Palestina 1950 - 1988

GENESI DEL MOVIMENTO NAZIONALE PALESTINESE

Resoconto e documentazione della conferenza tenuta a Parigi il 21 novembre 2002 A cura dell’Associazione Francia-Palestina

Vi parlerò solo di una parte della storia del movimento nazionale palestinese. Ho scelto il periodo che è compreso tra gli anni 1950 e 1988.
Ma non è perché comincio dagli anni cinquanta che considero che non c’è movimento nazionale palestinese prima di questa data. Dal mio punto di vista, il movimento è cominciato nettamente prima del 1948, forse negli ultimi decenni del XIX secolo, in ogni caso nei primi del XX. Dunque partire dagli anni ’50, non è parlare del movimento nazionale palestinese ma di ciò che io chiamo, per farla breve, il secondo movimento nazionale palestinese. Il primo sarebbe quello che ha conosciuto i suoi balbettii prima della Prima Guerra mondiale, in particolare intorno al 1908-1910 e che andrebbe fino alla creazione dello Stato d’Israele e che si chiama nel lessico politico la Nakba (la catastrofe, il disastro).
Per parlarvi del secondo movimento nazionalista palestinese, ho scelto alcuni punti che mi sembrano fondamentali. Seguirò una cronologia, ovviamente per grandi linee, ed intreccerò man mano delle riflessioni di fondo sulle dinamiche, ed in particolare, sulla questione dei fondamenti del nazionalismo palestinese.

1950: nascita delle due correnti del movimento nazionale palestinese.

Il secondo movimento nazionale palestinese è nato dopo gli avvenimenti tragici del 1948, per iniziativa di quelli che io chiamo “un pugno di attivisti”, il che non ha assolutamente nulla di peggiorativo. Questi sono essenzialmente generati dalla dispersione palestinese del dopo-1948 (dico dispersione e non diaspora perché il fatto di sapere se nel 1950, nel 1955, nel 1960, nel 1970, nel 1980, si ha una diaspora o semplicemente un esilio, o una dispersione, è un dibattito maggiore in cui ho una posizione che consiste grossomodo nell’affermare che la diaspora palestinese comincia o comincerà quando ci sarà un vero Stato o un vero ancoraggio territoriale da qualche parte...). Essi vanno a ristrutturare il mondo palestinese (dico il mondo palestinese e non la società palestinese perché non c’è più una società palestinese, ci sono delle schegge esplose di società palestinesi. Non c’è una società palestinese unificata con le strutture che funzionano come tali, quindi non si può parlare di società) intorno ad un progetto comune che è un progetto di “liberazione”, secondo i termini ufficiali della futura OLP [Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndt]. Questo termine “liberazione” è una parola chiave su cui si ritornerà in diversi momenti. Quel pugno di attivisti costituisce ciò che si potrebbe chiamare una nuova élite politica nel campo palestinese. “Nuova” perché cercherà di smarcarsi (solo in una certa misura perché si inserirà anche nella sua filiazione) dall’élite o dalle élite precedenti, quelle del primo movimento nazionale palestinese prima del 1948. Questo era organizzato in ciò che solitamente si chiamava l’Alto Comitato arabo, di cui il presidente è stato il famoso Mufti Amin el Husseini. Questa nuova élite intende dunque smarcarsi a vari livelli dalla vecchia e presentarsi come una élite “di rottura”. La posta è chiara: si tratta di non collocarsi nella filiazione della classe politica che ha perso la Palestina nel 1948.

Questi attivisti si raggruppano all’interno di questo mondo palestinese esploso e nell’ambito di questo progetto nazionale, intorno a ciò che ho definito le due correnti maggiori di socializzazione e di organizzazione politica.

• la corrente Fatah è di gran lunga la più importante in termini quantitativi e per l’egemonia politica che da allora non ha smesso di esercitare sul movimento nazionale palestinese. Si è sviluppata su più tappe: Gaza, Il Cairo, Kuwait.

Gaza è per cominciare un piccolissimo territorio occupato dall’esercito egiziano dal 1948 e lo resterà fino al 1967, data nella quale l’occupazione israeliana darà il cambio, se così posso dire. È un piccolo territorio sovraccarico di profughi, miserabile, e nel quale la forza politica dominante all’epoca - laddove i primi uomini del Fatah (che non è ancora il Fatah) cominciano appena a svegliarsi alla coscienza politica - è costituita dai Fratelli Musulmani egiziani. Non sono l’unica forza politica a Gaza; sono la più pregnante particolarmente in questi campi di profughi, ma anche nelle élite urbane. Ciò che è forse ancora più decisivo, è l’esperienza della lotta armata palestinese ampiamente inclusa nell’esercito egiziano, nel 1956, all’epoca della campagna di Suez, in occasione della quale Israele invade ed occupa la striscia di Gaza. Contro questa occupazione, l’esercito egiziano, ma in realtà alcuni commando palestinesi organizzati, sotto la tutela dello Stato Maggiore egiziano, lotteranno contro Israele. In altre parole, a Gaza, i futuri uomini del Fatah hanno una prima esperienza concreta della lotta armata: ciò mi sembra fondamentale. Hanno affrontato direttamente il nemico sionista, per usare la terminologia ufficiale, il che non sarà il caso dell’altra corrente, quella nazionalista araba. A Gaza, si ritrovano tutti quelli che saranno i futuri fondatori del Fatah: oltre a Yasser Arafat, Khalil al-Wazir (futuro Abu Jilad), Salah Khalaf (futuro Abu Iyad), ma anche Kamal Adwar o Mohamed Yusuf al-Najjar.

Il Cairo è il luogo dove si possono seguire facilmente degli studi, sarà il caso di Yasser Arafat e di molti altri, ma è soprattutto un crogiolo ideologico, il luogo di un fermento politico ed ideologico straordinario negli anni cinquanta ed in particolare dopo l’arrivo al potere di Nasser nel 1952 (in realtà la personalità di Nasser non si affermerà prima del 1955-56, ivi compreso sulla scena politica egiziana). Questo ribollio, che riunisce al contempo i Fratelli Musulmani e certi movimenti nazionalisti arabi, tipo MNA, Baath, ecc., influenzerà innegabilmente questi uomini. Al Cairo, svolgeranno anche una prima attività politica in seno all’Unione degli studenti palestinesi, che ha giocato in certo modo il ruolo di laboratorio della pratica politica per i futuri fondatori del Fatah.

Infine, il Kuwait. È dapprima il posto di lavoro dove gli studenti palestinesi si recano dopo la fine dei loro studi perché, a causa della rendita petrolifera, cominciano a svilupparsi un certo numero di impieghi ben pagati. Ma oltre alle risorse materiali, il Kuwait offrirà loro uno spazio di libertà perché è lontano dalle lacerazioni ideologiche di quelle zone egiziana, palestinese e siriana. Vi troveranno una libertà di organizzazione che non troveranno altrove e non è un caso, dunque, se è nel Kuwait che si crea il Fatah.

Bisogna sapere anche che il Fatah non è affatto il solo movimento che si costituisce. In una prospettiva molto vicina, nascono altri gruppuscoli per fondersi più tardi nel Fatah.

Quegli uomini sono stati spesso qualificati come piccola borghesia palestinese professionalizzata. È un modo di provare a metter loro un’etichetta sul groppone, ma che sottolinea che essi sono, in particolare in Kuwait o nei paesi del Golfo, economicamente integrati e politicamente frustrati, si potrebbe dire...

• La seconda corrente, che non approfondirò, è quella che ho chiamato nazionalista araba. Ha una radice relativa all’organizzazione più chiara. Vi è un raggruppamento politico dietro, che data dagli anni cinquanta, che è il Movimento nazionalista arabo (MNA). È un movimento che, come tutte le varianti del nazionalismo arabo, aspira al tempo stesso all’unità della grande nazione araba e ad una forma di organizzazione socialista della cosiddetta nazione araba quando questa si sarà costituita. Ciò detto, ci sono delle rivalità, delle competizioni tra i nasseriani, i membri del MNA, i baathisti, a scapito di un asse ideologico comune. Il MNA è importante perché è l’origine di tutti i movimenti che entreranno nella futura OLP: il Fronte popolare [FPLP], il Fronte democratico [FDLP]... Vale a dire dei movimenti che, provenienti dal nazionalismo arabo, si marxizzeranno negli anni sessanta mischiando nazionalisti e marxisti e che saranno l’ala radicale, per dirla rapidamente, dell’OLP negli anni a venire.

