La Milano produttiva guarda al 2015, al volano Expo e alla santificazione definitiva della vocazione terziaria, logistica e cementificata del territorio, ma quante attività produttive sopravviveranno accanto ad autostrade, treni veloci, capannoni, centri commerciali?

Milano, comanda l'American style: l'azienda va bene, gli operai a casa

Cinquemila posti di lavoro a grave rischio secondo la Camera del lavoro.

Stabilimento Nokia Siemens di Cassina de Pecchi

Lo stabilimento Nokia Siemens di Cassina de Pecchi (Milano) dove incombe il rischio di 17mila licenziamenti.

Photo by Liberazioneinfo

La Milano produttiva guarda al 2015, al volano Expo e alla santificazione definitiva della vocazione terziaria, logistica e cementificata del territorio, ma quante attività produttive sopravviveranno accanto ad autostrade, treni veloci, capannoni, centri commerciali?

A vedere i primi dieci giorni di settembre, si direbbe poche. Molto poche. Sarà un caso ma rientrati dalle ferie molti lavoratori hanno trovato lettere di licenziamento, comunicazioni di cessata attività, amministrazioni controllate, mobilità... Succede tanto nel metalmeccanico ma anche nel terziario, nella grande distribuzione, nell'edilizia. Dove non dovrebbe. Cinquemila posti di lavoro a grave rischio secondo la Camera del lavoro. Botte da 900 e 400 lavoratori come per gli informatori farmaceutici della Marvecs e X-Pharma, altri 400 cassintegrati alla telefonica Eutelia, 300 tra assunti e contrattisti all'Italcantieri nel nuovo polo di Lachiarella, 100 mancati rinnovi di tempi determinati all'Auchan di Cinisello Balsamo e poi un mare di piccole e medie aziende che chiudono proprio.

Una moria a macchia di leopardo, senza un comune virus riscontrabile. Il perché spesso sta nelle decisioni di manager sganciati dalla produzione, legati solo a bonus di redditività finanziaria, a scelte fatte in America o altrove. La "roba" che fa arrabbiare più i lavoratori è questa: scelte sbagliate per calcoli non industriali, ma manageriali, opportunisti, il fuggi fuggi delle responsabilità imprenditoriali, la rottura di qualsiasi rapporto di reciproca fiducia. Business non produzione. Tu lavora che noi una mattina ti fottiamo.

Otis, l'America in Padania

Se si costruiscono poche case si vendono anche pochi ascensori, lo sanno i tanti artigiani del settore ma anche le multinazionali. L'americana Utc è una delle più grandi. Due stabilimenti a Milano e a Bologna (col marchio Ceam). In Europa è ovunque e da qualche anno in America hanno deciso di parcellizzare la produzione, ciascuno fa un pezzo: a Berlino i quadri elettrici a Milano le cabine e così via.

Da due anni la fabbrica che produceva pure le viti a Cernusco sul Naviglio ha chiuso. Venduta anche l'area. La produzione e 67 lavoratori trasferiti a Caponago in un capannone più piccolo, ma in affitto; gli uffici per 200 impiegati a Cassina de Pecchi. Un'operazione con dei costi che ora vengono imputati ai lavoratori: costate di più dei vostri colleghi spagnoli. E poi alla periferia di Madrid Otis ha investito 40 milioni di euro per una nuova sede e fabbrica, ancora vuota. Un segnale chiaro: pronti a trasferire.

Anche se a Milano ci sono commesse e lavoro. L'aria non era delle migliori, ma fino a maggio gli straordinari c'erano, anche i sabati lavorativi. «Pensa che a luglio erano contenti che rinunciassi alle ferie e io ero anche contento di farle dopo, che pirla», sorride Antonio fuori dal capannone. Tornati dalle vacanze, invece del previsto tavolo per il premio di risultato, arriva la bomba ad orologeria: si chiude. Stop. Finita la comunicazione. Ma come? E quasi 150 anni di tradizione, un clima sempre di confronto, relazioni sindacali buone... Altri tempi e poi la decisione l'hanno presa oltreoceano. Sicuro. I manager italiani nicchiano. Ma obbediscono.

