogante.

Credo che oggi, di fronte ai guasti che quel modello ha prodotto, andrebbe rilanciata l’idea che le decisioni rispetto ai processi di cambiamento devono necessariamente prevedere la partecipazione diretta dei rappresentanti dei lavoratori. Le aziende a partecipazione statale affiliate a Finmeccanica possono essere i luoghi dove sperimentare una nuova concezione e una nuova prassi di rapporto tra le parti basata sull’efficienza partecipazione di lavoratori. Su questo terreno misureremo se ci troviamo di fronte ad una “nuova Confindustria” o alla “vecchia”.

Alla politica spetta il compito di governare il paese e di garantire il benessere dei cittadini. Il sindacato ha come missione la contrattazione per migliorare le condizioni dei lavoratori. Agli imprenditori interessano aziende capaci di competere. Il sistema industriale italiano rischia di implodere, provocando l’accrescersi di un malessere già diffuso che si può tradurre in un conflitto legittimo quanto impossibile da sedare e difficile da gestire. Le ricette del passato, giuste o sbagliate che fossero, non sono riproponibili.

Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di discutere e sperimentare inedite forme di contrattazione e un nuovo rapporto tra soggetti (politica, sindacato, impresa) capace di intervenire seriamente e di trovare sbocchi positivi ad una crisi altrimenti devastante, partendo dai settori cardine come quello dell’auto, dei trasporti, dell’energia, delle telecomunicazioni e tenendo conto della compatibilità ambientale dei beni e del modo con cui si producono.

Maurizio Zipponi (Segr. gen. Fiom Milano)
Milano, 27 agosto 2004
da "Liberazione"