"DALLA RESISTENZA AL PROGETTO"
Convegno del 13 dicembre 2000 - Milano
LO SVILUPPO PER IL LAVORO
QUALIFICATO E LA SICUREZZA SUL LAVORO.
Relazione Iniziale di Danilo Aluvisetti

1. Premessa.

A due anni dalla nostra precedente conferenza che intitolammo "Meridiani e paralleli dell'economia lombarda" e alla luce delle più recenti indagini del tessuto produttivo, economico e sociale della Lombardia, abbiamo nuovamente sentito la necessità di un dibattito politico, attento, misurato e aggiornato che possa definire contenuti e traiettorie di una vasta azione politica, sociale, istituzionale e sindacale, per uno sviluppo teso a creare lavoro sicuro, qualificato, e la sicurezza sul lavoro.

Oggi più urgente che mai per l'agire di questo governo regionale di centro destra che va estendendo e consolidando il proprio modello di grande precarietà sociale.

L'ultima indagine di Federlombardia, i dati dell'IRER e lo stesso rapporto annuale della CGIL Lombarda che abbiamo potuto leggere, sollecitano a noi per quegli obiettivi una riflessione che vorremmo aprire e sollecitare anche ad altri, a tutte quelle forze sociali e politiche della regione che con noi hanno condiviso la primavera scorsa un programma elettorale di alternativa al centro destra in regione e perfino di discontinuità con il governo centrale, che oggi condividono con noi altre importanti battaglie, e a tutte quelle espressioni politiche e sociali che si pongono con noi sul piano dell'antagonismo al modello neoliberista qui e in Europa.

Prima di tutto si tratta, a nostro parere, di individuare un modello interpretativo all'altezza delle trasformazioni in atto, affrancandoci da quelle letture "scontate", o meglio ancora speculari, che interpretano la globalizzazione come la nuova frontiera della economia capitalistica, oppure la più pericolosa delle "invenzioni" del sistema di dominio del capitale.

Infatti e in prima approssimazione, l'allargamento del mercato non è certo un fenomeno nuovo alla economia capitalista, anzi si può affermare che è parte integrante della sua stessa natura, che liberali più avveduti avevano già da tempo ampiamente indagato.

Sicuramente ne vanno oggi aggiornate alcune delle principali funzioni economiche, nel senso che la formazione del reddito può non essere più ( e oggi è così), proporzionale alla crescita della domanda interna proponendoci quindi una maggiore e superiore sintesi delle sue variabili, in primo luogo gli investimenti.

Infatti, se è vero che c'è stato un evidente distacco tra la domanda interna e lo sviluppo economico del paese, ciò allora impone una maggiore attenzione al grado di apertura del mercato e quindi della variabile legata all'importazione e all'esportazione.

Ad esempio, una caduta della domanda aggregata della Francia, piuttosto che dell'Italia, ha o non ha riflessi tutt'altro che trascurabili per la nostra economia, tanto più grande quanto più grande è l'esistenza della relazione commerciale consolidata tra le due aree, chiamando in causa la capacità dell'offerta delle singole realtà economiche analizzate?

Infatti, qualsiasi politica espansiva della pubblica amministrazione potrebbe tradursi anche in una crescita della domanda di paesi terzi,( o in paesi terzi) e non necessariamente dell'Italia, se l'offerta di beni e servizi prodotta sul nostro territorio fosse del tutto inadeguata a soddisfare i bisogni che i consumatori, ma anche le imprese, a vario titolo manifestano.

Il paese, quindi, potrebbe pagare a caro prezzo l'aumento della domanda interna con un maggiore indebitamento estero in ragione dell'insufficienza e inadeguatezza del suo tessuto produttivo, soprattutto nella "globalizzazione" economica.

