Errori strategici e manageriali alla base della crisi della casa torinese. Ma molti altri hanno esplicite responsabilità.

Fiat, una sfida nazionale

Un'intervista a Riccardo Bellofiore

Il rischio della scomparsa della Fiat dalla scena industriale italiana, con la "cancellazione" di migliaia e migliaia di posti di lavoro, da Torino a Palermo, è solo l'ultima tragica tappa di una lunga storia di deindustrializzazione e di progressivo cambiamento di ruolo dell'Italia sullo scenario globale: da "centro produttore" industriale a "periferia consumatrice" dell'impero (americano). Concetti cari a Immanuel Wallerstein e, prima di lui, a Herbert Marcuse. Su questi aspetti "Liberazione" ha intervistato l'economista Riccardo Bellofiore.

Professore, da dove scaturiscono le difficoltà della Fiat?

Nei primi sei mesi dell'anno il risultato operativo di Fiat è stato negativo, in una situazione del mercato dell'auto che pativa ovunque i colpi della recessione mondiale. Difficoltà comuni anche agli altri produttori, in un settore dell'attività industriale che da tempo vede ovunque una capacità produttiva inutilizzata di circa il 30%. L'eccesso di capacità produttiva è drammaticamente acuto in Europa, di circa 3 milioni di vetture. A quei risultati la Fiat ha risposto invece come sempre. Con processi di ristrutturazione, chiusure, dismissioni. E con la cassa integrazione, mobilità, prepensionamenti.

Una risposta al ribasso?

La casa torinese, in questo non dissimile dai suoi concorrenti, ha spinto sull'esternalizzazione di alcune fasi del processo produttivo, sulla diversificazione dei servizi legati all'auto, e sull'internazionalizzazione, sia collocando impianti all'estero, sia cercando l'alleanza con un grande produttore, che è poi stata la General Motors. Il che ha portato a un crollo dei dipendenti "locali", ma non di quelli "globali". Una scelta che sta dietro all'accordo con la Gm, visto che si tratta con tutta evidenza di una collaborazione per la Fiat non ottimale dal punto di vista della complementarietà delle specializzazioni produttive, che ha garantito però il più possibile gli interessi della famiglia.

Con quali effetti?

Il risultato è che il Gruppo Fiat, ma in primis gli Agnelli, sono sempre meno legati al destino manifatturiero della Fiat Auto, e forse sempre meno all'Italia. Anche se, e non va mai dimenticato, la Fiat è stata (con l'Olivetti, guarda un po': uno dei fari dell'industria cosiddetta "privata") l'impresa tra le più sovvenzionate dallo Stato. Sussidi elargiti senza chiedere niente in cambio: né sul terreno sociale, né sulla stessa capacità dell'impresa di stare sui mercati esteri. Sarebbe il caso quindi di evitare oggi richiami un po' pelosi alla libera concorrenza e al tenere lo Stato fuori dal settore. Vale la pena di ricordare che Romano Prodi, in barba a quanto insegna oggi da Bruxelles, regalò l'Alfa Romeo alla Fiat pur di non far entrare nel paese concorrenti stranieri.

Come spiega l'incancrenimento delle ultime settimane?

I dati sono noti: innovazione scarsa, vita del patrimonio tecnico e dei modelli eccessiva, scorte superiori alla media, debiti finanziari spropositati. Ammesso che la strategia della Fiat potesse funzionare, e ne dubito, ciò che ha aggravato la situazione è che il Lingotto è andato male proprio quando, grazie anche alla politica dei cosiddetti ecoincentivi, il mercato italiano, ancora una volta drogato, è ripartito. Si è visto che di questa ripresa delle immatricolazioni, la Fiat riusciva a goderne in percentuale sempre minore. Qui giocano due fattori: gli errori del management, ma anche i caratteri della globalizzazione più recente. Nel loro intreccio.

Quanto incide la globalizzazione?

Come dire: la Fiat sembra essersi "bevuta" acriticamente la visione della globalizzazione che andava per la maggiore, a destra come a sinistra, per tutti gli anni '90. Ricerca dei costi, specie del lavoro, più bassi, e speranza di sfruttare la crescita attesa dei mercati emergenti. Ha investito così quasi esclusivamente in paesi come Turchia, Polonia, Brasile, Argentina, India. Paesi che, dal '97 in poi, sono passati da una catastrofe economica all'altra. Altro errore, speculare: la Fiat non è riuscita a sfondare nei mercati dei paesi avanzati perché, come si è detto, è debole nelle gamme alte, quelle a più alto valore aggiunto. E' intuitivamente evidente che in un mercato di sostituzione trainato dagli incentivi, come è stato quello italiano, è chi produce nei segmenti alti, ad elevata redditività, ad avere la meglio. L'unica nota "positiva" è che la filiera del cosiddetto indotto è almeno parzialmente indipendente dalla casa torinese. E' chiaro, però, che uno schianto della più grande impresa nazionale non può non ripercuotersi su tutta questa galassia di piccole e medie imprese.

Un fallimento interno ed esterno?