Il Movimento nazionale palestinese, portavoce dei profughi.

Questa élite parla a nome dei profughi. È un punto essenziale. Questi uomini che sono passati dal triangolo che ho menzionato, Gaza/Il Cairo/Kuwait, chiameranno alla lotta armata a partire da Beirut, che non è uno dei luoghi in cui hanno socializzato, né dove sono presenti negli anni cinquanta. Ma in Libano c’è una popolazione civile rifugiata di cui una maggioranza si trova insediata in una dozzina di campi. È da Beirut difatti che è lanciata per la prima volta nel 1961, in un organo politico che si chiama Filastinuna (“La Nostra Palestina”), un appello, non ancora alla lotta armata che comincerà solo alcuni anni più tardi, ma a prendere in qualche modo in mano il proprio destino. Questo appello è indirizzato ai rifugiati dai recenti fondatori del Fatah che sono ancora degli uomini poco conosciuti e in larga misura clandestini. Fanno appello ai “figli della Nakba” affinché si sollevino e riprendano in mano il loro destino.

Il discorso ufficiale del Fatah lucrerà sull’idea in larga parte falsa (ma poco importa, tutti gli slogan di mobilitazione sono falsi) che i profughi sono “una nuova classe”. È una visione ideologica che consiste nel provare a mostrare che, in fondo, non ci sono più gli operai, i contadini, la classe media, la borghesia, che non ci sono più gruppi sociali perché l’esodo del 1948 ha in qualche modo assottigliato queste differenze sociali e che c’è un gruppo nuovo, inedito, non diviso da sfaldamenti, dai conflitti di classe, e che si chiama gruppo dei profughi. E’ evidentemente falso, ma si tratta di mobilitare sullo spodestamento che è stato effettivamente, a gradi diversi, un’esperienza comune a tutti i gruppi sociali. Tuttavia è chiaro che c’è un mondo di differenza tra l’alto borghese di Jaffa o di Haifa che è partito fin dal dicembre 1947 o gennaio 1948 per esempio, e la massa della classe contadina che partirà dopo il mese di maggio 1948 in piena guerra, cacciata in generale dai combattimenti, o dalle politiche israeliane di espulsione, o da entrambi. Non è lo stesso spossessamento. La borghesia palestinese ha potuto trasferire (tutto ciò richiede delle gradazioni) dei capitali, ma anche un capitale di relazioni familiari nelle altre città del Vicino-Oriente, ciò che non è necessariamente il caso del contadino della Galilea. Dunque l’esodo non appiana tutte le differenze. Ci sono del resto degli esodi, e delle mobilità divergenti dopo l’esodo. Ma dal punto di vista politico, in termini di mobilitazione, l’idea è che “noi siamo tutti dei profughi, abbiamo subito tutti il trauma dello spodestamento e dell’umiliazione”. In realtà è una specie di classe nuova di spossessati sulla quale capitalizzano questi movimenti per assicurare la loro mobilitazione.

Allora beninteso, questi movimenti, al primo posto dei quali il Fatah, pretendono ad una specie di principio assoluto, come se tutto cominciasse in quella fine degli anni cinquanta e soprattutto nel mezzo degli anni sessanta col lancio della lotta armata. Questa comincerà effettivamente nel gennaio 1965 secondo la storiografia ufficiale del Fatah, che ricorda che è il 1 gennaio 1965, nella notte del nuovo anno, che un primo obiettivo israeliano è preso di mira dalla prima operazione del commando.

Quindi in questa idea di principio assoluto figura sempre l’idea di rottura col passato, di rigetto delle élite che hanno perso la Palestina e di volontà di lavare l’umiliazione dello spodestamento, cioè dell’esodo e della perdita della terra.

La strategia della lotta armata.

La strategia che è messa in atto è una strategia di lotta con le armi. “Lotta armata” è un termine deliberatamente vago. Quando si studiano i testi dell’epoca, ci si accorge che c’è tutto un florilegio di altre terminologie che sono ora guerra popolare, ora guerra di partigiani, talvolta guerra di commando, talaltra guerriglia, e che in generale si passa spensieratamente, almeno nei circoli Fatah, dall’una all’altra senza mettervi granché di molto preciso o di molto diverso. Non è il caso per i movimenti marxisti o nazional-marxisti che ricordavo poc’anzi e che riprendono, direi, una terminologia marxisteggiante degli anni terzo-mondisti, che conserva, almeno nel discorso, un certo rigore ideologico. Nel Fatah, tutto questo è pressappoco la stessa cosa ed in fondo l’importante è prendere un fucile per liberare la Palestina, qualunque sia il tipo di lotta che si mette concretamente in opera sul campo.

È importante fermarsi un momento sulla questione fondamentale della scelta di questa strategia del Fatah. Ci sono evidentemente molte ragioni... Ne ho selezionate alcune che m’interessano di più o che considero, a torto o a ragione, come determinanti.

La prima ragione, mi sembra, era di ricostituire l’unità, non di una società tutta intera, ma di un campo politico propriamente palestinese, cioè di un campo politico “palestinese” e non “arabo”. In altri termini, la lotta armata è uno dei mezzi per dis-arabizzare il conflitto contro Israele. Dearabizzare, intendiamoci, non totalmente, ma per togliere, o tentare di togliere, o cominciare a togliere ai regimi politici arabi la causa palestinese.

Per comprendere il seguito, è necessario ritornare al mese del maggio 1964. Quando dico de-arabizzare la questione della Palestina e la causa palestinese, è perché dal 1948 e fino a metà degli anni sessanta, non c’è un vero movimento nazionale palestinese. Tutt’al più, ci sono quei piccoli gruppi che sono estremamente poco numerosi quantitativamente, minoritari, e in particolare prima della guerra del giugno 1967. Sono una manciata di uomini, alcune centinaia di militanti. Nel 1967, dopo la disfatta sferzante dei regimi arabi e la scossa dell’ideologia nazionalista araba che è consecutiva a questa faccenda, è chiaro che gli effettivi vanno brutalmente ad aumentare, passando da un centinaio alle migliaia.

Dunque tra il 1948 ed la metà degli anni sessanta, non esiste un movimento nazionale palestinese e la questione della Palestina è nelle mani dei regimi arabi, in particolare di quei regimi che si riallacciano anche all’ideologia nazionalista araba (l’Egitto di Nasser, la Siria baathista, l’Iraq del Baath, ecc.). Dunque, messi da parte la Giordania ed i paesi del Golfo, le élite in carica negli altri paesi rivendicano il nazionalismo arabo esse stesse, e vanno in qualche modo a strumentalizzare il sostegno, in larga parte retorico, alla causa palestinese come argomento di legittimità interna nel loro stesso paese. Questo argomento della legittimità interna servirà loro altresì in una specie di battaglia per il potere regionale. Ed è proprio ciò che spiega la nascita dell’OLP nel 1964. Difatti, parecchi paesi sono in competizione per sapere quale sarà la potestà regionale intorno alla quale andrà a cristallizzarsi l’unità della futura grande nazione araba. Tra i competitori, ce ne sono almeno due estremamente importanti all’inizio degli anni sessanta: l’Egitto di Nasser, chiaramente leader del campo nazionalista arabo, ma anche l’Iraq post-rivoluzione del 1958, che ha rovesciato la monarchia hascimita infeudata ai Britannici e l’ha sostituita con un regime militare alla testa del quale si trova in un primo momento il colonnello Qassem, il quale opererà un rilancio terribile al sostegno della causa palestinese a partire dal 1959. Bisogna sapere che la prima unità militare palestinese all’origine dell’ALP [o ELP, Armata/Esercito di liberazione della Palestina, ndt], è stata creata a Bagdad da Qassem nel 1959, addirittura prima che ci fosse una OLP. Questa unità militare non ha strettamente niente a che vedere coi piccoli commando tipo Fatah e gli altri gruppi. Ciò indica che c’è un rilancio nazionalista arabo manipolato dai vari regimi a fini di legittimità interna e di dominio regionale.

