Della serie: l’allegra imprenditoria

Il Signor Song sbarca in Brianza

C’era a Muggiò una nuova multisala. All’improvviso ha chiuso: minaccia di diventare un enorme centro commerciale cinese. Peccato che i precedenti del proprietario non siano affatto incoraggianti

Zichai Song

Zichai Song

Illustration by Elfoinfo

È alto, ben vestito, distinto, il viso segnato da profonde cicatrici, una mano è quasi inutilizzabile (un incidente stradale, racconta), eppure in pugno stringe un piccolo impero. Di lui si dice che sia figlio di un contadino analfabeta della Manciuria, ma a Napoli alloggia nell’inavvicinabile Hotel Vesuvio e gira con macchinoni costosissimi. Con lui ha sempre due guardie del corpo (cinesi, enormi armadi dall’aria cattiva) e parla un italiano quasi buono. Il suo nome è Zichai Song, ha 40 anni ed e il re dell’import-export del made in China. Zichai, da un paio di mesi, è sulla bocca di mezza Brianza. O meglio, è mezza Brianza che ne parla e neanche tanto bene. Più che di lui (che ama rimanere nell’ombra, sebbene non disdegni boutade da avanspettacolo), della sua società, la Cinamercato.

Tutto inizia quando gli abitanti di Muggiò, comune dell’hinterland milanese, scoprono dalle pagine del periodico cinese Europe China News che la proprietà del Magic Movie Park (cinema multisala aperto meno di un anno fa) è passata nelle mani della società di Song per 40 milioni di euro e che questa estate è rimasto chiuso per lavori di ristrutturazione. Da ottobre, niente più film e zero popcorn. Al loro posto calze, magliette, jeans e gingilli, tutto di produzione cinese. Il multiplex rinascerà come il Cinamercato di Milano: 22 mila metri quadrati suddivisi in 280 mini negozi raccolti nel più grande centro commerciale cinese del Nord Italia. Ci sarà posto anche per una scuola, per una palestra di kung fu, per una biblioteca e per 500 alloggi per le famiglie che lavoreranno nel Cinamercato.

Per i commercianti della zona è panico, per gli abitanti una jattura, per Lega e An (il Comune è retto dal centrosinistra) un’invasione. Il tutto dalla sera alla mattina, senza (dicono) uno straccio di autorizzazione. E tutti a domandarsi: com’è possibile che una struttura, che aveva avuto le autorizzazioni per esse re un cinema, possa trasformarsi di punto in bianco in un centro commerciale? Risposta: semplice, le autorizzazioni non ci sono. «L’inghippo», spiega il sindaco di Muggiò, Carlo Fossati, «è che i proprietari sostengono di aprire “negozi di vicinato” (per i quali non è prevista che una semplice comunicazione al Comune), mentre in realtà stanno tirando su un centro commerciale, che ha bisogno di speciali permessi». Insomma, un pasticcio, tanto che l’amministrazione municipale impone il blocco immediato dei lavori. Il Tar della Lombardia conferma l’ordinanza, respingendo il ricorso promosso da Tornado Gest e avvocati di Song. I yen «mazziati», però, sono i commercianti cinesi che hanno già versato a Song dai 15 ai 20 mila euro come anticipo sugli spazi di vendita: «Questi poveri cristi», aggiunge Fossati, «arrivano in Comune e solo allora scoprono di non poter aprire il loro negozio. E veramente penoso». Il sindaco racconta anche una beffa: «Nel quartiere Paolo Sarpi, la China Town milanese, sono stati distribuiti migliaia di depliant, che, oltre a decantare le incredibili possibilità commerciali dell’operazione Muggiò, ringraziavano il sindaco per la disponibilità e la fiducia accordata alla nuova avventura commerciale! ».

Parlare con Song è quasi un’utopia. A Franco Sala del Giornale, il solo ad aver avuto un’intervista, ha dichiarato candidamente: «Faremo un centro commerciale all’ingrosso e a! dettaglio. Duecento negozi venderanno prodotti made in Cina, mentre altri ottanta tratteranno solo merce con marchio italiano. Il nostro scopo non si lega solo alle attività commerciali, ma prevede uno scambio tra la cultura italiana e quella cinese: ci sarà anche una scuola, dove il cittadino cinese potrà imparare l’italiano e l’inglese e gli italiani la nostra lingua. Una delle sale cinematografiche sarà adibita alla proiezione di film cinesi e faremo una biblioteca di libri antichi cinesi. Un centinaio di commercianti che attualmente opera in via Paolo Sarpi si trasferirà da noi». E aggiunge: «Attraverso un apposito mega ufficio nel nuovo Cinamercato Milano, saranno organizzati incontri tra imprenditori italiani e cinesi per scambi commerciali». Detta cosi potrebbe anche non essere una cosa spiacevole. Tuttavia Song a Napoli e a Roma ha già dato prova di ciò che sarà.

