Precarizzazione o Politica industriale?

Ammortizzatori sociali, precariato e pianificazione dell’economia

Note sul discorso di Pierluigi Bersani alla manifestazione del 5 novembre a Roma

Anna Migliaccio

Anna Migliaccio al Congresso Nazionale del PCDI - Rimini 28/11/2011

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Nel discorso pronunciato sabato scorso da Pierluigi Bersani alla manifestazione organizzata a Roma dal Partito democratico con il titolo Ricostruire l’Italia, emerge una linea schiettamente socialdemocratica, a dispetto del fatto che il Partito di cui è segretario abbia fino ad ora preso le distanze da tale definizione. Tra i passaggi salienti c’è la necessità di introdurre forti ammortizzatori sociali a favore dei precari e dei disoccupati, così da raggiungere un livello di reddito decente, nonché della necessità forse di riprendere una politica industriale in questo Paese.

L’ipotesi delineata non è certo impossibile da realizzarsi, ed invero nei passaggi del discorso possiamo anche immaginare come: dire che un’ora di lavoro precario deve costare di più, in termini assoluti, di un’ora di lavoro stabile, altro non può significare che l’idea di costituire un fondo speciale per gli ammortizzatori sociali con un prelievo fiscale dedicato, una sorta di banco di mutuo soccorso, cui concorrerebbero le imprese che assumono precari, ma non possiamo escludere un prelievo dedicato dalle buste paga, quelle precarie medesime ed ancor più quelle stabili. Un siffatto fondo, autoalimentandosi, non porterebbe neppure particolare nocumento alla spesa pubblica, ed è certamente un’idea realizzabile. Invero, altri esponenti del Partito Democratico collocati un po’ più a destra rispetto al Segretario, hanno delineato anche meglio i tratti di questa politica in diverse occasioni.

Nel quadro di ipotetiche alleanze, la Federazione della sinistra, il PDCI e le proprie componenti sindacali non potrebbero, di per sé, che salutare con favore l’introduzione di ammortizzatori sociali a favore dei precari. Parimenti sarebbe un pazzo chi dicesse che questa linea è equivalente alla politica economica del Governo attualmente in carica. Tuttavia deve preoccupare il “forse” delle politiche industriali, messo al posto di un “primariamente” ed “innanzitutto”. Questo perché, come tenterò qui di mostrare, gli effetti sull’economia degli ammortizzatori sociali possono essere divergenti a seconda che un sussidio di disoccupazione a favore di disoccupati e precari si coniughi oppure no con una forte politica industriale.

Il Governo in carica subisce ormai un crescente calo di consenso, soprattutto in larghe fasce della borghesia imprenditoriale, della parte datoriale, che si manifestano in evidenti prese di posizione della stessa Confindustria e dei suoi organi di stampa. La Confindustria chiede RIFORME, e in questo concetto ci mette, da tempo, due o tre cose: flessibilizzazione (precarizzazione diffusa) del lavoro, abbattimento delle imposte collegato a taglio di spesa pubblica, messa sul mercato in regime di monopolio dei pochi ambiti di mercato rimasti nelle mani del settore pubblico, cioè energia e servizi erogati dalle aziende speciali degli enti locali.

In questa logica, l’applicazione di ammortizzatori al lavoro precario, vista dalla parte delle Imprese, può essere l’equivalente di un baratto, di una specie di ecopass: basta pagare dazio, e si può precarizzare e licenziare in libertà.

Dal punto di vista sociale, e delle relazioni industriali, gli ammortizzatori diventano un utile strumento di raffreddamento del potenziale di conflitto, come lo furono gli accordi di prepensionamento nel processo di dismissione e delocalizzazione dei grandi impianti industriali.

La presa in carico da parte dello Stato di precari e disoccupati, in assenza di una politica industriale che consideri comunque e sempre il lavoro precario un fatto eccezionale, straordinario, emergenziale, nell’obiettivo manifesto di un suo superamento a breve termine, rischia di costituire un incentivo alla precarizzazione generalizzata del lavoro che è l’obiettivo, miope, di Confindustria ben accolto dall’ala “destra” del PD, che in fondo non tace sulla effettività dello scambio, così come stiamo facendo qui, in questo modesto contributo di lettura.

Ancora, potremmo esaminare una serie di effetti possibili, anche se non matematicamente determinati, di tale politica di welfare, la quale, a partire da una negazione ideologica del conflitto capitale/lavoro, vede il conflitto esclusivamente come un epifenomeno, un sintomo, da curare con un rimedio sintomatico quale è l’iniezione assistenziale di reddito “decente”.

Del resto, anche su quest’ultimo concetto, quello di decenza, vale la pena soffermarsi, perché “le parole sono importanti” e necessita evidenziarne la natura ideologica a - classista. Un conto è parlare di un necessario rapporto di proporzionalità tra il reddito e il costo della vita, collegando le due variabili mediante una modulazione oggettiva e misurabile dei prezzi e degli incrementi salariali, un altro è applicare una nozione culturale, storicamente determinata come quella di decenza, che varia al ribasso seguendo il peggiorare delle condizioni economiche complessive, così come la pudicizia dei senza tetto sulle rive del Gange è assai più “flessibile” dalla privacy occidentale nell’uso delle latrine.

L’effetto nefasto di una precarizzazione diffusa del lavoro sarebbe un ulteriore abbassamento della competitività delle Imprese italiane, un ulteriore incentivo alla mancanza di investimenti che migliorino i prodotti in termini qualitativi, una perdita generalizzata di alte professionalità, il tutto aggravato dal contesto già debole del nano capitalismo italiano, non farebbe che peggiorare la mancanza di crescita del Paese. In assenza di controllo e stimoli allo sviluppo, il rimedio sintomatico rischia di spostare più in là nel tempo ed aggravare il carattere patologico della crisi.

Servirebbe piuttosto una riforma del diritto societario, che rendesse meno conveniente alle Imprese rimanere ancorate alla dimensione piccola e familistica, servirebbe il ritorno a forti interventi dello Stato nell’economia in grado di programmare settori strategici su vasta scala, che desse piuttosto la spinta alla creazione di imprese grandi e competitive, che possono assumere più facilmente lavoratori a tempo pieno e indeterminato, ed accollarsi i costi della formazione professionale.

Del resto, sempre nel quadro delle ipotetiche alleanze , quanto andiamo affermando non è poi incompatibile con un modello socialdemocratico. Su quest’ultimo tema, le alleanze, urge riflettere sul tabù della parola “comunisti” che ha caratterizzato il discorso di Bersani, quando afferma di guardare “con amicizia alle forze radicali ed ecologiste”. Saremmo noi, per caso? Non ci è chiaro.

Anna Migliaccio (Dirigente PdCI - Brianza, FdS - Seregno)
Seregno, 7 novembre 2011