Nel 1959, l’Egitto risponde a questi rilanci iracheni, particolarmente spingendo la Lega degli Stati arabi ad adottare il principio - è la prima tappa di ciò che diventerà la creazione dell’OLP - di un’entità palestinese (kiyân). È la stessa parola che si adopera nel discorso palestinese per dire entità sionista. Ma “Kiyân” è tutto tranne qualcosa di concreto, è giusto per non dire Stato. È una sorta di spazio istituzionale all’interno delle relazioni inter-arabiche, se si vuole. Non c’è nessuna autonomia palestinese in questa iniziativa.

L’opportunità immediata che farà passare dal “Kiyân” del 1959 alla creazione della prima OLP (quella del 1964) si trova in tutta una serie di tentativi israeliani il cui “coronamento” è, nel 1963, il tentativo di deviare, almeno in parte, le sorgenti del Giordano. Nel 1963, il programma di deviazione delle sorgenti del Giordano da parte d’Israele raggiunge il punto di non ritorno che esige una reazione araba. Prenderà la forma del primo vertice arabo. È contro il progetto di deviazione delle acque del Giordano che nascerà una nuova forma di istituzione che è quella del “Summit arabico", vertice dei capi di Stato arabi. Questo primo meeting si riunisce in Egitto sotto la guida di Nasser, nel gennaio 1964. Prenderà ovviamente una serie di decisioni legate all’affare del Giordano e creerà un comando arabo unificato che servirà successivamente nella guerra del 1967, ma pure, per ciò che c’interessa, deciderà quindi della creazione dell’OLP. La prima OLP, l’OLP pro-arabica se volete, l’OLP dei notabili dice qualcuno, l’OLP diretta dal troppo famoso Ahmad Chukeyri, un Palestinese è vero, ma che ha avuto una carriera araba, il che vuol dire che è stato al servizio di svariati regimi arabi, per esempio come rappresentante dell’Arabia Saudita all’ONU, e che ha detto delle frasi poco felici sul rigettare gli Ebrei a mare che l’hanno reso tristemente celebre, o al contrario che gli hanno assicurato una gloria immortale agli occhi di certuni.

Comunque sia, ciò che m’interessa al di là della persona di Chukeyri, è l’idea che non è quindi una OLP palestinese se vi pare: è una OLP di notabili, sostenuta dai regimi nazionalisti arabi. Il progetto della sua creazione nasce al summit arabo di gennaio, ma sarà creata in un’altra riunione, nel maggio 1964, a Gerusalemme, la Gerusalemme giordana dell’epoca, e sotto l’alta presidenza del re Hussein di Giordania. La creazione dell’OLP è anche una sfida alla Giordania. È una sfida di Nasser alla Giordania. Comincia lì a porsi un problema che non troverà la sua risoluzione che nel sangue delle vie di Amman nel 1970 e sulle montagne del Nord della Giordania nel 1971: è la questione cruciale della rappresentazione legittima dei Palestinesi della Cisgiordania. È l’OLP all’epoca in cui noi ci poniamo che è ugualmente palestinese, anche se sono dei Palestinesi sotto tutela araba, o è il re Hussein di Giordania poiché, dopo tutto, la Cisgiordania all’epoca è parte integrante del territorio giordano dal 1950? Questa domanda non smetterà di porsi come si vedrà in seguito.

La scelta della lotta armata si spiega dunque per due ragioni: • si trattava di ristrutturare una sfera politica palestinese in qualche modo disarabizzata, per togliere agli Stati arabi la questione palestinese che essi manipolano tramite l’OLP del 1964 (prima l’hanno manipolata diversamente, ma in ultima istanza attraverso l’OLP del 1964), per rendere ai Palestinesi la propria battaglia civica; • la scelta della lotta armata poggia anche su ciò che mi piace chiamare un culto dell’azione per se stessa. All’epoca in cui preparavo la mia tesi, ho fatto un certo numero di colloqui coi leader e coi quadri superiori e medi, si dirà, delle organizzazioni palestinesi dell’epoca. Poco dopo, all’inizio degli anni settanta, la lotta armata aveva cinque o sei anni. Ciò che mi aveva colpito molto era il culto dell’azione di per sé. Il discorso girava intorno a: “Noi si agisce, non si parla”. Detto diversamente, era la reazione contro le retoriche arabe e si ritrova il punto precedente che è legato a questo, beninteso, dei discorsi di liberazione che sono effettivamente strumentalizzati e non sboccano su nessuna azione concreta. Noi non abbiamo grandi discorsi e seminiamo fatti concreti; e per di più fatti concreti che non sono semplicemente destinati ad essere il pendant di una retorica araba vuota ed inefficace, ma che sono anche dei fatti che cercano di mostrare al mondo che esistiamo. È un discorso permanente, ossia porre sul piano regionale ed internazionale l’esistenza del popolo palestinese che vi fa slittare, per riprendere la terminologia ufficiale, da “profughi” a “popolo”, il che non è necessariamente la stessa cosa.

Di colpo si è sviluppata una vera mistica della lotta armata, della lotta armata per se stessa, indipendentemente dai suoi obiettivi. Ciò consiste nel considerare che non si avevano obiettivi molto chiari, se non di impugnare le armi per affermarsi. Era quasi nell’ordine del: “Prendo le armi dunque sono”.

Per suscitare istanze su paragoni con la questione della lotta armata oggi, si constata che ci sono molte differenze e molti punti comuni. Ci sono forse oggi più progetti politici di quanti non ce ne fossero all’epoca, ma resta il fatto che c’è una componente comune della lotta armata come affermazione esistenziale ed in certi ambienti oggi in Palestina, la lotta armata come affermazione a partire da una disperazione e non come affermazione sacrificale (gli attentati suicidi, i kamikaze, ecc.). Il concime è quello della disperazione, sotto ogni aspetto, ma non per questo lo è necessariamente del suicidio; è un’affermazione, la sola che resta loro.

Ritorno agli anni sessanta per dire che c’era questa fortissima dimensione dell’azione fine a sé stessa, l’affermazione esistenziale che era necessariamente dell’ordine della redenzione. Adopero volontariamente questo termine che non è affatto una ricerca da parte mia, ma è quasi la traduzione letterale della parola “feddayin”: è il redentore, colui che si sacrifica per salvare il mondo, per salvare la comunità. L’idea di redenzione non è dunque sovraccaricata di interpretazioni esterne; è consustanziale alla terminologia ed allo spirito dell’insieme di questa lotta armata. La lotta armata è davvero il mezzo per eccellenza per ribaltare, direi, la figura negativa del profugo umiliato, ferito, spossessato, che non è più niente, in figura di combattente, cioè in una figura positiva che prende le armi per lavare la sua umiliazione e per esistere di nuovo.

La lotta armata palestinese, che è lanciata negli anni sessanta, s’iscrive in una filiazione storica. Non si è qui nella rottura col pre-1948; si è in una filiazione storica palestinese, quella dei movimenti di Qassam nel mezzo degli anni trenta in Palestina che è stato il primo movimento (o uno dei primi) che abbia lanciato il primo tentativo di lotta armata nel 1934-35, alla vigilia di ciò che diventerà la cosiddetta grande rivolta araba dal 1936 al 1939, che si manifesterà con una specie di guerriglia rurale che durerà fino allo scoppio della Seconda Guerra mondiale. Il Fatah ha d’altronde rischiato di chiamarsi “brigata Qassam”, “movimento Qassam”. Ciò è tanto più straordinario visto che oggi le brigate Qassam sono il braccio armato di Hamas. Questo invece non è per niente sorprendente: la componente che si chiama oggi islamo-nazionalista (il che è la migliore definizione che si possa trovare di ciò che rappresenta il movimento Hamas oggi) non è affatto lontana dallo spirito del fondatore del Fatah negli anni sessanta. E del resto, il fatto che una sua frazione significativa provenga dai Fratelli Musulmani chiude il cerchio.