Può accadere, ed è quanto accade per l'Italia e anche per la Lombardia, che il prodotto mondiale manifesti forti tassi di crescita, ma il nostro paese e la nostra regione, (che soddisfano la propria crescita, o meglio ancora la propria domanda, attraverso una spiccata propensione all'importazione), siano costretti a comprimere proprio la domanda interna e quindi la crescita del prodotto interno lordo per evitare l'esposizione finanziaria con l'estero, rinunciando in tal modo a una quota non trascurabile della crescita economica che si sviluppa a livello mondiale.

Quindi, l'allargamento del mercato e soprattutto il rafforzamento del vincolo estero, che rappresentano la frontiera dell'attuale sistema economico, cioè la " globalizzazione " o le sue varie declinazioni come la new economy, non rappresenta il superamento di un paradigma ne tanto meno la predeterminazione di capitalisti di ventura che hanno trovato nella "globalizzazione" il modo di "affrancarsi dal lavoro vivo".

Evidentemente esistono dei punti di rottura e di discrimine nell'internazionalizzazione del mercato, come Seattle ha sostanzialmente manifestato, ma il senso profondo del processo realizzato è ascrivibile a delle trasformazioni che erano in grande parte prevedibili.

Ma quello che sorprende è l'insufficienza e l'inadeguatezza dell'imprenditoria nazionale e regionale rispetto a quella dei paesi europei e, soprattutto, l'assenza della politica sui temi trattati, come se l'atteggiamento della politica fosse ininfluente sugli assetti sociali ed economici.

Infatti, come afferma il professore Gallino, la politica e la pubblica amministrazione hanno storicamente segnato e guidato, oppure promosso "l'istituzione del mercato", in senso sociologico, mentre oggi questa sembra essere del tutto impreparata a trovare un equilibrio superiore e un ruolo all'altezza degli impegni che la "globalizzazione" suggerisce e richiederebbe.

E dire che paesi ben più attrezzati dell'Italia per quanto riguarda l'assetto produttivo hanno usato la leva pubblica per non essere spiazzati dall'internazionalizzazione dell'economia.

L'analisi contenuta nel rapporto del Centro Europa Ricerche del 1999 porta a dubitare o almeno a riflettere sulle politiche economiche adottate per tutti gli anni novanta in Italia.

Infatti mentre negli Stati Uniti il tasso di accumulazione è aumentato del 50%, nei paesi europei, ma soprattutto in Italia, questo tasso di accumulazione ha registrato una netta flessione.

Si deve quindi concludere che a distinguere le due aree economiche più rappresentative del mondo non sia solo un fenomeno legato alla congiuntura economica, ma l'emergere di un importante differenziale produttivo.

Solo in questo modo è evidentemente possibile leggere il corrente valore dell'Euro rispetto al dollaro.

Certamente la "speculazione finanziaria" approfondisce i problemi delle aree che hanno gravi ritardi economici e sociali, in un certo senso impedisce una loro soluzione, non a caso la Tobin Tax potrebbe intervenire sulle transazioni che non interessano la produzione di beni e servizi destinati al settore manifatturiero, ma non può essere accettabile l'idea che la "moneta" possa affiancarsi, in termini di formazione del reddito, dalla capacità di produzione degli stessi beni.

Neanche i più spinti liberisti sono riusciti a modificare l'equilibrio funzionale del reddito, che è fatto di beni e servizi, ma anche di pagamenti in moneta per gli stessi.

Solo una certa stampa a caccia di facili slogan poteva immaginare la "rottura" dell'equilibrio del reddito con " l'avvento della cosiddetta new economy", ma ben presto ci si è resi conto che anche le società che operano su questa filiera, che a noi non sembra così tanto nuova, hanno dovuto fare i conti con i vincoli di bilancio. Non è forse anche quanto al di là degli aspetti politici, è accaduto con la società BLU nella gara per l'acquisto delle licenze UMTS?

2. I vincoli economici dell'Italia.

Il primo aspetto, allora, da affrontare è quello relativo alla capacità di crescita dell'economia nazionale, così come quello relativo alla crescita economica registrata dalla nostra regione.