Se vi capita di passare per via Gianturco 104b a Napoli (non fatevi scoraggiare dai poliziotti che vi guardano come aspiranti suicidi se chiedete come arrivarci) e avete voglia di fare un saltino in Blade Runner, fate uno stop al Cinamercato. Troverete due capannoni ristrutturati circondati da un perenne movimento: macchine che entrano ed escono a ogni ora del giorno e della notte; uomini e donne di tutte le nazionalità (ma gli italiani sono la minoranza) che vagano carichi di calze, magliette, giacche, il tutto in simil-acrilico-sintetico originale, China style. All’interno, il capannone è suddiviso in centinaia di box modulari, dai 6 metri quadrati in su, che al primo sguardo appaiono tutti uguali. Ma si sa che all’occidentale, quando si tratta di «cose cinesi», tutto appare uguale. E invece no. Se fai attenzione, trovi il microbox con l’altarino con candele elettriche dedicato a Mao Tze Dong, accanto, uno con il poster di Christian Vieri e poi quello con una fanciulla dagli occhi a mandorla mezza nuda e così via. Tutti gli stand hanno però una cosa in comune: il loro bravo televisore sospeso a mezz’aria che spara karaoke from Hong Kong. Divine orientali molto truccate che cantano e bimbi ipnotizzati incollati al video.

Quasi nessuno parla italiano e chiedere informazioni è un’impresa persa in partenza. L’impressione è che dentro l’esistenza segua un fuso orario differente da quello “di fuori”. Nel capannone l’imperativo categorico e uno solo: lavorare, lavora re, lavorare. Il neofita che si avventuri per la prima volta in questo dedalo, è spaesato. I cartelli sono scritti in cinese e alla direzione trovi solo gente che ti apostrofa in cantonese stretto, molto stretto. E allora cammini. Ti sfiorano senegalesi sommersi dai cartoni di magliette, borse e portafogli di vera-finta pelle. Dal monopattino a motore, ai jeans a zampa, dal ventilatore massaggiatore a pile, alla calza bianca corta Nike un po’ tarocca: al Cinamercato tutto si ritrova, tutto si compra, tutto si mercanteggia. Poi ti capita di aprire una porticina di ferro e di ritrovarti in uno spiazzo leggermente più grande di piazza Tien An Men, con migliaia di container accatastati. Chiusi, aperti, alcuni sono abitati. Tra un container e l’altro lunghi fili di nylon carichi di pesci messi a essiccare. Questo è il Cinamercato, fatturato annuo: 10 milioni di euro. E Zichai Song? Be’, lui è il proprietario. Non dei negozi o della merce, ma della struttura, come ha precisato il 20 ottobre 2003, l’avvocato della società, Gennaro Ferrara: «Cinamercato Napoli srl non esercita nel compendio di via Gianturco attività commerciale di sorta, né all’ingrosso né al dettaglio, essendo la stessa esclusivamente locataria degli stand di cui consta il complesso, concessi a sua volta in sublocazione ai titolari delle ditte che esercitano autonoma mente le varie attività commerciali nel settore merceologico da loro liberamente scelto». Nessuna attività di sorta...

Song e Ia palla.

Gli amanti del calcio forse ne hanno già sentito parlare. Nel 2002, 0’ Cinese (è il soprannome regalatogli dai napoletani) si presenta al Comune di Palma Campania e propone ai sindaco un patto: tu mi dai la licenza per aprire un megacentro commerciale per i miei prodotti nei pressi dello svincolo Caserta-Salerno, e io in cambio compro la vostra squadra di calcio che «sta inguaiata». Oltre alla squadra, giuro di costruire uno stadio nuovo. E ti dirò di più: prima delle partite regalo ai tifosi anche esibizioni di arti marziali. Per il piccolo centro sembra Natale: il sindaco accetta, i tifosi, invece, sono tiepidini. Ma poi cedono, e come non cedere al fascino di 0’ Cinese, che, sull’onda dell’entusiasmo, le spara sempre più grosse: «In quattro anni vi prometto la serie B e poi la A». Con 250 mila euro compra il 70 per cento della Società calcistica e poi caccia un altro milione e 250 mila euro per acquistare 17 giocatori dalle categorie superiori e un mister — Roberto Chiancone — che in serie C è un signor nome. A tenere a battesimo io squadrone chiama la morbida Barbara Chiappini. L'idillio sembra perfetto. Al meno per i primi tre mesi di campionato. Poi, il presidente Song non si fa più vedere; gli atleti, che non hanno mai visto una lira di stipendio, si arrabbiano e scioperano; del nuovo stadio nemmeno l’ombra. La Palmese finisce in liquidazione, condizione in cui rimane a lungo, perché nessuno se la sente di farsi carico dei debiti lasciati da Song. L’anno successivo, la compagine sarà tra le formazioni escluse dal campionato di C per debiti.