Qassam è rivendicato al tempo stesso dai movimenti islamici e dal movimento Fatah, e si pone in questa genealogia di lotta armata propriamente palestinese che è il movimento degli anni trenta.

Il progetto di liberazione fondato sulla memoria della terra perduta.

È quindi una nuova élite politica che parla a nome dei profughi, che sceglie una strategia di lotta armata in nome di un progetto di liberazione fondato sulla memoria della terra persa. Ciò ha l’aria di essere un’ovvietà, una banalità, eppure è qualcosa di più interessante. Bisognerebbe potervi spiegare quali sono i contenuti di questa memoria della terra ed è più complicato di quanto sembri. In due parole semplicemente. La memoria della terra perduta è qualche cosa che emerge in maniera molto evidente nel discorso dei profughi negli anni cinquanta ed ancora oggi con molte differenze, a seconda che si debbano fare delle inchieste della prima generazione (quelli che hanno vissuto l’esodo), della seconda, o perfino della terza. Esiste un’enorme letteratura sulla storia orale palestinese che si è accumulata da trenta o quaranta anni e che fa comparire nel discorso dei profughi questa onnipresenza schiacciante della memoria della terra persa. Se si guarda un po’ più da vicino come questa si esprime, si è colpiti, per esempio, per il fatto che non è tanto, come si potrebbe pensare, una terra madre e nutritiva, altrimenti detta la terra dei contadini, che dà frutti e fecondità, ma piuttosto la terra come supporto dei gruppi umani, degli antenati, della genealogia, degli uomini che si sono succeduti attraverso le generazioni. È la terra della comunità paesana come interazione tra gli uomini che, oltre alla solidarietà di parentela che è la prima, hanno anche una solidarietà di vicinato all’interno del villaggio. Questo è fondamentale, poiché i campi palestinesi si sono tutti organizzati - tutti gli studi lo dimostrano - secondo le linee di solidarietà della parentela dapprima, del villaggio di origine poi, che hanno creato come delle specie di isolotti giustapposti nei campi. Dietro la parola terra, c’è meno il suolo come semplice supporto che non gli uomini su questo suolo; uomini che, per generazioni successive risalenti ad un tempo immemorabile, si sono succeduti e che sono legati dai legami di parentela e di vicinato al tempo stesso. Beninteso, ciò richiederebbe di essere sviluppato ulteriormente.

Nel discorso dei profughi, si trova un’altra dimensione della terra: la terra come paradiso perduto, come età d’oro del passato con una specie di arcadia bucolica. Si ritrova qui l’abbondanza dei frutti della terra, delle sorgenti, della bellezza del villaggio, ecc., con un certo numero di temi che sono diventati dei luoghi comuni, degli stereotipi di cui, in effetti, non si sa molto bene da dove vengano, perché ritornano in modo estremamente ripetitivo con una stessa forma sul piano lessicale e narrativo.

Il paradiso perduto, l’età d’oro, colloca allora maggiormente la terra nel tempo. Questo è tanto, se non più, un tempo passato che uno spazio perso. È la nostalgia di un momento, di un’epoca, di un modo appunto immemorabile di vivere e di entrare in relazioni gli uni con gli altri.

Ma come tutte le memorie, anche questa non è che una memoria spontanea. Vi si trovano, difatti, le stesse tematiche, fino agli stereotipi. È una memoria abbondantemente ricostruita. È una memoria collettiva, il che non vuol dire che non ci siano delle varianti individuali, che non ci siano forme di individualità della memoria che hanno fecondato quella collettiva. Ma come distinguere l’una dall’altra, come si realizza questa articolazione tra l’individuale ed il collettivo nell’ambito della memoria?

Questa memoria è pure passata per il filtro e la mediazione del discorso del movimento nazionale. Qual è dunque la parte di “spontaneità” di questa memoria, e qual è la parte che è ricostruita intorno ad un certo numero di tematiche di mobilitazione che sono poi state quelle del movimento nazionale negli anni sessanta? Per esempio, l’idea che i Palestinesi, i profughi della Palestina, s’identificano nella figura del contadino della Palestina: onnipresenza dei temi legati alla ruralità (ciò va dagli ulivi e dalle colline della Cisgiordania fino agli abiti ricamati delle donne e a tutto un modello di canzoni, di letteratura orale); tematica anche presente durante la prima Intifada con la valorizzazione del patriarcato, della cultura paesana in un momento in cui, in Cisgiordania, è da molto tempo che non ci sono più villaggi e pochissimi paesani che vivono unicamente della terra. Anche nel 1948, non c’erano solo i contadini, ma una folla di impiegati, di classi medie, di piccoli artigiani, ecc. Ciò significa che ci si trova in una specie di riduzione ideologica della realtà. Il movimento nazionale sceglie come segno di riconoscimento la kefiyyah, vale a dire il copricapo del contadino. Il movimento nazionale degli anni sessanta non inventa il kefiah del contadino come emblema nazionale della lotta, lo riprende dai ribelli della rivolta del 1936. Ma ciò che è molto interessante è che i ribelli del 1936, e soprattutto degli anni che seguono, non l’utilizzano solamente come si riutilizza un simbolo contadino, ma come emblema di una classe contadina militante, ossia come il vessillo della rivolta contadina. Nel 1939, per esempio, investono Jaffa ed obbligano i notabili della città (quelli che non sono stati scacciati dalla paura) a togliere il fez e a sostituirlo col kefiah. In altre parole, la kefiah ha una connotazione di lotta sociale estremamente forte nel 1938-39. Quando l’OLP riprende per conto suo questo emblema, ne fa il simbolo di una specie di contadino disincarnato socialmente - e neanche più protagonista della lotta sociale - che è diventato la metafora dell’intero popolo palestinese. C’è dunque una ricostruzione della memoria che è diffusamente dovuta al movimento nazionale, per esempio intorno all’archetipo del contadino, che è svuotato del suo contenuto sociale e che è sicuramente molto riduttivo rispetto alla ricchezza delle memorie palestinesi dei profughi.

La formazione della seconda OLP.

Abbastanza rapidamente, i gruppi armati Fatah, Fronte popolare, Fronte democratico ed altri vanno ad investire l’OLP del 1964 dall’interno. A partire dal 1968-69, tra i due Consigli nazionali palestinesi del 1968 e del 1969, sorge la seconda OLP, con alla sua testa, a partire dal febbraio 1969, Yasser Arafat in qualità di segretario generale. È un investimento della struttura istituzionale OLP prima versione, una sovversione interna attraverso gli uomini dei commando. L’OLP del 1964 aveva un timor panico di essere sopraffatta dai suoi stessi attivisti e, in un certo senso, quei nuovi attivisti, avevano interesse ad integrarsi in una struttura già esistente che era una specie di ombrello catalizzatore sotto cui si raccoglieva l’insieme dei gruppi. Questa integrazione dei commando che prendono in carica l’OLP dall’interno, è importante perché allo stesso tempo afferma di mettere in atto d’ora in poi un raggruppamento nazionale che è dunque federato sotto un ombrello unico; ma l’OLP è anche una coalizione di gruppi che lungo tutta la loro storia proveranno a trovare un equilibrio fondato su dei rapporti di forza, seppure con un’egemonia Fatah sugli altri gruppi che sarà denunciata continuamente dagli altri, con tutta una serie di lotte interne di correnti che però non hanno mai portato, prima degli anni ’80, a liquidazioni fisiche, a differenza del FLN [Fronte di liberazione nazionale, ndt] algerino per esempio. L’OLP è un movimento pieno di rivalità tra gruppi che non sono mai riusciti ad unificare le loro forze armate, il che vuol dire che l’iniziativa di lanciare un’azione di commando è o Fatah, o FP, o FD, e non OLP. Allora, da un lato si manterranno le brigate dell’Armata/esercito di liberazione della Palestina che dipende dall’OLP, e dall’altro lato c’è una serie di gruppi dipendenti ciascuno da uno Stato Maggiore distinto, federati in una OLP che ha peraltro una vita istituzionale reale, ma che è divisa dall’interno e sempre in equilibrio-squilibrio, nel rapporto di forze interno, ma senza violenze fisiche.

