Revenant è un termine francese che può essere usato, come il più classico
spectre, per dire fantasma. In realtà tra i due termini una differenza c'è, anche se è difficile
renderla in italiano. Revenant è piuttosto il redivivo, colui che insistentemente ritorna.
E' qualcosa di più e di più appiccicoso persino del tedesco Gespenst , il celeberrimo
fantasma del comunismo che si incontra nel poderoso incipit del "Manifesto del Partito Comunista" di
Marx ed Engels. Revenant è il fantasma che ti perseguita, che crea una vera e propria ossessione,
ed è in questo molteplice senso che il termine è usato da Jacques Derrida in uno splendido
libro di quindici anni fa, "Spettri di Marx".
Ma il fantasma di cui voglio qui parlare è tutt'altro. E' quello della stagflazione che pare
perseguitare e ossessionare molti economisti - per fortuna non tutti - in Occidente e sovrintendere
con la sua assillante quanto inapparente presenza alle decisioni della stessa Banca Centrale Europea.
Come si sa per stagflazione - termine entrato in voga negli anni '60 - si intende la presenza contemporanea
di due fenomeni negativi: la stagnazione economica, ovvero l'assenza di crescita, e l'inflazione
monetaria, cioè la caduta del potere d'acquisto a causa dell'aumento dei prezzi.
Rispetto ad epoche precedenti, nelle quali i periodi di stagnazione dell'attività
economica erano caratterizzati anche da una relativa caduta dei prezzi dovuta alla contrazione della
domanda rispetto all'offerta di merci e di lavoro, la crescita del movimento operaio e sindacale
nei mitici anni '60 del secolo scorso aveva infatti determinato la possibilità di conseguire
incrementi salariali che facevano valere i loro effetti anche nei periodi di depressione economica.
Come è noto nel nostro paese il grande imputato di questo meccanismo, ritenuto perverso soprattutto
dalle classi dominanti, fu la scala mobile di buona memoria, che infatti venne eliminata tra gli
anni '80 e i '90 a colpi di decreti legge e accordi concertativi fra governo, Confindustria e sindacati.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: ma che c'entra tutto ciò con una situazione nella
quale, sia effettivamente che percettivamente, siamo non solo a un livello piatto, ma a una diminuzione
del valore reale delle retribuzioni? In effetti lo studio recentemente reso noto dall'Ires Cgil sulla
diminuzione consistente in termini sia relativi che assoluti delle retribuzioni da lavoro dipendente,
ha persino scosso - e non poco - l'opinione pubblica. Ne sono seguite dichiarazioni significative
e impegnate da parte del Capo dello Stato, nonché del Presidente del Consiglio che ha promesso
un incremento del valore reale delle retribuzioni nell'anno che sta per venire, tramite un'opportuna
manovra fiscale sui redditi da lavoro dipendente.
Ma la risposta confindustriale non si è fatta attendere e ci arriva tramite una stima dell'andamento
di retribuzioni e di produttività nel periodo 2000-2006 effettuata dal suo Centro studi (CsC),
in base al quale la produttività del lavoro sarebbe diminuita per la prima volta dagli anni
Settanta dello 0,1% (perbacco!), mentre nello stesso periodo le retribuzioni lorde sarebbero salite
dello 0,7% (nientedimenoche…). Luca Paolazzi, il direttore del CsC, ne trae subito due conclusioni.
La prima è che ai salari «si è dato più di quello che si poteva dare».
La seconda è che bisognerebbe perciò adattare il modello contrattuale e retributivo
alle condizioni aziendali o al massimo territoriali, ovvero liquidare il contratto nazionale a favore
della contrattazione aziendale articolata. Il sospetto che la ricerca del CsC sia a soggetto, ovvero
che sia funzionale a una campagna politica predeterminata da Confindustria, si fa dunque certezza.
Il salario viene dato là dove si forma la produttività, cioè in fabbrica.
"Lavorare di più per guadagnare di più" è il nuovo slogan che attraversa
l'Europa, unendo Sarkozy a Confindustria di casa nostra, passando per il capo della Cisl, Raffaele
Bonanni.
Agli analisti di Confindustria non passa neppure per l'anticamera del cervello che la perdita di
produttività riguardi il sistema economico generale del nostro paese, dovuto a un deficit
drammatico di innovazione e di creatività, che sono alla base del declino industriale, e che
dunque bisognerebbe finalmente puntare l'attenzione in primo luogo sulla perdita di produttività del
capitale. Se così si facesse si scoprirebbe facilmente che dagli anni '80 in poi il processo
va letto in modo esattamente rovesciato rispetto al punto di vista del CsC. Ciò che si è
determinato è stato un gigantesco processo di svalorizzazione del lavoro, sia in termini retributivi
che in quelli sociali e culturali. La responsabilità di ciò non può essere ascritta
a una classe lavoratrice che invece aveva dimostrato di saper fare crescere se stessa e il sistema
paese, quanto alla estrema finanziarizzazione degli impieghi del capitale nella globalizzazione contemporanea,
nonché allo smantellamento dell'intervento pubblico diretto in economia e del sistema del
welfare state. Del resto affermare che bisogna lavorare di più per guadagnare di più,
ma in realtà come prima, è un altro modo per dire che il lavoro oggi vale di meno.
