Unipol, Bnl, Bpi, Banca Antonveneta

Il capitalismo si libera di Fiorani, ma non della propria malattia

Probabilmente Giampiero Fiorani e i suoi amici pagheranno per tutti e pagheranno caro.

Le accuse sono esplicite e dirette: i “finanzieri” lodigiani si sono arricchiti creando una banca nella banca con la quale truffavano la clientela per creare fondi neri da impiegare nelle loro ardite speculazioni finanziarie con sogni da grande finanza seppelliti dalle indagini della magistratura. C’è qualcosa che ricorda Tangentopoli in questa vicenda e non solo perché gli arresti dell’altra sera si annunciano come la prima tappa di un’inchiesta che può fare vittime eccellenti (oltre al ministro Calderoli, che compare nell’ordinanza del Gip Forleo, nei corridoi di Montecitorio già circola il nome di plenipotenziari dalemiani, ma sono voci che non ottengono conferme). In realtà a ritornare è un’analogia: così come allora, sulla base di una corruzione accertata e conclamata, il sistema italiano si liberò di una “classe” politica vetusta e inadatta alle necessarie modernizzazioni imposte dall’unificazione europea, oggi dal capitalismo italiano viene espunto un settore di “outsiders” che ha cercato di mettere le mani sulla cassaforte utilizzando metodi criminali e che è stato sempre mal sopportato dal cosiddetto salotto buono.
Le colpe di Fiorani e soci sono indiscutibili - per lo meno lo sono se l’indagine porterà a una condanna - ma quello che è altrettanto indiscutibile è che nei suoi confronti e in quelli di altri personaggi come Ricucci o come lo stesso Consorte, è stato sferrato un attacco di inaudita violenza fino alla conseguenza dell’arresto.
Servirà questa iniziativa a eliminare la mela marcia dal cesto del capitalismo italiano, a rimuovere il bubbone e a far filare tutto liscio? Questo è senz’altro l’auspicio di Luca Cordero di Montezemolo, il presidente di Confindustria, che ieri ricordava, commentando il caso, quanto ormai siano poco etici i rapporti tra politica e affari, alludendo alla necessità di una bonifica generale. In realtà le parole di Montezemolo possono essere lette come l’ammissione che è il sistema complessivo a soffrire di una carenza strutturale di etica. E del resto come non stupirsi della rapida ascesa compiuta da Fiorani e dalla sua Popolare - si guardi solo all’immenso edificio realizzato da Renzo Piano che campeggia nel centro di Lodi? Come non meravigliarsi del ruolo occulto giocato dal governatore Fazio che rappresenta forse l’apice di questa vicenda?
Probabilmente anche per Fazio è suonata la campana dell’ultimo giro, troppe sono le sue manchevolezze e i favori dispensati agli amici. Ma, nel caso il Governatore fosse costretto ad andarsene - e sarebbe davvero troppo tardi - la situazione sarebbe risolta e il sistema ripulito? Ci permettiamo di dubitarne così come ci permettiamo di sostenere che a mancare di etica non è solo il rapporto tra una certa politica e un certo mondo degli affari ma che a finire sul banco degli imputati nel caso Fiorani è l’intero sistema capitalistico italiano. A cominciare dal sistema bancario.
Non sarebbe oggi necessaria una commissione di inchiesta a tutto campo che verificasse quale grado di malversazione venga compiuto in un sistema in cui i costi per la clientela salgono a livelli sconsiderati facendo lievitare i profitti (le prime sei banche italiane hanno realizzato nel 2004 oltre sei miliardi di euro di utili) ma in cui salgono anche le sofferenze delle banche stesse così come i crediti incagliati? Anni fa il sistema bancario fu privatizzato grazie alla legge Amato con la tesi che il sistema pubblico produceva inefficienza e corruzione. Qual è oggi il bilancio di quella privatizzazione? E’ sufficiente guardare ai casi Cirio, Parmalat e oggi Antonveneta per rispondere alla domanda.
Ma il problema è più ampio. E’ evidente come ormai il sistema bancario sia decisivo nello sviluppo del capitalismo italiano e nella sua possibilità di rimanere agganciato ai processi di globalizzazione. L’infezione allo sportello si estende a tutto il sistema e lo rende sempre più esposto. Basti pensare che una delle imprese italiane più importanti, la Telecom posseduta oggi dal gruppo Pirelli, naviga su oltre 44 miliardi di euro di debiti, pari al 67% del capitale e che un’altra azienda di spicco del sistema italiano, Benetton, soffre un debito del 71% sul proprio capitale.
Sono segnali di una fragilità eccessiva che riguardano anche altre aziende a cominciare dalla Fiat. E quale livello di etica è rintracciabile in una vicenda come quella di Olivetti, massacrata da Carlo De Benedetti con la chiusura degli stabilimenti e la perdita di occupazione ma con la contestuale valorizzazione di Omnitel che oggi ha finito per beneficiare gli inglesi di Vodafone?

In realtà il sistema italiano si regge ancora su imprese che o sono pubbliche o sono state privatizzate recentemente - spesso dal centrosinistra - e che, grazie a una condizione di monopolio o quasi, rendono utili sicuri. I due terzi dei profitti delle prime venti società italiane provengono da petrolio e gas (Eni), energia elettrica (Enel), ristorazione stradale (Autogrill), telefonia, televisione, etc. Una condizione che, invece di far riflettere sull’opportunità e l’utilità di potenziare e rilanciare l’intervento pubblico - anche, non smettiamo di ripeterlo, in ambito bancario - spinge per un’ulteriore liberalizzazione e privatizzazione del sistema economico. Senza curarsi del fatto che questa linea è stata massicciamente applicata negli ultimi venti anni con i risultati che vediamo: aziende deboli, indebitate, incagliate in un sistema complessivamente malato che grazie alla torsione operata sul lavoro dipendente hanno conseguito profitti elevati.
I dati sono espliciti: nel 1994 l’utile complessivo delle prime venti aziende (a valori attuali) era di 5,5 miliardi di euro su 214 di fatturato. Oggi il fatturato è salito lievemente (273 miliardi di euro) mentre l’utile complessivo è aumentato di tre volte e mezzo arrivando a 18 miliardi. Come è stato possibile? Semplice: nello stesso arco di tempo la quota di valore aggiunto assegnato alle retribuzioni è sceso dal 46 al 29% mentre quello incamerato dagli azionisti ha seguito il cammino inverso, dal 29% è passato al 46% del totale. Una gigantesca redistribuzione di reddito con uno spiccato segno di classe che ci dice dell’immoralità intrinseca del capitalismo. Roba che nemmeno Fiorani può eguagliare.

Salvatore Cannavò
Roma, 15 dicembre 2005
da "Liberazione"