Il progetto di liberazione che è messo in atto e che si può seguire attraverso i testi (cf. carta dell’OLP del 1964, carta rimaneggiata del 1968, programma detto “programma in sette punti” del 1969 del Fatah che a partire dal 1969 diventerà del resto il nuovo programma OLP noto sotto il nome di Programma dello Stato democratico), non è un vero progetto di riconquista territoriale. Anche se si tratta di liberare la terra della Palestina dal Giordano fino al mare - in qualche modo tutta la Palestina del 1948 -l’obiettivo principale della mobilitazione attraverso la lotta armata non è veramente un progetto territorializzato. Si tratta di un progetto di liberazione, cioè un progetto di ritorno allo statu quo ante, altrimenti detto di eliminazione del sionismo, per ritornare ad una Palestina precedente. Allora precedente a che cosa? Forse non solo immediatamente anteriore al 1948. La carta del 1968 parla di “prima dell’invasione sionista”. Ma quando comincia l’invasione sionista? Nel 1948, nel 1917 (dichiarazione Balfour), oppure con la prima alya nel 1880-82? Quindi questo progetto di liberazione è un progetto di ritorno in qualche modo allo statu quo ante ed è l’assenza di un progetto politico chiaro sulla lotta per uno Stato, per esempio su un territorio dato. Le parole autodeterminazione e sovranità, non figurano nella carta del 1964; figurano, in maniera allusiva e senza precisazioni sulla natura dello Stato che si vuole costruire, nella carta del 1968; e non figurano per niente nel progetto del 1969.

Il programma del 1969 mi sembra essere tuttavia una tappa fondamentale; programma, questo, detto dello Stato democratico (la parola è pessima perché, come ho appena detto, non si fanno progetti di Stato). Dietro il termine Stato, non è dawla che risulta, ma mugtama’ (società), il che non è affatto la stessa cosa. Ma è tuttavia una svolta verso qualcosa che sarà indirizzato poco a poco negli anni a venire verso un progetto di Stato territorializzato in Palestina.

Questo progetto è importante perché pone, per la prima volta nella storia del movimento nazionale palestinese post-1948, una differenza netta tra Ebrei e sionisti, dicendo: “Noi non combattiamo gli Ebrei come comunità etnica e religiosa, noi combattiamo il sionismo”. Questo pone un altro problema, quello di “de-sionizzare” gli Ebrei d’Israele... dibattito centrale di cui non parlerò per mancanza di tempo.

Il secondo elemento importante di questo progetto è il modo di porre una società, questa volta non del passato (ritorno allo statu quo ante), ma dell’avvenire, affermando che “Noi vogliamo costruire una società (non uno Stato), in cui musulmani, cristiani e giudei (utilizzando definizioni confessionali o comunitarie) vivrebbero insieme, ecc.”. È ciò che si chiama a torto il progetto di Stato democratico. Era la volontà di creare a termine (alla fine del progetto di liberazione) una società (non uno Stato) multiconfessionale piuttosto che binazionale.

Su questo, un altro movimento palestinese, il Fronte democratico di liberazione della Palestina, ha prodotto un altro progetto che assottiglia il precedente, che si vuole non come un progetto multiconfessionale ma binazionale, ma che in effetti non riflette molto sulla binazionalità, giacché la pone in una specie di orizzonte molto utopico che è quello della grande nazione araba socialista che nascerà un giorno e nel quale, in fondo, le potestà nazionali non avranno più senso.

Dunque si è in entrambi i casi, a livelli completamente differenti, in una specie di utopia che non definisce un progetto estremamente preciso, né per il Fatah, né per il Fronte democratico.

Ma affinché questo progetto diventi un vero programma politico, un programma di riconquista di un territorio, bisogna considerare la differenza fondamentale tra due parole: terra e territorio. Fino ad ora si è parlato solamente della terra, adesso si parlerà di territorio. Il progetto di liberazione prima del 1969 è tipicamente un progetto di liberazione della terra; si tratta della nostalgia della terra, di una terra vissuta, ancestrale, ecc., con la quale si ha un legame immemorabile. Ma quando si parla di territorio, si va ad impiegarlo come base di una comunità politica che, di fatto, prenderà normalmente la forma di uno Stato. È dunque gradualmente dopo il 1969 che si passerà dal progetto di liberazione della terra ad un progetto di costruzione di un Stato.

Ma come volete aspirare ad un territorio se ne siete radicalmente e fisicamente esclusi? Come volete riappropriarvi di un territorio quando ne siete esclusi? La grande debolezza storica oggettiva di questo movimento nazionale è che si è costruito al di fuori del suo territorio. Ecco la sua grande debolezza; è congenita, è drammatica. Dipende dai regimi arabi per il territorio, per una parte del suo finanziamento, per un sostegno eventualmente diplomatico e politico: è nella dipendenza totale degli Stati arabi. Non immaginate che si sarebbe potuta costruire una tale istituzionalizzazione dell’OLP negli anni settanta a Beirut, un tipo di Stato nello Stato, un embrione di Stato sul territorio libanese, un’enclave quasi extra-territoriale, ma effettivamente con dei veri dipartimenti quasi ministeriali, una burocrazia se si vuole, un’amministrazione, senza il denaro del petrolio, dunque il denaro arabo.

Dunque debolezza congenita di un movimento che non controlla il suo territorio, che è dipendente dalle risorse territoriali, finanziarie, diplomatiche degli Stati della regione e che offre dei programmi utopici di riconquista di una Palestina sulla quale non ci si trova e su una frazione della quale c’è qualcun altro: il re Hussein di Giordania. C’è ugualmente una cosa che colpisce molto: l’OLP diretta da Yasser Arafat dopo il 1969 non pone rivendicazioni esplicite sulla Cisgiordania prima dei primi anni del decennio settanta (tra il 1971 e il 1973). La ragione fondamentale è che ciò avrebbe significato entrare in conflitto immediato con la Giordania. Il conflitto del 1970-1971, appunto tra l’OLP e la Giordania, è un doppio conflitto: è un conflitto di sovranità (lo Stato nello Stato, anche qui come in Libano più tardi), ma soprattutto un conflitto intorno alla rappresentazione legittima dei Palestinesi di Cisgiordania tra Yasser Arafat o il re Hussein. È questo dibattito che si rompe nel sangue delle vie di Amman nel settembre 1970.

Allora come si passa dal programma del 1969 a quello successivo che è la grande svolta strategica del 1974? Il Consiglio nazionale palestinese si doterà di un progetto di installazione di una “autorità nazionale combattente” (è la traduzione più letterale che ci sia) su ogni parte o frazione del territorio liberato. È una svolta strategica perché ciò vuole dire (senza dirlo chiaramente perché la base dei militanti non l’accetterebbe, persino nel Fatah, e a maggior ragione nelle organizzazioni più radicali come il FPLP e gli altri) che non ci si pone più come obiettivo di liberare tutta la Palestina, quella del 1948, ma solamente i territori occupati dal 1967. Non si dice Stato ma “Autorità nazionale” (si dice ancora oggi, si adoperano esattamente le stesse terminologie), e soprattutto “combattente”, che vuole dire che non ci si limiterà. Se c’è una prima autorità insediata in Cisgiordania, non è perché si è rinunciato alla Palestina del 1948, ma perché si farà della Cisgiordania palestinese un punto di appoggio per continuare la lotta per liberare il resto del territorio. Ma tra il 1974, data di adozione di questo programma da parte dell’istituzione dirigente dell’OLP, e il 1977, si passerà in modo più o meno surrettizio all’accettazione, questa volta, della creazione (sempre come progetto) di uno Stato. Questa volta si è passati da “Autorità nazionale combattente” a “Stato”. Non si dice ancora chiaramente sulla Cisgiordania e Gaza, o sui territori occupati, si dice sempre su una frazione di territori occupati, ma è in quel momento chiaro per tutti che si parla decisamente dei territori occupati nel 1967, e di quelli soltanto, e di fatto non si dice più molto spesso quale sarà il secondo tempo, cioè la liberazione del resto della Palestina. Si resta in una specie di silenzio implicito.