Di facce, incazzate, deluse, tradite, in fabbrica ce ne sono tante. In pausa mensa si parla di questo. Che fare? «Cerchiamo di fermare l'orologio - dice Francesco Messano, delegato Fiom - dobbiamo fargli ritirare la mobilità e aprire un tavolo per non trasformare in tragedia questa vicenda. E' macelleria sociale». E come fate? «Assemblee, sciopero, campagna stampa, iniziative al comitato aziendale europeo...». Gli striscioni sulle strade ci sono già. Questione di cultura. Loro devono restare uniti. Far capire agli impiegati che poi toccherà a loro. La cessata attività prevede la mobilità secca: 75 giorni per caderci, 120 per ricollocarsi.

A febbraio saranno tutti fuori se non si ferma l'orologio. Chi è che ha un mutuo? Ridono tutti. «Fai prima a chiedere chi non ce l'ha», risponde Franco, maglia gialla e tanta delusione. E si torna al punto. Perché non sono solo i 1200 euro al mese in media, sicuri. Il punto non è solo la rata del pezzo di vita da pagare, è la dignità. Lo dicono tutti, soprattutto quelli con venti, trenta anni di lavoro sulle spalle. Hanno visto ridursi la fabbrica da 800 persone a 67, ma nessuno è uscito a calci in culo. Tutti accompagnati. Mobilità volontaria. Ammortizzatori. Il dovuto. Ma chi lo fa rispettare ora?

Meglio soli che...?

Loro. Ci sono solo loro e il sindacato. Iter e casistica ormai sono noti. E' stato così, per ultima, alla Jakob Muller (multinazionale svizzera di macchine tessili) che a luglio ha messo in mobilità 62 dipendenti su 104, tutta la produzione, ça va sans dire ... La procedura è ancora aperta, ma la mobilità è diventata volontaria, lo stabilimento sarà mantenuto. Un accompagnamento verso la chiusura. Alla Otis lo sanno, si rischia di lottare per un materasso che eviti la caduta sull'asfalto. «Ma uno con la tua esperienza - dice un giovane lavoratore a Stefano - un artigiano se lo prende e alla pensione ci arriva». Lui s'incazza. «A 51 o 53 anni chi vuoi che ti mandi su un tetto a installare o chi ti riassume con i tuoi diritti. Ma va, va...».

E poi c'è la questione del perché succede, proprio a loro, adesso. «Capisci che gente come noi, con la professionalità maturata qua dentro, buttarla via è come distruggere cento anni di storia» spiega Ivan, codino imbiancato e dialetto pronto. Vecchia storia. Che sembra non valere più. Quasi ovunque. E' il paradosso dell'"economia della conoscenza": la produzione non conta più, contano i processi che generano denaro per denaro. Anche qui. Nel capannone con le taglierine, i calibri, i motori che vengono dalla Cina, le presse e pochi operai. «Guarda che qua produciamo gli stessi pezzi di prima, in meno persone», insiste Ivan.
In realtà sarà dura per tutti, vecchi e giovani. Chi ha 61 anni e arrivato vicino al traguardo e scopre il baratro e chi come Luca, 38 anni e due figli, pranza in silenzio con due colleghi. Impiegati. Luca non si fa illusioni, sa che uscito di qua sarà dura, dura, dura. «Dopo 20 anni di lavoro non ho paura di cambiare, anzi, ma fatti un giro nelle prime 20 aziende che trovi qua attorno e prova a chiedere come si entra...». Meno salario, a tempo, sotto ricatto. Si può fare e si fa. Vita agra di un impiegato fregato dalla multinazionale. Sì ma anche abbandonato dalla politica, dallo Stato. Lo ha dimostrato inoppugnabilmente, Rita Querzé, sul Corsera di venerdì dove finisce la retorica dell'occupazione che cresce grazie alla flessibilità: in tre anni gli sportelli "Marco Biagi" varati dal Comune di Milano (sindaco Albertini) con la benedizione e i soldi dell'allora ministro Maroni e della Regione (sette milioni di euro stanziati, 4 spesi) hanno trovato lavoro a 32 persone. Avete letto bene, 32 persone ricollocate stabilmente su 3200 casi trattati. Sette agenzie (private ma con fondi pubblici, ovviamente), dovevano ricollocare a tempo indeterminato 500 disoccupati "difficili" e coinvolgerne in progetti di riqualificazione altri 4.500. Nulla. Hanno chiuso pure loro. Con qualche altro centinaio di persone senza lavoro, i co.co.pro. degli sportelli Biagi. E' questo il modello degli "oni" (Sacconi, Maroni, Berlusconi, ma metteteci anche Veltroni). E tirate voi la conclusione.