Un ritmo costantemente più basso della media dei paesi europei, e l'ultimo rapporto della Commissione Europea rafforza e prolunga nelle tempo il gap che separa l'Italia dal resto dell'Europa.

Sicuramente il processo di risanamento finanziario dei conti pubblici, così come il rientro dai tassi di inflazione elevati ha inciso sulle potenzialità di crescita del paese, ma allo stesso tempo non si può dire che questa operazione non sia stata adottata anche da altri paesi comunitari, ma nonostante tutto, questi paesi, manifestano tassi di crescita economica di un punto percentuale più alti.

Infatti, la minore crescita del prodotto interno lordo dell'Italia è quasi per intero attribuibile alla bassa propensione degli investimenti sia pubblici che privati, (A proposito dell'accordo del luglio 93! Meno salario + profitti + investimenti!! - su questo nodo si farà in seguito un'ulteriore precisazione), soprattutto se compariamo l'Italia e la regione Lombardia a tutti i paesi di area OCSE e Comunitari.

Ciò ha determinato un incremento del capitale fisico modesto e del tutto inadeguato per sviluppare profili più avanzati o superiori della crescita del reddito nazionale, spiazzando il nostro paese dalla trasformazione industriale in essere che richiede una maggiore e migliore presenza nei settori ad alta tecnologia.

Infatti, se le esportazioni rappresentano un fattore non trascurabile dello sviluppo di un paese, è del tutto evidente che il modello di specializzazione non è ininfluente al suo posizionamento strategico.E su tale terreno è più che risaputo che l'Italia è caratterizzata da una elevata quota di esportazioni e produzione a basso valore aggiunto e ad elevata elasticità di prezzo che concorrono al progressivo arretramento sul mercato internazionale del made in Italy, sempre più prossimo alla concorrenza con i paesi emergenti.

Quale è quindi il nodo che il nostro paese, ma anche la Lombardia, devono superare?

Rapporti non sospetti parlano di una grossa forbice tra importazioni ed esportazioni dell'Italia rispetto alla Francia e alla Germania è veramente preoccupante, soprattutto se consideriamo la maggiore capacità di consumo espressa dal nostro paese, che si colloca su livelli largamente superiori a quelli espressi dalla stessa Francia e dalla stessa Germania..... ciò sta ad indicare che la domanda interna non trova una equivalente capacità di offerta e determina, per questa via, una minore ma inesorabile dinamica del prodotto interno lordo

Vi è quindi una pesante inadeguatezza dell'offerta nazionale e regionale a soddisfare la domanda di beni di investimento, che comporta pertanto un sistematico ricorso alle importazioni di beni intermedi con forti e preoccupanti effetti sul reddito, sulla sua distribuzione al di là delle indispensabili battaglie che su questo terreno occorre riprendere.

3. Posizionamento dell'Italia.

Partiamo quindi da un dato che potrebbe forse sorprendere solo i meno avveduti commentatori economici: per tutti gli anni novanta la quota nazionale mondiale delle esportazioni si è pericolosamente ridotta, passando dal 4,9% dei primi anni 90 al 4,1% della fine degli stessi anni.

Soprattutto è calata nei paesi che dovrebbero essere i nostri principali interlocutori economici, cioè i paesi industrializzati.

Infatti, nella Unione Europea l'Italia è scesa dal 7,2% al 5,7%; in estremo oriente dallo 1,7 allo 1,3%; mentre nei confronti degli Stati Uniti si è passati dal 2,4 al 2,1%, nonostante l'evidente crescita del valore del dollaro.

Questo arretramento non può essere imputabile al solo costo del lavoro italiano che è significativamente più basso del costo del lavoro della Grecia, ma piuttosto alla radicale trasformazione del commercio mondiale dei manufatti.