Ma non bisogna credere ad una storia lineare: 1963, 1964, 1969, 1974, perché ogni evoluzione e ciascuna di queste svolte strategiche provocano una frattura nell’OLP. Nel 1974, i movimenti dell’ala detta radicale respingono il programma, abbandonano un certo numero di strutture dell’OLP e formano il cosiddetto “fronte del rifiuto” che ricusa questa evoluzione.

Allora in due parole, perché questa svolta strategica del 1974, che si pagherà al prezzo di una prima frattura interna all’OLP (ce ne saranno in seguito molto altre)? Ebbene perché siamo all’indomani della guerra dell’ottobre 1973 che era una semi-vittoria araba, ed in particolare egiziana. La guerra era stata voluta dall’Egitto per uscirsene dal conflitto arabo-israeliano. La cronologia è chiara: guerra del 1973, disimpegno egizio-israeliano nel Sinai nel 1974-75, viaggio di Sadat a Gerusalemme nel 1977, accordi di Camp David nel 1978, pace israelo-egiziana nel 1979.

La guerra del 1973 è scatenata dall’Egitto per finirla col conflitto arabo-israeliano, dicendo che gli Egiziani si sono fatti uccidere abbastanza per la Palestina e che l’Egitto ha bisogno delle sue risorse per svilupparsi. È fondamentale perché non potrà mai più esserci una guerra convenzionale arabo-israeliana da quando l’Egitto si è ritirato. La Siria è fin troppo prammatica e prudente per avere mai tentato da allora una nuova guerra direttamente contro Israele. Il ritiro dell’Egitto è dunque fondamentale e, in maniera generica, il ricatto che è fatto all’OLP dopo il 1973 è evidente e condurrà alla svolta del 1974. Si tratta grossomodo di monetizzare l’integrazione dell’OLP, come attore in qualche modo normalizzato, nel concerto inter-arabico e in quello internazionale (il 1974 coincide col famoso discorso di Yasser Arafat all’ONU con al contempo la pistola nel cinturone e il ramo di olivo in mano). Il 1974 è infatti l’inizio della normalizzazione dell’OLP, al contempo regionale ed internazionale, ma il prezzo da pagare è il realismo, il pragmatismo politico, la svolta strategica del 1974, l’accettazione di incentrare il progetto sulla costruzione, questa volta territorializzata, di un futuro Stato nei limiti di una Palestina occupata nel 1967.

Vorrei segnalare anche, senza approfondire, che tra le pressioni che si sono esercitate, non bisognerebbe trascurare quelle palestinesi venute dall’interno, dalla Cisgiordania in particolare e specialmente da un organo che si chiamava Fronte nazionale palestinese (FNP) che era composto da tutta una serie di personalità, alcune membri dei gruppi dell’OLP, venute da dentro i territori, che erano molto influenzate dal Partito comunista palestinese dell’epoca e che sono degli uomini che hanno spinto l’OLP a cambiare strategia e ad entrare nel processo politico e diplomatico. Hanno cioè incalzato l’OLP perché piegasse il suo programma.

Per questa evoluzione verso un certo pragmatismo ci sono dunque la pressione internazionale, la pressione araba e la pressione venuta dall’interno dei territori.

All’inizio degli anni ’80, la strategia di lotta armata diventerà semplicemente del tutto obsoleta perché impossibile praticamente da mettere in opera, evidentemente a causa di un altro grande momento che è il 1982: l’invasione israeliana del Libano seguita dall’espulsione, al termine di quel terribile assedio allo Stato Maggiore palestinese di Beirut nell’estate del 1982, da parte dell’esercito israeliano. È la dispersione ai quattro angoli del mondo arabo (Algeria, Yemen, Tunisia). Non è più possibile nessuna lotta attraverso le frontiere, poiché si è a centinaia o a migliaia di chilometri dalle frontiere israeliane. È quindi un fattore fondamentale, che fa che l’abbandono della lotta armata venga consacrato di fatto da questo esilio lontano dalle frontiere, che sarà visibilmente sancito dalle nuove fratture interne all’OLP: esplosione del Fatah nel 1983 sul suolo del Libano per quelli che vi sono restati, frantumazione dell’OLP con la nascita di due gruppi che si chiameranno successivamente Alleanza nazionale (cliente di Damasco) ed Alleanza democratica (la vecchia corrente radicale dell’OLP) che si uniranno nel 1985 nel Fronte di salvezza nazionale palestinese, ostile alla direzione centrale, alle concessioni, a quella che, per loro, è una capitolazione. Durante gli anni ’80, la linea di frattura continua dunque incessantemente in seno all’OLP. Gli anni ’80, rappresentano lo scoppio interno: è la traversata del deserto che spesso si dimentica.

Che cosa salverà l’OLP e chi permetterà di rifondarsi concretamente, e non solo simbolicamente, su una territorialità palestinese? È evidentemente l’Intifada, vale a dire qualcosa che parte dall’interno e non dall’esterno (ciò non significa che sia fuori dall’OLP). L’Intifada è lanciata nel dicembre 1987 dagli uomini del Fronte democratico di liberazione della Palestina, secondariamente dagli uomini del Fatah, ma dall’interno. In un primissimo tempo non hanno preso le loro parole d’ordine a Tunisi. È un’iniziativa interna che prenderà un’estensione importante che passerà da una mobilitazione civile di massa della popolazione palestinese, per tutta una serie di esperienze innovative di lotta pacifica (non armata), con una degenerazione finale, all’inizio degli anni ’90, verso forme di gruppi armati che vanno a sostituirsi alla mobilitazione civile. L’Intifada ha un progetto politico chiaro: fine dell’occupazione del territorio da parte degli Israeliani ed autodeterminazione nazionale.

Ma “l’interno” continua ad avere bisogno dell’“esterno”, perché scatenare il movimento è una cosa, assicurarne la sopravvivenza è già un’altra. Inoltre, solo l’OLP poteva conferirgli una ripercussione internazionale con le sue strutture esterne ed anche un progetto credibile di costruzione dello Stato.

Al diciannovesimo Consiglio nazionale palestinese, riunito ad Algeri nel novembre 1988, sarà presa una decisione storica, fondamentale: la riconoscenza implicita, semi-implicita, semi-esplicita, di Israele da parte dell’OLP che sarà esplicitata un mese e mezzo più tardi a Ginevra, davanti all’assemblea generale delle Nazioni unite, e che sarà chiaramente integrata da una dichiarazione simbolica di indipendenza dello Stato della Palestina. Tutti questi eventi rispondono a qualcosa di estremamente preciso: fondamentalmente sono di certo la traduzione politica dell’Intifada, ma concretamente, la causa immediata è l’annunciodella rottura dei legami amministrativi e giuridici tra la Transgiordania e le Cisgiordania, nel discorso del re Hussein del 30 luglio 1988. Ed a partire da questo momento c’è un enorme pericolo: è il vuoto politico in Cisgiordania. La Giordania sta così sempre sull’iniziativa nel 1974 e nel 1988.

Il movimento nazionale palestinese non ha smesso di essere un movimento reattivo, che reagisce contro, che si pone rispetto alle iniziative che vengono dall’esterno, siano esse israeliane, ma anche arabe, egiziane, giordane, siriane...

DOCUMENTI ANNESSI

Carta nazionale palestinese del 1964 (passi scelti).

La prima carta dell’OLP è adottata il 2 giugno 1964, a Gerusalemme, durante il primo Consiglio nazionale palestinese (CNP). Definisce gli obiettivi del movimento palestinese: appartenenza al mondo arabo, liberazione della Palestina, autodeterminazione e diritto dei Palestinesi alla sovranità sulla loro patria. La dichiarazione Balfour e la creazione di Israele sono denunciate, ma è affermata la coesistenza con gli ebrei viventi in Palestina prima del 1947.

