C i sono momenti in cui l'idea dello sciopero generale si impone naturalmente:
non solo è maturo nelle attese e nelle coscienze, ma ha già compiuto
una parte importante del suo percorso in concreti conflitti sociali
e di classe.
Questo era - è - uno di quei momenti.
Di fronte all'affondo del governo di centrodestra e di Confindustria,
che vogliono solo piena libertà di licenziamento e dicono no alle rivendicazioni
più moderate, quale altra risposta generale, unitaria, unificante
possono offrire sindacati degni di questo nome?
Sindacati capaci, semplicemente, di svolgere il loro mestiere di promotori
e organizzatori dei diritti sociali?
Ma proprio dalle Confederazioni è venuta ieri la doccia fredda: niente
sciopero generale, solo un'«astensione articolata» dal lavoro di due
ore, diluita nello spazio di tre giorni.
Un simulacro.
E anche un po' una beffa, per milioni di lavoratori che, tra il 5 e
il 7 dicembre, alla fine sacrificheranno due ore del loro salario sull'altare
dell'unità al ribasso tra Cgil, Cisl e Uil.
Uno «sciopericchio», dunque, a suggello di una stagione ricca di conflitti.
Eppure, l'occasione era straordinaria. In questo primo scorcio d'autunno,
non è stato solo il «movimento no global» a scendere in piazza e a mantenere
viva la protesta di massa contro la guerra: la mobilitazione ha acquisito,
via via, un carattere diffuso di lotta sociale, vertenziale, territoriale.
Dagli insegnanti in sciopero nazionale per ben due volte ai duecentomila
metalmeccanici di Roma, dagli studenti in occupazione, «autogestione»
o sciopero della fame in tutta Italia, al pubblico impiego in attesa
solo di una «chiamata», il corpo sociale più vivo ha espresso il suo
umore in termini inequivocabili.
Ha avanzato una domanda esplicita di opposizione sociale al centrodestra
e alle politiche che avanzano - di liberismo «sporco», non spettacolare,
ma molto sostanzioso, sia sul piano delle pratiche concrete che su quello
simbolico. E ha chiesto con forza quello scatto in avanti che solo una
mobilitazione generale e nazionale può rappresentare. A tutto questo,
Cgil, Cisl e Uil hanno privilegiato non la prudenza, ma la salvaguardia
del loro (residuo) ruolo istituzionale. Il culto della politica della
concertazione e della legittimazione dall'alto si conferma, oggi, nel
suo ruolo puramente regressivo. E si ripete, come spesso è accaduto,
in forma di farsa.
N
Ma anche in termini «strategici»: il più grande e più rappresentativo
sindacato italiano, ingabbiato fino a ieri nelle dinamiche interne del
congresso ds, impigliato oggi nella trappola dell'unità a tutti i costi
con Cisl e Uil, ha di fronte a sé un orizzonte davvero inquietante.
Né sindacato di lotta né sindacato di regime: quale sindacato, allora?
E al servizio di quali interessi?
Non è facile spiegare le ragioni di un errore così grande. In un senso
preciso, e perfino al di là delle responsabilità soggettive, sentiamo
che ha pesato l'irrisolto rapporto tra sindacato e partito, tra Cgil
e Ds.
Quel perverso intreccio nel campo del centrosinistra e della sinistra
moderata, che finisce col determinare un vero e proprio paradosso, almeno
in regime bipolare: l'inesistenza di un'opposizione sociale e politica
al governo Berlusconi.
Se due schieramenti «alternativi» non sono tali né sulle questioni-chiave
della politica internazionale e della guerra né sulla politica economica
e sociale, dove stanno la «alternatività», la differenza, la distinzione?
Se la Cgil, i Ds, l'Ulivo non contrastano il centrodestra su diritti
e garanzie elementari di tutela sociale e sindacale, in che cosa consiste
l'alternanza? Sono domande che, in queste ore, corrono più che mai tra
i lavoratori e il residuo popolo di sinistra. Ma conviene non rassegnarsi,
prima che esso si estingua, come è accaduto in Sicilia.
A dispetto di Cofferati e Pezzotta, il movimento non si ferma.