Infatti, se nel 1985 l'alta tecnologia rappresentava il 15% del commercio mondiale del settore manifatturiero, oggi rappresenta il 30%, mentre l'Italia è rimasta ferma al 15%, del 1985, mentre la Lombardia, se è possibile, è stata capace di arretrare sensibilmente.

Evidentemente l'Italia e la Lombardia sembrano avere rinunciato a competere sulla capacità di innovazione, preferendo importarla, e quindi rinunciare a una occupazione qualificata che l'alta tecnologia necessita, ma soprattutto ha rinunciato a determinare, se non in modo autonomo, almeno consapevole, le proprie basi dello sviluppo.

Infatti, nel decennio 1985-'95, la quota di valore aggiunto dei settori High-Tech regredisce in Italia dal 7,2% al 6,4%, mentre in Germania passa dal 10,6% all'11%, in Inghilterra dal 13% al 13,9%, in Spagna dal 5,5% al 7,6%, in USA dal 14,6% al 15,8%, nella Corea del Sud dal 10,9% al 15,7%; nel 1995 l'apporto dei settori High e medium High-Tech sul valore aggiunto complessivo del manifatturiero risulta essere per l'Italia pari a circa il 33% a confronto del 40% della Francia, il 49% della Germania, il 38,7% della Spagna, il 44% della Corea, il 47% del Giappone, il 48% dell'USA; l'incidenza dell'export High-Tech sull'export del manifatturiero si attesta per l'Italia nel 1997, sul valore del 15% a confronto con il 31% della Francia, il 40% della Gran Bretagna, il 25% della Germania, il 62% dell'Irlanda, il 44% dell'USA, il 39% del Giappone.

4. La Lombardia nel contesto europeo.

Nell'analizzare e studiare la realtà economica della nostra regione abbiamo tentato di "valutare" questa realtà non con le solite e forse inutili comparazioni con le altre regioni d'Italia, ma piuttosto, pensando all' Europa, a una più coerente e funzionale relazione tra la Lombardia e la stessa Europa.

I risultati ottenuti mostrano una regione che tendenzialmente continua a perdere posizioni su tutti i principali indicatori economici e sociali, come la domanda interna, gli investimenti, l'importazione e l'esportazione di beni e servizi, la crescita di strati di popolazione a rischio come la definisce l'IRER, di dequalificazione lavorativa, di precarietà e di incidenti sul lavoro e morti.

La più evidente e preoccupante debolezza della regione è data dalla inusuale relazione che si sviluppa tra investimenti e importazioni, cioè ogni qual volta crescono gli investimenti il saldo negativo della bilancia commerciale e tecnologica tende ad aumentare.

Non a caso, la crescita del prodotto interno lordo appare più contenuto anche rispetto alla media delle regioni italiane, e ciò in ragione del basso profilo dell'offerta in materia di beni intermedi.

È sicuramente vero che il peso specifico economico della Lombardia sulle altre regioni d'Italia è tra i più solidi in termini di ricchezza, export e di valore aggiunto, ma i trend, cioè le prospettive future formulate su una serie di dati storici, mostrano una oggettiva carenza del sistema economico regionale, cioè una profonda incapacità a "raggiungere" le opportunità che si presentano sul marcato e non è ascrivibile alla "storica missione" della Lombardia, cioè una realtà che trasforma le materie prime.

Se per alcune fasi congiunturali si può immaginare la necessità di una bilancia commerciale negativa, per alcuni versi anche auspicabile in determinate situazioni, non può diventare la caratteristica principale di un paese e tanto meno di una regione industrializzata come la nostra.

Considerato quanto e stato detto precedentemente sulla quota di alta tecnologia sull'insieme delle esportazioni e delle importazioni mondiali, è del tutto evidente che la regione appare almeno "sorpresa" dall'evoluzione della produzione di beni e servizi (maggiore incidenza dell'alta tecnologia), che richiedono una più spinta presenza nei settori a forte base scientifica.