1. La Palestina è una terra araba unita da stretti legami nazionali agli altri paesi arabi. Tutti insieme, formano la grande nazione araba.
2. La Palestina con le sue frontiere dell’epoca del mandato britannico costituisce un’unità regionale indivisibile.
3. Il popolo arabo della Palestina ha il diritto legittimo alla sua patria. E’ una parte inseparabile della nazione araba. Condivide le sofferenze e le aspirazioni della nazione araba e la sua lotta per la libertà, la sovranità, il progresso e l’unità.
4. Il popolo della Palestina determinerà il suo destino quando avrà compiuto la liberazione della sua patria in accordo col suo proprio desiderio, la sua libera volontà e la sua libera scelta.
5. La personalità palestinese è una caratteristica permanente ed autentica che non sparisce. Si trasmette di padre in figlio.
6. I Palestinesi sono i cittadini arabi che hanno normalmente vissuto in Palestina fino al 1947, che siano rimasti o che siano stati espulsi. Ogni bambino nato da genitori palestinesi dopo questa data, o in Palestina stessa, o all’infuori, è un Palestinese.
7. Gli ebrei di origine palestinese sono considerati come Palestinesi purché vogliano vivere pacificamente e lealmente in Palestina. [... ]
12. L’unità araba ed la liberazione della Palestina sono due obiettivi complementari. Ciascuno di essi aiuta a realizzare l’altro. L’unità araba conduce alla liberazione della Palestina, e la liberazione della Palestina conduce all’unità araba. Lavorare a questi due obiettivi deve andare di pari passo.
13. Il destino della nazione araba e l’essenza stessa dell’esistenza araba sono saldamente legati al destino della questione della Palestina. Lo sforzo e la lotta della nazione araba per liberare la Palestina si basano su questo legame profondo. Il popolo della Palestina assume un ruolo di avanguardia nella realizzazione di questo sacro obiettivo nazionale.
14. La liberazione della Palestina, da un punto di vista arabo, è un dovere nazionale. Questa responsabilità incombe sulla nazione araba tutta intera, governi e popoli, il popolo palestinese essendo in primo piano. A questo fine, la nazione araba deve mobilitare i suoi mezzi militari, spirituali e materiali. In particolare, deve dare tutto il sostegno e l’appoggio di cui dispone al popolo arabo palestinese e deve offrirgli tutte le opportunità ed i mezzi, permettendogli di assolvere al suo ruolo nella liberazione della sua patria.
15. La liberazione della Palestina, sul piano spirituale, annuncia, in terra santa, un’atmosfera di tranquillità e di pace, nella quale tutti i luoghi santi saranno protetti. La libertà di culto e di accesso sarà garantita a tutti, senza discriminazioni di razza, di colore, di lingua o di religione. Per tutte queste ragioni, il popolo palestinese si aspetta di avere il sostegno di tutte le forze spirituali del mondo. [... ]
17. La divisione della Palestina nel 1947 e la creazione d’Israele sono delle decisioni illegali ed artificiali qualunque sia il tempo trascorso, perché sono state contrarie alla volontà del popolo della Palestina ed al suo diritto naturale alla sua patria. Sono state prese in violazione dei principi fondamentali contenuti nella carta delle Nazioni unite, tra i quali figura al primo posto il diritto all’autodeterminazione.
18. La Dichiarazione Balfour, il mandato e tutto ciò che ne è risultato sono delle imposture. Le rivendicazioni a proposito dei legami storici e spirituali tra gli ebrei e la Palestina non sono conformi ai fatti storici o alle basi reali di uno Stato. Non è perché il giudaismo è una religione divina che esso genera una nazione che ha un’esistenza indipendente. Per di più, gli ebrei non formano un popolo dotato di una personalità indipendente perché sono cittadini dei paesi ai quali appartengono. [...]
24. Questa organizzazione non esercita nessuna sovranità regionale sulla riva occidentale del regno hascemita della Giordania, sulla striscia di Gaza o sulla regione di Himmah. Le sue attività saranno organizzate a livello nazionale popolare negli ambiti della liberazione, dell’organizzazione, della politica e delle finanze.
25. Questa organizzazione ha la responsabilità dell’azione del popolo della Palestina nella lotta di liberazione della patria per tutte le questioni concernenti la liberazione, l’organizzazione, la politica, e le finanze e per tutti gli altri bisogni della questione palestinese sul piano arabo e su quello internazionale.
26. L’organizzazione di liberazione coopera con tutti i governi arabi, secondo le possibilità di ciascuno, e non s’inserisce negli affari interni di nessuno Stato arabo. [...]
29. Questa carta non può essere emendata che con la maggioranza dei due terzi del Consiglio nazionale dell’Organizzazione di liberazione della Palestina in seduta speciale a questo fine.

(Fonte: Revue d’études pelestiniennes [Rivista di studi palestinesi], n° 14, inverno 1984, pp. 167-169)

Carta nazionale palestinese del 1968 (passi scelti).

Il terzo Consiglio nazionale palestinese emenda la Carta del 1964 ed adotta un nuovo testo che segna un inasprimento sotto l’influenza dei movimenti di guerriglia. Solo gli ebrei che vivevano in Palestina fino al 1917 potranno rimanere dopo la “liberazione totale”. D’altra parte, “la lotta armata è l’unica strada per la liberazione della Palestina”.