Qui giocano quattro aspetti. Il primo è che la globalizzazione finanziaria ha determinato una crisi dopo l'altra, inizialmente facendo crescere il Nord ai danni del Sud e determinando disastri soprattutto nei paesi emergenti. Il secondo è che la globalizzazione come pura e semplice caccia ai costi più bassi, senza guardare alla qualità del prodotto e del lavoro, era solo una delle vie, e la meno promettente, a disposizione di un capitale che aveva stravinto socialmente e politicamente. Il terzo è che la globalizzazione non significa affatto perdita di importanza del mercato nazionale, ma al contrario rilevanza massima di una "base" nazionale di partenza. Il quarto è che questa globalizzazione è per sua natura altamente disegualitaria. La ricchezza del Nord del mondo vive, vampiristicamente, della crisi del Sud; e il consumo opulento della fascia benestante della popolazione si nutre di una redistribuzione sempre più vistosa a danno del lavoro e a favore di profitti e rendite. E' chiaro allora che in questo mondo le industrie dell'auto che sopravvivono meglio sono quelle che mantengono una presenza qualificata nei paesi più industrializzati, innovano davvero, riescono a difendere il mercato nazionale, occupano le gamme alte. E' quello che la Fiat non ha fatto.

Nessuno se n'è accorto prima?

Trovo stupefacente un articolo di Marco Revelli di qualche giorno fa sul "manifesto". Sviluppa una analisi largamente condivisibile, dove la Fiat viene dipinta per quello che è, un globalizzatore cheap che si è lasciato affascinare dai miti del pensiero unico. Peccato che quella globalizzazione cheap sia stata l'unica globalizzazione di cui negli ultimi anni ci hanno parlato intellettuali come Revelli, che hanno scambiato la parte per il tutto, assolutizzando una tendenza peraltro neanche la più significativa. E' qualcosa di molto simile a quello che è avvenuto all'analisi sull'"Impero" di Toni Negri: una analisi che sul terreno dell'economia ha sbagliato clamorosamente, come gli ultimi 2-3 anni dimostrano. Ma si fa finta di niente: ed è molto difficile che sulla "nostra" stampa ("il manifesto", ma anche "Liberazione") qualcuno abbia il coraggio di rilevarlo e di tirarne le conseguenze, che sono teoriche e politiche insieme. Nel caso specifico, Revelli insiste nel chiedere che si lasci perdere il fare auto, che si fugga a gambe levate da quella che chiama la baracca Fiat, e che si abbandoni il terreno di un intervento "macro" su questi processi. Un terreno dove lo Stato non può non fare la sua parte e dove invece lui reclama la diserzione da ogni progetto di portata "nazionale". Tutto il contrario di quello che si deve fare.

Dunque lei è d'accordo con la "nazionalizzazione"?

Le cose non sono così semplici. Vorrei che avessimo tutti chiaro che sono possibili due vie d'uscita. La crisi del settore automobilistico sul piano planetario è grave, ma non è mortale. Un settore da cui sarebbe criminale uscire nel momento in cui la Fiat è rimasta praticamente l'ultima grande impresa in Italia nel manifatturiero. E in cui sarebbe ancor più criminale restare vendendo - o meglio, svendendo - a qualche casa straniera, di cui saremmo una periferia che conta poco. La crisi dell'auto la si può affrontare, non è insormontabile. Prendi la Volkswagen o la Renault, che negli anni '80 viveva una crisi molto seria, mentre la Fiat sembrava prosperare.

Che gioco vi ha la mano pubblica?

Si tratta di imprese dove lo Stato produttore opera in assoluta conformità alle logiche imprenditoriali, che possono anche essere meno straccione di quelle della famiglia Agnelli. Ora, quando si parla di "nazionalizzazione", sembra farsi riferimento anche a una ipotesi del genere. Una sorta di golden share.

Come alla Telecom?

E' una ipotesi rispettabile, di uscita capitalistica dalla crisi, sia chiaro. Ma non mi affascina e penso che difficilmente potremmo governarla. Non mi affascina, non tanto per il minor peso che vi avrebbero gli Agnelli, evidentemente. Si tratta di una dinastia che va messa fuori da questo business, e alla svelta: ha fatto solo danni. Non mi affascina perché sarebbe ben singolare che venisse proposta da una forza comunista come la nostra, in quanto "fare bene" le auto sarebbe, in questa logica, qualcosa che si cercherebbe pur sempre di ottenere dentro questa globalizzazione, da cui noi vogliamo uscire. E anche perché - qui Revelli ha mille volte ragione - non possiamo proprio noi far finta di non conoscere i "fallimenti" dello stato clientelare, del keynesismo criminale, dei pascoli riservati ai boiardi di Stato. Ci screditeremmo da soli.


Allora di che nazionalizzazione parliamo?

Non possiamo, dopo un secolo e mezzo di discussioni nel marxismo, restare ancora affascinati dal puro e semplice mutamento nel rapporto di proprietà (e il Prc mi pare si guardi bene dal pensare a una nazionalizzazione in senso stretto, integrale). Parliamo di una entrata dello Stato nella proprietà in posizione significativa, dentro un più vasto e organico disegno di politica economica, dove ciò che produce la Fiat verrebbe a mutare sempre più natura, dentro una differente idea di mobilità e di equilibrio tra industria e ambiente. Fuori da questo quadro più ampio, lo Stato sarebbe costretto a subire i vincoli di un qualsiasi produttore automobilistico che "gioca" sul mercato globale.

Può essere più esplicito?

E' chiaro che parlare di "nazionalizzazione" della Fiat in questo senso ha corpo soltanto se si accompagna, esplicitamente, a due sponde. "Dall'alto", a un chiaro disegno di indirizzo pubblico dell'economia definito nei suoi contenuti e nelle sue tappe. "Dal basso" - non potrei essere più d'accordo con Livio Maitan - a una democrazia partecipativa. Una strada difficile, quasi impossibile, ma necessitata dagli eventi. Non sono però, lo confesso, molto ottimista. La gravità della crisi, e i nostri ritardi, ci impongono compiti enormi, e tempi che sarà difficile rispettare.

Gemma Contin
Roma, 23 ottobre 2002
da "Liberazione"