Non a caso la regione ha una elevata quota di produzione e di esportazioni a basso valore aggiunto e ad elevata elasticità di prezzo, cioè la Lombardia ha rinunciato a creare ricchezza ed occupazione nei settori che vedono crescere l'occupazione, a differenza di quelli maturi dove l'occupazione tende a contrarsi.

Detta in parole molto più semplici, la regione sembra attrezzarsi per competere con i paesi emergenti sul piano dei costi piuttosto che con quelli industrializzati, accompagnando questa competizione con il ritiro politico, la rinuncia a misure per un forte intervento strutturale e ponendo enfasi sulla sua micro struttura produttiva.

5. Struttura produttiva nazionale e lombarda.

Una struttura che sul piano dimensionale ha sicuramente inciso e continua ad incidere sul ritardo accumulato.

Infatti, il modello di sviluppo realizzato sul territorio rappresenta una forte anomalia a livello europeo, soprattutto se ne osserviamo la dinamica degli investimenti per persona che si presenta sul mercato del lavoro: negli ultimi 28 anni il 40% della media dei G7.

Questo ritardo-deficit non poteva che tradursi in un livello di occupazione (molto diverso dalla disoccupazione) più basso di quello dei paesi concorrenti, non solo per l'Italia, ma anche per una regione industrializzata come la Lombardia, e un sistema produttivo sottodimensionato e sottocapitalizzato, che per essere competitivo si è sviluppato nella piccola impresa e nei settori tradizionali (nei distretti industriali), che, sino a quando il contenuto tecnologico nei manufatti era estremamente contenuto, sicuramente hanno permesso di mantenere anche dei livelli soddisfacenti di produttività ma che ora mostra tutti i suoi limiti, l'impossibilità cioè di sostenere delle produzioni in cui il valore aggiunto non è dato dai costi, ma dalla capacità di "produrre e indirizzare l'innovazione".

Infatti, se tendenzialmente i manufatti costano di più in ragione del loro contenuto innovativo, è del tutto evidente che occorre realizzare dei prodotti in cui si trae profitto non dalla differenza costo-prezzo, ma dalla sua intrinseca capacità di soddisfare i bisogni più articolati dei consumatori, così come delle imprese che chiedono beni intermedi più "sofisticati", almeno che non si scelga deliberatamente di competere sulla sola capacità di strappare prezzi più bassi sul mercato internazionale.

In questo senso è sicuramente centrata un'altra analisi che abbiamo incontrato sulla struttura produttiva del paese e della regione, in particolare sui distretti industriali,

"In prima approssimazione, afferma, si può osservare come la struttura produttiva nazionale, a differenza di altri paesi UE, è stata interessata da una progressiva polarizzazione della sua specializzazione produttiva, più precisamente si è implementata una disarticolazione e deverticalizzazione nell'integrazione della filiera produttiva.

In questo modo si è indebolita la capacità del sistema nazionale di produrre valore aggiunto integrato (sinergia tra più filiere produttive,) che aveva caratterizzato il sistema produttivo nazionale per tutti gli anni '80, soprattutto con l'affermazione dei distretti industriali.

È infatti molto probabile che la spiccata specializzazione nel settore delle macchine utensili, attrezzature e componenti sia l'altra faccia della medaglia della tenuta economica degli anni '80 nei settori tradizionali.

Infatti la sinergia sviluppatasi tra le macchine utensili e il settore tessile-abbigliamento, mobili e lavorazione del legno, lavorazione dei minerali non metalliferi può spiegare una parte non trascurabile della produttività dispiegatesi nei distretti industriali con produzioni tradizionali.

In parole molto più semplici, l'integrazione di filiera, l'interazione delle attività operanti nelle attività tradizionali e specialistici hanno determinato una combinazione vantaggiosa di elementi di qualità, di prezzo e di adattamento nelle scelte produttive.

Tuttavia questa particolare caratteristica della struttura produttiva appare del tutto insufficiente a intercettare processi in cui l'economia della conoscenza assume uno spiccato ruolo.

