Potrebbe essere la fine di un grande amore.
La decisione presa, dopo lunghissime trattative, il 2 gennaio scorso dall'Organizzazione mondiale
del Commercio (Wto), non è forse molto significativa sul piano economico - salvo che per i diretti
interessati - ma certo lo è parecchio sul piano simbolico.
E si sa, in amore, queste cose sono importanti.
Così gli Stati Uniti, che del connubio con il Wto hanno fatto la loro bandiera, si sono ritrovati
condannati per non avere rispettato le regole del libero commercio, per la precisione quelle norme
che impongono ai paesi di “non discriminare” i marchi di alcun paese, in nome della liberalizzazione
globale dei mercati.
Gli americani, invece, hanno discriminato eccome, rifiutando la registrazione dello storico rum cubano
Havana Club sulla base di una legge appositamente approvata, la Section 211.
Che il principale fautore della globalizzazione utilizzi due pesi e due misure, proteggendo i propri
mercati mentre liberalizza quelli degli altri ai propri prodotti, è cosa nota da tempo, e certamente
non sarebbe bastato il reclamo di un piccolo paese in via di sviluppo a costringere il Wto a pronunciarsi
in tal senso.
Ma in questo caso il marchio cubano è stato aiutato dalla stretta alleanza stipulata con un gigante
europeo, la Pernod Ricard - quella del famoso “pastis” - che nel '99 ha presentato reclamo all'apposito
organo del Wto tramite la Comunità europea. Il rifiuto americano di accettare la registrazione dell'Havana
Club, che la Pernod Ricard ha fatto approvare in 180 paesi, è stato fomentato dalla feroce opposizione
della Bacardi, azienda con sede nelle Bermude ma in salde mani statunitensi, che vuole a tutti i costi
mantenere il proprio primato mondiale nella produzione del rum.
Dalla disputa, meramente commerciale, è nata una gustosa vicenda che intreccia elementi storici e
strettamente politici. Nelle focose riunioni che si susseguono dalla scorsa estate, i funzionari americani
al Wto hanno cercato di far passare la linea dei “criteri nazionali per la registrazione di un marchio”
che consentirebbero a un paese di rifiutare un marchio confiscato.
Il problema di questa tesi, però, oltre ad aprire la strada a una serie di prese di posizione simili
- che possono finire con il penalizzare altri prodotti americani, come ha fatto notare il vice-presidente
della Pernod, Jean Rodesch - ha fatto precipitare il Wto nel pieno di un imprevisto dibattito sulla
rivoluzione cubana, cosa che certamente i grigi burocrati del commercio mondiale avrebbero preferito
evitare.
Il marchio è stato insomma “legalmente abbandonato” come sostiene Rodesch o “confiscato dai castristi”
come sostengono gli americani?
In origine Havana Club apparteneva alla potente famiglia Arechabala, scappata negli Usa subito dopo la rivoluzione del '59. Una volta decaduto, il prestigioso marchio è stato acquisito da una compagnia cubana che, in seguito, si è messa in società con la Pernod Ricard. Attraverso la fortunata joint venture, la Havana Club Holding, la società caraibica è potuta uscire dai propri confini, resi ancora più angusti dall'embargo Usa, raggiungendo circa 80 paesi. A questo punto Bacardi ha messo in moto i propri potenti mezzi: prima affermando di avere comprato il marchio dalla famiglia Arechabala nel '97 - quando era ormai legalmente decaduto - e poi facendo il finimondo per impedire la registrazione statunitense dell'Havana Club. La pesante azione di lobbying condotta dalla Bacardi è riuscita a ottenere, nel '98, perfino l'approvazione di un'apposita legge, appunto la Section 211, con la quale il governo Usa ha rifiutato la registrazione del marchio nel proprio territorio. Pronunciandosi contro tale legge il Wto non ha fatto che applicare le proprie prerogative, esattamente come ha fatto per anni dichiarando inaccettabili la normativa nazionale relativa alla tutela ambientale - ricordate i delfini e le tartarughe di Seattle? - sanitaria o quant'altro, e poi propinando pesanti sanzioni economiche a chi si rifiutava di seguire i propri dictat. Evidentemente l'Organizzazione Mondiale ha ritenuto che, in questo caso, fosse meglio scontentare il gigante mondiale del rum piuttosto che vedere avverarsi la minaccia di Fidel Castro. Se non accetteranno il nostro marchio - ha continuato a promettere tutto l'anno scorso - daremo inizio a una produzione locale di Coca Cola e ritireremo dal commercio marchi altrettanto famosi come Nike e McDonald's. Ed è noto che nei precari equilibri interni dell'Organizzazione, conta molto di più il peso economico delle grandi transnazionali piuttosto che i viscerali sentimenti anti-castristi degli americani.