Ristrutturazione sindacale

In Camera del Lavoro, secondo piano, il clima è il solito. Le schede azienda in crisi sono belle e pronte. Crescono. «Proviamo a governare, ma la situazione è complicata - racconta Maria Sciancati, segretaria milanese della Fiom - Anche quest'anno abbiamo chiuso luglio con qualche crisi in più, ma dalla prima settimana di settembre più che di cassintegrazione abbiamo segnali in diverse aziende di un passaggio dalla difficoltà alla drammatizzazione».

La solita tragedia metalmeccanica? «Oddio, ci sono anche aspetti positivi, una campagna di rinnovi che va bene, accordi integrativi che hanno portato ad esempio ai lavoratori della Om carrelli almeno il 60% del premio di risultato, la stabilizzazione del lavoratori a tempo indeterminato e anche il giorno di ferie in più per gli operai... Un buon accordo non solo salariale che migliora il contratto nazionale di lavoro». E il resto? «Pensavamo di averla superata la fase di ristrutturazione partita dal 2005 - dice Sciancati - ma continuano le fasi di tensione con vere e proprie precipitazioni, alcune a ciel sereno».

Le multinazionali chiudono dalla sera alla mattina. E le piccole aziende cadono senza preavviso. E' così da anni. I settori più esposti? Meccano-tessile, elettrodomestici, l'indotto auto e l'informatica-telecomunicazioni che fa il grosso dei lavoratori, circa il 70%, quasi tutti impiegati. E qui i problemi futuri si chiamano Siemens (17mila esuberi annunciati in Europa) e galassia Telecom. Il grosso del mare imprenditoriale, però, è di piccoli pesci. Difficili da monitorare e prevenire. Qui sta la crisi a macchia di leopardo di settembre e la difficoltà di rispondergli. «Il sindacato metalmeccanico è cambiato, si sta adattando alla maggioranza impiegatizia, alla dimensione della piccola azienda stra-dominante - spiega Sciancati - ad esempio, da qualche settimana siamo riusciti a portare a compimento il coordinamento Fiom dei delegati informatica, un investimento che viene da anni di vertenze e conoscenza, e che servirà anche dove non ci siamo». Pronto intervento crisi. Perché la rappresentanza dei soli delegati ormai non basta.

La sindacalizzazione è quasi impossibile in gran parte delle piccole aziende. E poi a che prezzo? Anche il sindacato vive la sua crisi e deve razionalizzare sforzi e personale. Per fortuna non c'è solo la Fiom. Milano ha tradizione sindacale di base abbastanza radicata - ma sempre meno nel metalmeccanico - e poi c'è la Fim che prova a resistere a un'altra chiusura che sempre specchiata nella vicenda Otis. Altra superstrada, altri capannoni. Un'area di insediamento antica. Tra Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo. Uno stabilimento pulito, ordinato. I pezzi in uscita in magazzino, la manutenzione dei muletti al lavoro, ma lavoratori con lo sguardo stufo. Aria pesante. «Pensa che fino a maggio abbiamo fatto gli straordinari», spiega il delegato Danilo. «E ci viene il dubbio di aver fatto la scortona per il magazzino olandese, più che per il nostro...», aggiunge Luca.