Infatti, l'integrazione esistente tra settori tradizionali e specialistici si è da un lato indebolita, e dall'altro non è stata capace di inglobare i settori più avanzati della conoscenza, anche a seguito della strutturale debolezza del settore ad alta tecnologia.

La mancata interazione tra il settore H-T e specialistico ha di fatto indebolito quest'ultimo e per questa via ha impoverito anche l'attività produttiva dei settori tradizionali.

Tra l'altro, il settore specialistico non potendo affrancarsi dalla componente della conoscenza, di cui ne è completamente dipendente, è stato costretto a inglobare l'elettronica proveniente dall'estero. Per questa ragione non si è determinata alcuna traiettoria scientifica o applicazione tecnologica, e si è prodotto anche uno spiazzamento dei settori tradizionali."

6. Una domanda di lavoro dequalificata e insufficiente.

Le ultime informazioni disponibili sull'occupazione regionale e nazionale che abbiamo potuto leggere manifestano, apparentemente, una situazione in netto miglioramento, cioè dei tassi di disoccupazione in continua contrazione e una significativa, anche se insufficiente, crescita dei tassi di attività e di occupazione.

Ma attenzione, queste positive tendenze non rappresentano con efficacia le difficoltà e i drammi che spesso attraversano uomini, donne e giovani che si presentano sul mercato del lavoro o che ne subiscono i suoi effetti.

1° In particolare, checché se ne dica, sia il tasso di attività che quello di occupazione sono ancora significativamente distanti dalla media europea.

2° La principale causa di questo ritardo risiede principalmente nella persistente bassa dinamica del prodotto interno lordo, ma anche nell'inadeguata struttura settoriale e dimensionale del sistema produttivo nazionale e regionale.

3° L'elevato peso delle unità produttive di minore dimensione, il ritardo nella produzione e nello sviluppo di servizi ad alto valore aggiunto, la modesta propensione degli investimenti nella ricerca e sviluppo, sono gli aspetti più evidenti e cronici del ritardo dell'economia italiana rispetto ai Paesi comunitari, che concorrono allo sviluppo di un'occupazione debole da un punto di vista professionale, e ad un eccesso di lavoro autonomo e atipico.

4° Nonostante i dati degli ultimi anni segnano una leggera ripresa degli occupati, la sua quantità è insufficiente per modificare il dato della disoccupazione strutturale, mentre le variazioni che avvengono sul piano delle caratteristiche e della tipologia dei rapporti di lavoro tendono ad accrescere il suo grado di precarietà.

Quindi, il quadro generale dell'economia nazionale, giudicato oramai da tutti insufficiente a traguardare i livelli competitività europei, non offre una prospettiva "certa" per l'occupazione.

Inoltre, si sono aperti serissimi problemi nell'inserimento lavorativo dei giovani e delle donne, e in particolare dei lavoratori più anziani che sono rimasti, per varie ragioni, senza lavoro a causa dei processi di ristrutturazione e riorganizzazione delle imprese.

In 20 anni la quota di occupati sulla popolazione in età lavorativa è rimasta sostanzialmente invariata, mentre si è modificata la sua composizione per sesso e classi di età, mettendo in crisi il tradizionale modello basato sul capo famiglia.

La trasformazione più rilevante dal punto di vista numerico e sul piano sociale ed economico è stata senz'altro una accresciuta femminilizzazione del mercato del lavoro, che ha visto crescere la presenza di donne nella popolazione attiva, tra gli occupati, ma anche tra i disoccupati.

Il presidente della Giunta regionale, Formigoni, ha affermato che la regione è ormai saldamente tra le prime venti regioni europee, in ragione del suo tasso di disoccupazione pari al 4% (2,4 per gli uomini e 6,4 per le donne), ma ha omesso di dire che:

Non deve allora sorprendere che il principale problema per il mondo del lavoro, soprattutto per le donne e i giovani, non è la carenza di flessibilità, ma piuttosto la domanda qualificata del sistema delle imprese, in ragione della loro specializzazione tradizionale, che mortifica i processi di accumulazione del sapere dei giovani che "apparentemente" le imprese continuano a denunciare come carente.

