Lo Stato ha già comperato la Fiat almeno tre volte nel dopoguerra.

Alfa di Arese, per un ritorno al futuro

Gli Agnelli adesso lascino almeno la cassa

Si narra che un tempo Henry Ford, al passaggio di una automobile Alfa Romeo, si cavasse il cappello dinanzi a cotanta leggiadria. Oggi il cappello se lo potrebbero invece togliere i milanesi, dinanzi al passaggio dell'annunciato funerale dello stabilimento dell'Alfa di Arese diventata Fiat.

Ribelliamoci all'evento: se la Fiat ha fallito e se ne va dall'auto, ebbene l'auto resti in Italia e resti a Milano il prestigioso marchio del Biscione.

Non ci si rassegni. La Fiat è un patrimonio collettivo, non è più proprietà privata. E rassegnati proprio non sono i lavoratori oggi in lotta, da Arese a Termini Imerese, che respingono gli "esuberi strutturali" e, ad Arese, si rifiutano di pensarsi riciclati in magazzinieri di un polo logistico o in operatori al trattamento rifiuti. Non sono rassegnati e, anzi, stanno suonando a martello la campana che dà la sveglia a Partiti, Istituzioni e Sindacati. Vanno ascoltati. Se oggi l'Alfa esiste ancora, lo si deve solo alla caparbia combattività e all'altissima dignità di questi lavoratori. Con loro definiamo pertanto un punto fermo: con Agnelli o senza Agnelli l'auto resti in Italia, anche se cade la cattedrale del capitale, e ci resti l'auto anche a Milano.

Due condizioni

Il punto è fermo solo a due condizioni. La prima è che gli operai non escano dagli stabilimenti. Il Sindacato perciò alzi la voce: nessun "esubero strutturale" ma contratti di solidarietà e formazione, riduzione di orario, rotazione della cassa integrazione. Soltanto con gli operai "dentro" si può ragionare di piani e programmi. Pertanto, non si esca né da Termini, né da Arese, né da Mirafiori. Con tutti i mezzi. Questo non è il tempo dei convegni. Ma c'è una seconda condizione, funzionale alla prima: la Fiat non deve incassare nemmeno un euro da una eventuale cessione che servirebbe solo a tamponare il debito (6.500 miliardi di lire!) della "famiglia"; si utilizzino quei soldi per finanziare un piano industriale del trasporto pubblico e privato. E sia un piano con un'altra proprietà rispetto alla Fiat che ha fallito: una proprietà pubblica, come del resto Renault e Volkswagen; una forte partecipazione dello stato. Il Governo decreti con urgenza. La Fiat insomma va "nazionalizzata" nelle forme oggi possibili. Questo è il punto. A mali estremi, estremi rimedi. Chi arriccia il naso, come qualche garrulo ministro o i tremebondi riformisti, ricordi che lo stato ha già comperato la Fiat almeno tre volte nel dopoguerra, agevolando in tutti i modi - rottamazione ed ecoincentivi sono gli ultimi - la sua attuale collocazione monopolista. Risultato: Fiat vende tutto e se ne va, alla faccia dello Stato. Lasci almeno la cassa.

In questo contesto si colloca la vicenda dell'Alfa di Arese. Storia troppo nota, quella di uno stabilimento un tempo di 15.000 lavoratori che, nell'86, Craxi regalò agli Agnelli con la compiacenza, va detto, del Pci il cui segretario torinese era, allora, Piero Fassino. Oggi, ad Arese, ci sono solo 2.500 lavoratori, ma la proprietà, sulla loro pelle, ha via via incassato i quattrini dell'auto elettrica, poi i soldi per il Consorzio di reindustrializzazione (fallito), oggi incassa i 1.000 miliardi di vecchie lire per la vendita delle aree (avute in regalo) a una immobiliare che costruirà, con un polo logistico, il magazzino per la vicina fiera di Rho/Pero. Fiat se ne va dall'auto ma, prima, ha spremuto ben bene l'affare Alfa e, oggi, spedisce le Vamia a Mirafiori (così le "carrozzerie" saltano), mette i motori a fine produzione (così chiudono le "meccaniche"). Fiat saluta. Ripetiamo: lasci almeno la cassa. Taluno - Bandiera, presidente della Business Unit Alfa Romeo - parla di investimenti e nuovi modelli per il "Biscione". Riguardino anche Arese, realtà calpestata che va assolutamente risarcita.

Un nordest dilagante

Ma ragioniamo pure di Alfa e di Milano. Milano è al Centro del Nord, sulla linea d'ombra che separa la grande industria del Nord Ovest in ritirata, dalla monoimpresa molecolare del Nord Est che avanza. L'Alfa (era) è il presidio industriale sul confine. Cede l'Alfa, il Nord diventa un grande Nord Est dilagante, ove si compete solo sul prezzo per lontane committenze. Un grande Nord Est senza articolo 18, oltretutto.

E cede Milano, capitale oggi di un'Italia scivolata in serie C, città da cui sono fuggiti i Falck e i Pirelli diventati immobiliaristi, città di venditori di prodotti pensati altrove, dove tutte le Finanziarie del globo vengono a fare l'ultimo shopping e alle quali il Sindaco offre oggi in saldo anche la Sea e quel che resta di Aem. Milano in vendita, "Milano da bere": di nuovo. Eh no! Ribelliamoci. Fermiamoli ad Arese, proviamoci almeno. Sindacati, partiti, istituzioni, Cardinale: ascoltiamola quella campana.

Il marchio Alfa ha tuttora una grande potenzialità e può essere rilanciato per coprire le fasce alte del mercato e per investire in progettazione e studio - Oscar Marchisio ce lo rammenta da anni e anni ormai - su sistemi di mobilità urbana ed extraurbana, quale prodotto industriale, che preveda l'auto e una nuova auto anche "oltre il motore a scoppio". Il rilancio dell'area di Arese, oltretutto, sarebbe assolutamente funzionale al rilancio di Milano quale città della scienza, del design, della cultura alta che le sue sei Università chiedono, a partire dal Politecnico. E lo chiedono i lavoratori. Ma ci vuole una forte volontà politica; indispensabile che gli operai non mollino le fabbriche; necessario studiare partnership in Europa (ma non l'Opel); fondamentale il controllo pubblico e se proprio Fiat insiste nel vendere a GM, il Governo per decreto ne blocchi l'incasso (non sono, quelli, soldi degli Agnelli da distribuire in dividendi, è chiaro?) e lo sposti su un innovativo piano di rilancio. Fuori gli Agnelli, si riaprano i cancelli e resti una "Fabbrica Italiana Automobili" a Torino, Arese, Termini, Termoli, Cassino, Pomigliano, Melfi, altrove e sia a controllo pubblico.

E resti soprattutto il marchio Alfa, magari per una splendida vettura ad idrogeno, dinanzi alla quale il vecchio Ford tornerebbe a levarsi tanto di cappello.

Bruno Casati
responsabile Dipartimento Politiche Industriali Prc
Milano, 15 ottobre 2002
da "Liberazione"