Le esperienze del Cinese con il pallone non si esauriscono a Palma Campania. Nel settembre 2003 la sua Cinamercato organizza una conferenza stampa per annunciare il grande ritorno di Maradona a Napoli. La data è fissata per il 10 ottobre 2003 e l’evento ha anche un nome: Maradona Night. Per l’occasione, il Comune mette a disposizione lo stadio San Paolo. Song millanta che Dieguito avrebbe legato il suo nome al marchio Cinamercato e che sarebbe in procinto di partire per una tournée in Cina dove aprirà scuole di calcio. Tripudio, Maradona torna sotto il Vesuvio, per i partenopei è il sogno divenuto realtà. E non è finita qui: il 10 ottobre, tra un palleggio e l’altro del Pibe de Oro, interverrà alla manifestazione anche l’altro idolo del Golfo, il cantante Gigi d’Alessio.

Apoteosi. Tutto procede a gonfie vele, i biglietti vanno a ruba (20 mila spariscono in un pomeriggio), l’eccitazione corre da Mergellina ai Quartieri spagnoli. Poi, doccia fredda: il 4 ottobre le agenzie battono: «il cantante Gigi d’Alessio smentisce la sua partecipazione al Maradona Day», cui segue: «L’atteso ritorno di Maradona a Napoli è saltato a causa di problemi organizzativi del gruppo Cinamercato... ». A chiudere in bellezza ci pensa Maradona che iroso dichiara di essersi «sentito per l’ennesima volta preso in giro e che a Napoli non tornerà mai più» E mentre accade tutto questo, il mancese che fa? Non è dato sapere, visto che si è reso irreperibile.

Ultimo capitolo, che poi è anche il primo: ovvero come l’imprenditore Zichai Song finisce in Italia. Corre l’anno 1995 e nel Bel Paese ci arriva con il passaporto di tale Li Jan Wu. Da subito si butta nell’editoria, tanto che quando viene arrestato, il 6 novembre 1998, risulta essere il vicedirettore del giornale in lingua cinese Il Tempo Europa Cina. La polizia di Roma lo ferma in base a un mandato di cattura internazionale emesso dall’autorità giudiziaria cinese di Harbin in data 8 ottobre 1998, capo d’accusa: bancarotta fraudolenta. Sembra infatti che il nostro quando era presidente della Harbin Dadi Industrial Group non si sia comportato bene, facendo sparire — dicono le autorità di Pechino — un bel po' di soldi. E in Cina non è proprio come da noi: la pena massima per bancarotta prevista dall’articolo 192 del codice penale cinese è di venti anni, ma, per appropriazioni particolarmente ingenti, si applica l’articolo 199, che prevede la pena di monte. Song si proclama innocente e perseguitato politico e i suoi avvocati si oppongono alla richiesta di estradizione affermando che non si può rispedire nessuno in un Paese che preveda la pena capitale. Del caso si occupa anche l’associazione Nessuno tocchi Caino.

Siamo nel pieno del caso Ocalan, e alla Casa delle libertà (che sta all’opposizione) non pare vero di poter mettere il governo sulla graticola. L’onorevole Enzo Trantino e 41 suoi colleghi presentano l’8 luglio 1999 un’interpellanza parlamentare urgente: «Signor presidente (...) siamo oltre Pirandello: la vita di pende dagli zeri che seguono un numero. E pensare che noi siamo gli stessi parlamentari ipocriti e bacchettoni, che in processione abbiamo fatto scene incredibili per salvare Abdullah Ocalan, il quale rispondeva di stragi terroristiche! Io sono tra coloro che non vogliono la morte di Ocalan; ma non posso consentire che i giustizialisti — sepolcri imbiancati che arrivano sempre a gridare più forte nel momento in cui c’è un interesse da proteggere restino in silenzio per un reato contro il patrimonio... ». Morale: Song resta in Italia e si butta nel business. Dove trovi i soldi per tutte le sue fantasiose intraprese finanziarie ancora non si è capito. Ciò che sembra chiaro, invece, è che i brianzoli qualche motivo per essere inquieti ce l’hanno.

Andrea Sparaciari
Milano, 29 ottobre 2005
da "Diario" n. 41