Non si spiegherebbe in altro modo il fatto che gli operai generici abbiano ancora maggiori possibilità di trovare lavoro rispetto alle figure più professionalizzate.

7. Il Piano regionale di sviluppo.

I primi atti legislativi della Giunta regionale hanno già segnato in profondità i rapporti tra le istituzioni nazionali e locali, con le parti sociali, ma soprattutto hanno indebolito, se è possibile, le già non esaltanti prospettive individuali e collettive dei cittadini lombardi.

L'idea di stato sociale che questa giunta di centro-destra intende promuovere non è solo un motivo di preoccupazione per le forze politiche e sociali che si richiamano in qualche modo al socialismo, al solidarismo cattolico, ma anche per i più convinti analisti liberali europei.

Infatti, è perfino difficile non cogliere l'evidente contraddizione tra la stessa carta dei diritti adottata dai paesi della Comunità, (con la nostra contrarietà) e il progetto di stato sociale che avanza la giunta Formigoni. Mentre nella carta dei diritti, che abbiamo bocciato per le sue inadeguatezze, si afferma che l'Unione Europea deve sostenere uno stato sociale con l'aggettivo "elevato", il progetto di questa destra parla esplicitamente di "stato sociale minimo", cioè la Lombardia sembra volersi affrancare anche dai pur modesti principi solidaristici sanciti dalla carta europea, nonostante si continui a sostenere l'esatto contrario.

La stessa articolazione del piano regionale di sviluppo in tema di sviluppo socio-economico e culturale, servizi alla persona, aree territoriali e istituzionali, manifesta la volontà della giunta di "stare sopra ai problemi e non dentro ai problemi "

Tralasciando ora le evidenti falsità scritte nel piano regionale di sviluppo sulla capacità di crescita economica della Lombardia degli ultimi cinque anni (non è vero che la regione lombarda è quella che ha il miglior trend di crescita), la giunta sembra incapace di interpretare le debolezze intrinseche della struttura produttiva regionale.

Affermare infatti che la regione Lombardia è l'avanguardia delle regioni europee sarebbe quasi divertente se non implicasse la marginalizzazione dal mercato mondiale, come il deficit della bilancia commerciale continua a ricordarci.

Ma è soprattutto sulla capacità innovativa che il piano regionale di sviluppo riesce a dare il meglio di se, quando afferma che l'artigianato, le piccole imprese e i distretti industriali sono i veri "incubatori" di innovazione.

Il penultimo rapporto dell'ENEA, curato tra l'altro anche da ricercatori della Bocconi di Milano, ha scrutato con "severità" questa Regione e i risultati sono veramente disarmanti:

Tutto ciò sottolinea con forza che questi i nodi o gli snodi strategico che l'Italia e la Lombardia devono risolvere se il mercato di riferimento sono i paesi industrializzati, altrimenti la competizione di costo con i paesi emergenti condizionerà lo stesso sviluppo economico e sociale del nostro territorio, la sua occupazione, la sua qualità e sicurezza, come purtroppo sembra avere scelto la maggioranza di destra della Lombardia annullando ogni lotta o temporizzandola.

8. La sfida della sinistra e del sindacato.

Abbiamo già ricordato che la giunta e la maggioranza di destra della Lombardia ha scelto "sciaguratamente" la strada più comoda e sicuramente più redditizia in termini elettorali, ma questa scelta potrebbe avere pesanti conseguenze per le prospettive sociali ed economiche della regione.

Da una lato comincia a manifestarsi un profondo senso di smarrimento, da uno altro punto di vista comincia a incrinarsi anche la "dimensione" liberale dei diritti universali così come la universalità di certi servizi.