Rapido e fluido, come un virus

Dal primo settembre la Fast&Fluid ha "avviato al licenziamento" 54 lavoratori su 70 (tutta la produzione, si salvano solo i post-vendita e qualche commerciale). La motivazione aziendale, smontata pezzo per pezzo dalla Fim, è una crisi di mercato irreversibile, quella più probabile è il trasferimento della produzione in Olanda.

«Capisci, la cosa che ci fa più incazzare è che nonostante siamo stati flessibili, abbiamo raggiunto obiettivi e andiamo meglio del resto del gruppo, sacrifichino noi. Così non si può». E' Fabrizio Milani, lo storico Rsu a parlare. Due anni fa il sindacato quasi non c'era in azienda, adesso sono al quasi 100%. Lottano tutti, pure i lavoratori dell'indotto, pulitori compresi. Loro ci mettono l'unione, 20 ore di sciopero, un blocco stradale già fatto e tanta pazienza. Sono anche pronti a cedere salario e diritti pur di rimanere aperti. «Oppure cedano lo stabilimento, i compratori ci sono - dice Fabrizio - ci dicessero che vanno in Romania o in Cina, non dico che va bene, ma ci sentiremmo spacciati, ma questi trasferiscono in Olanda, col 7% di differenziale di costo del lavoro... Se c'è, glielo garantiamo noi il differenziale».

Operai che ragionano come non fanno i manager, da imprenditori. Fa una certa specie sentirli parlare di "logica americana" a cui non cedere. E' quella dei board e dei loro consulenti che fanno il bello e il brutto per raggiungere redditività di carta di fronte alle borse senza capire un cazzo di produzione.
La Fast italiana era una bella realtà. Brevetti, buona intuizione di mercato e posizionamento europeo. Aveva una concorrente olandese la Fluid. Finché la multinazionale Usa Idex (quotata a Wall Street) le acquista entrambe e dopo anni di buoni fatturati le accorpa in Fast&Fluid. Solo che più che un'unione diventerà un sacrificio e gli italiani se ne escono nel 2003. E qui comincia il declino. Non di bilancio, perché Cinisello vende bene e raggiunge tutti i risultati. Ma non basta.

I prodotti di punta vengono spostati in Olanda, gli ordini vengono spostati in Olanda e in Italia mandano a casa 30 lavoratori, mobilità volontaria. E gli altri, l'anno dopo, fanno lo stesso fatturato e gli stessi pezzi. Però l'azienda dice che i prodotti non sono più richiesti, che il mercato non c'è. Si chiude. «Ma se per le linee che vogliono chiudere ci continuano a chiedere prodotti», sbotta Fabrizio.

La paura è che rallentino pure gli ordini pur di dimostrare che la crisi c'è: «La decisione aziendale non è accettabile né credibile - denuncia Giuseppe Mansolillo della Fim-Cisl - la verità è che hanno deciso di spostare la produzione in Olanda». Una scelta patriottica. Forse. Ma anche gli olandesi presto o tardi verranno strozzati dalla Idex. Anche questo dicono i bilanci: stock options molto remunerative per i manager e un salasso per brevetti, uso marchio e immobilizzazioni finanziarie a favore della casa madre Usa. Aziende da mungere. E famiglie a casa. Anche qui si va da marito e moglie insieme in fabbrica, a pochi anni dalla pensione, a Paolo che si deve sposare tra un mese e proprio non ci voleva questa ipoteca sul matrimonio. Però si lotta. Con l'aiuto del Comune che comincia a muoversi - sindaco Zaninello (Prc) - e nemmeno una parola di solidarietà dai leghisti. Qui li votano in tanti, lo dicono. Ma al dunque, sul lavoro, non li vedi mai. Solo banchetti contro gli immigrati.

La speranza per i lavoratori è che si muovano le altre istituzioni provincia e regione. Anche qui, rimettere le lancette indietro. Obbligarli alla ragione, del capitale.

Claudio Jampaglia
Milano, 14 settembre 2008
da “Liberazione”