La Fiat e l'identificazione con gli interessi nazionali

Il fallimento del capitalismo assistito

Diceva Carlo Marx: «Tutto ciò che è solido è destinato a dissolversi». Intendeva riferirsi, il grande filosofo di Treviri, alla tendenza di fondo del modo di produzione capitalistico, che tende per sua natura a cancellare ogni ordine" precedente e a sottometterlo al rapporto di merce. Anarchico e rivoluzionario per sua natura profonda, insomma, il capitalismo crea la modernità e al tempo stesso la distrugge. Produce le condizioni all'interno delle quali la liberazione umana (la possibilità delle donne e degli uomini di progettare insieme il loro destino) diventa una chance effettiva della storia; ma, insieme, aggredisce, destruttura, massacra tutto ciò che si oppone, o si frappone, alla sua cieca espansione quantitativa. E, man mano che assoggetta il mondo, questa logica si manifesta sempre di più come irrazionale e contraddittoria - fino a quel perciolo che incombe sulla civiltà, che - ancora Marx - chiamava «comune rovina delle classi in lotta».

Questi concetti, all'apparenza così astratti e lontani dalla vita quotidiana, sembrano esemplificati dall'esplosione della drammatica crisi della Fiat - quasi fossero stati abbozzati in queste settimane, invece che centocinquant'anni fa. Dentro questa vicenda (attentamente analizzata, in questi giorni, dal nostro giornale), possiamo leggere, in trasparenza, la fine di un'epoca: il maturare di una crisi più generale del capitalismo italiano, fondato sul modello trainante dell'industria automobilistica, su un relativo primato della grande impresa, ma anche sul costante e provvidenziale intervento di "assistenza" dello Stato. Per decenni e decenni, la casa di Torino ha vissuto su questa peculiare commistione, fino al punto da diventare una azienda-simbolo - fino al punto da affermare, quasi con la forza di un luogo comune, che «il bene della Fiat era il bene dell'Italia». Non è stato in nome di questo "ideale progressista" che una parte ampia della stessa sinistra ha sacrificato sull'altare degli interessi degli Agnelli il punto di vista operaio e ogni punto di vista alternativo? Non è forse nella sconfitta dei 35 giorni - esattamente ventidue anni fa - che si è consumata una sconfitta più generale della sinistra e dello schieramento di classe, l'inizio corposo di un arretramento non ancora superato, in termini di rapporti di forza e di egemonia culturale?

Ora, però, anche la Fiat - il suo potere, la sua prepotenza, la sua arroganza - si vanno tendenzialmente «dissolvendo». E' un'immagine che si staglia a fatica, nella testa di molti di noi, pur di generazioni e culture politiche diverse. Ma che si lega, appunto, ad una «dissolvenza» più vasta, che coinvolge tutta la grande impresa nazionale - dalla chimica all'informatica - e ci rinvia ad un futuro più debole, precario, disperso. I processi di globalizzazione avanzano con assoluta spietatezza, sterminano gli agglomerati produttivi meno forti, divorano risorse umane, attaccano alla radice la forzalavoro, il lavoro stesso - che sempre più diventa un privilegio, anche nei paesi ad alto sviluppo, per una élite garantita. Dentro questo quadro, il fallimento di Corso Marconi è anche il fallimento di quella specifica ricetta italiana - potremmo chiamarla liberismo assistito - grazie alla quale hanno prosperato le nostre classi imprenditoriali. La Fiat è stata, ancora una volta, il simbolo massimo di questa attitudine: un intero modello di sviluppo - ambientalmente cattivo, anzi insostenibile - è stato costruito sulla centralità dell'automobile privata, con il concorso determinante dello Stato. Il territorio nazionale è stato riempito di autostrade, tunnel, cemento, così come le città e le metropoli. Le casse pubbliche hanno finanziato incessantamente - fino alla rottamazione del centrosinistra - la casa di Torino, e la inesorabile espulsione dei suoi lavoratori. E adesso? Ogni margine di recupero sembra davvero consumato, dentro la logica Fiat, dentro la logica del capitale. Per salvare il lavoro, per non far morire quel che resta della Fiat, per non svuotare il Paese di un'intera risorsa produttiva, la logica va esattamente rovesciata - e trasformata nel suo contrario, in logica dell'interesse pubblico.

E' proprio questa l'ulteriore lezione che possiamo trarre da questa vicenda: la politica è l'unico antidoto alla distruttività dei processi di globalizzazione capitalistica e della cecità del così detto «sviluppo economico». Nasce qui, crediamo, la rilevanza assoluta, per la fase attuale, della crisi della Fiat: più che mai, oggi, si ripropone il tema dell'efficacia della politica, in un momento nel quale la politica "ufficiale" sembra inviluppata in una iirreversibile decadenza, da un Polo all'altro, da una rissa all'altra, da una lontananza all'altra. Un tema difficile quanto necessario, che ci è consegnato proprio nei prossimi giorni: la Fiat - il lavoro - saranno al centro dello sciopero generale di venerdì prossimo. Che diventa il punto obbligato non solo della lotta, ma della rinascita della politica.

Rina Gagliardi
Roma, 13 ottobre 2002
da "Liberazione"