Forse è opportuno ricordare che i liberali più illuminati, certamente non comunisti o simpatizzanti del socialismo, hanno indagato da tempo i cosiddetti "limiti del mercato". E' quindi in ragione di questi limiti che ci pare vada sostenuta la necessità di contenere prima e arrestare poi le preoccupanti deviazioni del pensiero liberista, (molto diverso dal pensiero liberale), ma soprattutto di iniziare a indagare i meridiani e i paralleli di un progetto di trasformazione che sappia trovare un equilibrio superiore tra società, crescita economica, sviluppo e sostenibilità ambientale.

In questa ricerca, purtroppo orfana di modelli, occorre anche che il sindacato e in particolare la CGIL faccia uno sforzo originale, cioè sappia ritrovare lo spirito "conflittuale" che ha sempre "alimentato" la democrazia così come lo sviluppo del paese.

Nella CGIL ci sono le risorse intellettuali, uomini e donne che possono con efficacia riproporre con orgoglio gli interessi del mondo del lavoro, nelle forme e nei modi che hanno storicamente fatto di questa organizzazione di lavoratrici e lavoratori sindacato la più grande e importante organizzazione sociale del paese e fra le maggiori a livello europeo, ma occorre uno sforzo e un'azione all'altezza della situazione.

Primi segnali di una nuova consapevolezza dentro la CGIL sono rintracciabili nella riaggregazione di una sinistra sindacale che per troppo tempo è stata al proprio interno conflittuale e insofferente, tra l'altro vittima di azioni che non hanno sicuramente aiutato la ricerca di una progettualità autonoma.

Oggi sembra schiudersi una "opportunità" che osserviamo con grande attenzione e che riteniamo vada sostenuta con coraggio e coerenza rispetto all'obiettivo che ci siamo dati della ricostruzione di un sindacato di classe, democratico e di massa.

Infatti, dove si è realizzata una azione "politica" dentro la CGIL, nel bene e nel male, la sinistra sindacale, ma anche quella che non ha ancora scelto ma che è molto attenta a quanto accade dentro la propria organizzazione e nel mondo del lavoro, è stata capace di segnare con sensibilità e misura la propria presenza sul territorio regionale.

In questo senso, l'esperienza lombarda, nonostante le sue contraddizioni, anche recenti, manifesta una progettualità e una vivacità che non può essere risolta con facili battute, fosse letta anche solo da un punto di vista storico.

Così come occorre guardare senza contrapposizioni ad altre realtà ed esperienze sindacali che si collocano fuori dalla rappresentanza sindacale ora richiamata, espressioni di disagi veri rispetto a una pratica concertativa che in taluni settori ha compromesso pesantemente le possibilità di conflitto, esperienze che per quanto riguarda il nostro agire e nel rispetto della loro autonomia, non possono che essere ricondotte o condotte, senza tentennamenti, ad una vera confederalità di classe e a unità.

Tutti affermano che siamo in una fase di transizione che modifica il ruolo storico di molti soggetti sociali e istituzionali, probabilmente è anche vero, ma questo non può e non deve impedirci di chiedere a questi soggetti, ma soprattutto a noi stessi, una iniziativa capace di ricostruire l'alfa e la zeta di un progetto che sappia "riannodare stato sociale e sviluppo economico".

Perdere le elezioni è anche possibile, così come è possibile smarrirsi nell'attuale dibattito politico ed economico, che ai più appare del tutto inadeguato per le trasformazioni che quotidianamente si realizzano del mondo del lavoro, sociale ed economico, ma rinunciare alla capacità di progetto che superi la pur necessaria resistenza, e se volete rinunciare ai sogni che hanno alimentato una parte importante del nostro agire quotidiano sarebbe, tra le sconfitte possibili, quella peggiore.

Danilo Aluvisetti
responsabile regionale per le politiche economiche e del lavoro del PRC.
Milano, 13 dicembre 2000, Convegno sulla Sicurezza nel Lavoro.