Se dunque è persino grottesco parlare di spirale in crescita degli aumenti salariali, vediamo
ora di considerare il secondo punto sul quale si basa il ritorno del fantasma della stagflazione,
ovvero la questione degli incrementi dei prezzi e quindi del presunto rilancio dell'inflazione. Qui
siamo di fronte a due elementi che si presentano di primo acchito - ma come vedremo solo apparentemente
- come contraddittori fra loro. Da un lato, mi riferisco al caso italiano, non c'è dubbio
che i prezzi siano in consistente aumento, in modo particolare negli ultimi tempi e specificatamente
in due settori di largo consumo, come i generi alimentari (pane e pasta in modo particolarmente significativo)
e la benzina. Entrambi i fenomeni sono da collegarsi a fattori internazionali, a cui naturalmente
si sommano elementi distorsivi e speculativi interni che qui tralascio, quali l'aumento del prezzo
del petrolio al barile e quello delle materie prime agricole, come conseguenza della convergenza
su queste delle speculazioni finanziarie, dopo la crisi dei mutui subprime americani della scorsa
estate.
Eppure non credo si possa parlare di impennata inflazionistica nel nostro paese, come nel complesso
dell'Europa. A livello Ue registriamo un'inflazione tendenziale di circa il 3% che, unita a un tasso
di crescita che si aggira attorno al 2% (per l'Italia come al solito sarà
meno, probabilmente attorno al 1,5% nel 2008), rende davvero fantasmagorico il paventato quadro dell'avvento
della stagflazione. Anton Brender, professore all'Università di Paris Dauphine, in Italia
per un giro di conferenze, considera di poco senso parlare di stagflazione semplicemente perché il
sismografo dell'inflazione tendenziale ha registrato un sobbalzo negli ultimi tempi, dal momento
che sono assenti i cosiddetti effetti di secondo livello che caratterizzarono la situazione negli
anni '70.
E tuttavia la distanza tra la percezione e la realtà dell'incremento dei prezzi non è
frutto di allucinazioni di massa. Il problema è che i redditi da lavoro dipendente sono talmente
bassi, da rendere ipersensibili i loro percettori alla minima variazione dei prezzi dei generi indispensabili.
Se così è, come io credo, la soluzione non sta tanto nelle misure antinflazionistiche
(fermo restando che un serio controllo sull'andamento dei prezzi va fatto almeno per eliminare i
fenomeni speculativi più odiosi), quanto all'opposto, in una politica di aumento delle retribuzioni
reali. D'altro canto in un quadro monetario internazionale di supervalutazione dell'euro, pensare
di sostenere la già debole ripresa del nostro paese solo con le esportazioni, che pure sono
aumentate, è pura illusione. O si rilancia la domanda interna da subito, oppure si ritorna
ai periodi più bui del precedente quinquennio.
Questo comporta che a livello europeo prevalga un'altra linea rispetto a quella che fin qui ha dominato
nella Bce. C'è
già chi parla di fare risalire i tassi, dopo la momentanea stasi. Bisogna invece fare il contrario,
abbassarli da subito, almeno di un quarto di punto, portandoli cioè al 3,75%.
Sul piano interno la questione salariale chiama in causa due responsabilità, quella del governo
e quella delle parti sociali. Sul primo fronte le cose si mettono un poco meglio di prima. Le dichiarazioni
di Prodi e di Visco vanno prese sul serio e le titubanze di Padoa Schioppa decisamente superate.
La manovra finanziaria per l'anno che viene deve essere contrassegnata da una politica fiscale, fatta
di detrazioni e di abbassamento delle aliquote legali sul lavoro dipendente. Su questo insisterà anche
la verifica del programma di governo chiesto dalla sinistra. Non ci si può certo fermare a
una detassazione degli incrementi salariali nazionali, che risulterebbe comunque solo parziale.
L'altro aspetto riguarda il nodo dei contratti aperti, a cominciare da quello dei metalmeccanici,
e dalle conseguenti relazioni contrattuali. Come ci ha recentemente ricordato Luigi Cavallaro su
queste pagine, nel nostro paese l'implementazione del principio costituzionale (art. 36) del diritto
a una retribuzione equa, bastevole e dignitosa, è stata storicamente assegnata al ruolo del
contratto nazionale di lavoro. La liquidazione di quest'ultimo trascinerebbe con sé la citata
norma costituzionale.
Infine dai contratti ci aspettiamo una robusta ripresa delle retribuzioni, le quali sono arretrate
anche per responsabilità della moderazione salariale applicata per anni dalle organizzazioni
sindacali. E' quindi un po' curioso registrare che appena esponenti autorevoli di governo cominciano
a parlare - finalmente! - della necessità di aumentare le retribuzioni reali, le confederazioni
sindacali sembrano inalberarsi, quasi a difesa di una loro competenza esclusiva in materia. La realtà è che
i salari sono tanto bassi che in questa materia c'è spazio e gloria per tutti.