1. La Palestina, patria del popolo arabo palestinese, costituisce una parte inseparabile della grande patria araba, ed il popolo palestinese fa parta della nazione araba.
2. La Palestina, nelle frontiere del mandato britannico, costituisce un’unità territoriale indivisibile.
3. Solo il popolo palestinese ha dei diritti legittimi sulla sua patria. Dopo averla liberata, eserciterà il suo diritto all’autodeterminazione, secondo i suoi desideri e la sua sola volontà.
4. L’identità palestinese è una caratteristica autentica, intrinseca e perpetua. Si trasmette dai genitori ai figli. Né l’occupazione sionista, né la dispersione del popolo arabo palestinese che risulta dalle sofferenze che ha patito, possono cancellare questa identità palestinese.
5. I Palestinesi sono cittadini arabi che risiedevano abitualmente in Palestina fino al 1947, che siano stati costretti a partire o che siano rimasti. Ogni persona nata da genitori palestinesi dopo questa data, che sia in Palestina o fuori dalla Palestina, è palestinese.
6. Gli ebrei che risiedevano abitualmente in Palestina fino all’inizio dell’invasione sionista sono palestinesi.
7. L’identità palestinese ed i legami materiali, spirituali e storici con la Palestina sono realtà immutabili. È un dovere nazionale fare di ogni Palestinese un rivoluzionario arabo, dargli un’approfondita conoscenza spirituale e materiale della sua patria, e prepararlo alla lotta armata ed al sacrificio dei suoi beni e della sua vita per il recupero della sua patria. Tutti i mezzi disponibili di educazione e di informazione devono essere adoperati a questo fine, fino alla liberazione totale.
8. Il popolo palestinese attraversa attualmente la fase della lotta nazionale per la liberazione della sua patria. Per questa ragione, le divergenze tra le forze nazionali palestinesi devono passare in secondo piano per dare la precedenza alla contraddizione fondamentale che esiste tra il sionismo e l’imperialismo, da una parte, ed il popolo arabo palestinese, dall’altra. Su questa base, le masse palestinesi, tanto le organizzazioni quanto gli individui, che si trovino nella loro patria o nei luoghi dove vivono come profughi, formano un fronte nazionale unico che opera per il recupero e la liberazione della Palestina per mezzo della lotta armata.
9. La lotta armata è l’unica strada per la liberazione della Palestina. Si tratta di una linea strategica e non di una linea tattica. Il popolo arabo palestinese afferma la sua determinazione totale a condurre la lotta armata e a lanciare la rivoluzione popolare per la liberazione ed il ritorno nella sua patria. Afferma anche il suo diritto a condurre una vita normale in Palestina e ad esercitare il diritto all’autodeterminazione così come la sua sovranità.
10. L’azione dei commando costituisce il nocciolo della guerra popolare palestinese di liberazione. Ciò esige che l’azione dei commando sia intensificata, sviluppata e protetta e che tutto il potenziale disponibile palestinese, umano e tecnico, sia mobilizzato ed organizzato affinché giochi il suo ruolo nella rivoluzione palestinese armata. Ciò richiede anche l’unità tra i differenti gruppi che esistono in seno al popolo palestinese, così come l’unità tra il popolo palestinese e le masse arabe, per assicurare un rafforzamento continuo, poi la vittoria, della rivoluzione.
11. I Palestinesi avranno tre parole d’ordine: unità nazionale, mobilitazione nazionale e liberazione.
12. Il popolo arabo palestinese crede nell’unità araba. Per espletare il suo ruolo nella realizzazione di questa unità, deve, nella tappa attuale della sua lotta nazionale, salvaguardare la sua identità palestinese con tutto ciò che ciò implica, operare per avere una più grande consapevolezza di questa identità ed opporsi a tutto ciò che potrebbe indebolirla o farla sparire.
13. L’unità araba e la liberazione della Palestina sono due obiettivi complementari. Ciascuno di essi conduce alla realizzazione dell’altro. L’unità araba condurrà alla liberazione della Palestina, e la liberazione della Palestina condurrà all’unità araba. Operare in favore di una torna a vantaggio della realizzazione di entrambe.
14. Il destino della nazione araba, e a dire il vero l’esistenza stessa degli Arabi, dipende dal destino della causa palestinese. Questa interdipendenza è all’origine degli sforzi arabi per la liberazione della Palestina. Il popolo palestinese è l’avanguardia del movimento che mira a raggiungere questo sacro obiettivo nazionale.
15. La liberazione della Palestina è un obbligo nazionale per gli Arabi. Il loro dovere è di respingere l’invasione sionista ed imperialista nella grande patria araba e di liquidare la presenza sionista in Palestina. A questo riguardo, l’intera responsabilità incombe sui popoli e sui governi arabi, ed in primo luogo sul popolo palestinese. Per questa ragione, la nazione araba deve mobilitare tutto il suo potenziale militare, umano, morale e materiale per giocare un ruolo effettivo, a fianco del popolo palestinese, nella liberazione della Palestina. Inoltre, deve, particolarmente nella fase attuale della rivoluzione palestinese armata, fornire tutto l’aiuto materiale ed umano possibile al popolo palestinese, e mettere a sua disposizione i mezzi e gli appoggi che gli permetteranno di continuare ad adempiere il suo ruolo di primo piano nella sua rivoluzione armata finché la sua patria sarà liberata.
16. Sul piano spirituale, la liberazione della Palestina creerà in Terra santa un’atmosfera di pace e di tranquillità, assicurando la salvaguardia di tutte le istituzioni religiose, e la garanzia della libertà di culto e del diritto di visita a tutti, senza discriminazioni e senza distinzioni di razza, di colore, di lingua o di religione. Ecco perché, il popolo palestinese si aspetta il sostegno di tutte le forze spirituali del mondo. [...]
19. La divisione della Palestina, nel 1947, e la creazione d’Israele non hanno nessuna validità qualunque sia il tempo trascorso da questa data, poiché sono contrarie alla volontà del popolo palestinese ed al suo diritto naturale sulla sua patria. Sono in contraddizione coi principi della carta delle Nazioni unite, particolarmente in quel che concerne il diritto all’autodeterminazione.
20. La dichiarazione Balfour, il mandato, e tutto ciò che ne risulta, sono dichiarati insussistenti. L’affermazione secondo la quale legami storici o spirituali uniscono gli ebrei alla Palestina non è conforme ai fatti storici e non risponde alle condizioni richieste per costituire uno Stato. Il giudaismo è una religione rivelata. Non è una nazionalità particolare. Gli ebrei non formano un popolo avente una sua propria identità ma sono cittadini dei loro rispettivi paesi.
21. Il popolo arabo palestinese, esprimendosi attraverso la sua rivoluzione armata, rigetta ogni soluzione di rimpiazzo alla totale liberazione della Palestina. Rifiuta anche tutte le proposte che mirano alla liquidazione o all’internazionalizzazione del problema palestinese.
22. Il sionismo è un movimento politico, legato organicamente all’imperialismo mondiale ed opposto a tutti i movimenti di liberazione o di progresso nel mondo. Il sionismo è, per natura, fanatico e razzista. I suoi obiettivi sono aggressivi, espansionistici e coloniali. I suoi metodi sono quelli dei fascisti e dei nazisti. Israele è lo strumento del movimento sionista. È una base geografica ed umana dell’imperialismo mondiale che, da questo trampolino, può sferrare dei colpi alla patria araba per combattere le aspirazioni di questa alla liberazione, all’unità e al progresso. Israele è una minaccia permanente per la pace nel Vicino-Oriente e nel mondo intero. [...]
26. L’Organizzazione di liberazione della Palestina, nella sua qualità di rappresentante delle forze della rivoluzione palestinese, è responsabile della lotta del popolo arabo palestinese per ricuperare, liberare e tornare nella sua patria, e per esercitare il diritto all’autodeterminazione in questa. Questa responsabilità si estende agli ambiti militare, politico e finanziario, ed a tutto ciò che la causa palestinese potrebbe esigere sul piano arabo e su quello internazionale.
27. L’Organizzazione di liberazione della Palestina coopererà con tutti i paesi arabi, secondo le possibilità di ciascuno. Adotterà un atteggiamento neutro al riguardo di questi paesi, secondo le necessità della battaglia di liberazione, e sulla base di questo fattore. L’organizzazione non interverrà negli affari interni di nessuno Stato arabo.
28. Il popolo arabo palestinese afferma che la sua rivoluzione nazionale è autentica ed indipendente. Rifiuta ogni forma d’intervento, di tutela o di dipendenza.

(Fonte: Revue..., cit., pp. 169-171)

Dichiarazione del Comitato centrale del Fatah (1 gennaio 1969).

Il Fatah definisce il 1 gennaio 1969 la sua concezione dello Stato palestinese. Proclama ufficialmente che “l’obiettivo finale della lotta” del movimento palestinese “è la restaurazione dello Stato palestinese indipendente e democratico i cui cittadini tutti, qualunque sia la loro religione, godranno di uguali diritti”. Precisa che la lotta contro Israele non è diretta contro gli ebrei, ma contro un sistema coloniale. Il quinto Consiglio nazionale palestinese adotta questi principi nel febbraio 1969, al Cairo.

1. Il Movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah è l’espressione del popolo palestinese e della sua volontà di liberare il suo territorio dalla colonizzazione sionista per recuperare la sua identità nazionale.
2. Il Movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah non lotta contro gli ebrai in quanto comunità etnica e religiosa. Lotta contro Israele considerato come espressione di una colonizzazione fondata su un sistema teocratico, razzista ed espansionista, e come espressione del sionismo e del colonialismo.
3. Il Movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah rifuita ogni soluzione che non prenda in considerazione l’esistenza del popolo palestinese ed il suo diritto a disporre di sé.
4. Il Movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah respinge categoricamente la risoluzione del Consiglio di sicurezza del 22 novembre 1967 e la missione Jarring che ne deriva. Questa risoluzione ignora i diritti nazionali del popolo palestinese. Non menziona l’esistenza di questo popolo. Ogni soluzione falsamente pacifica che ignori questo dato fondamentale sarà di conseguenza votata all’insuccesso. In ogni caso, l’accettazione della risoluzione del 22 novembre 1967, o di ogni soluzione pseudo-politica, di qualunque parte sia, non impegna in alcun modo il popolo palestinese che è determinato a proseguire senza pietà la sua lotta contro l’occupazione straniera e la colonizzazione sionista.
5. Il Movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah proclama solennemente che l’obiettivo finale della sua lotta è la restaurazione dello Stato palestinese indipendente e democratico i cui cittadini tutti, qualunque sia la loro religione, godranno di uguali diritti.
6. Essendo la Palestina parte della patria araba, il Movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah opererà affinché lo Stato palestinese partecipi attivamente all’edificazione di una società araba progressista ed unificata.
7. La lotta del popolo palestinese, come quella del popolo vietnamita e degli altri popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina, fa parte del processo storico di liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo.

(Fonte: Revue..., cit., pp. 171-172)

Programma politico adottato dal dodicesimo Consiglio nazionale palestinese (9 giugno 1974).

La resistenza palestinese accetta l’idea di edificare un’autorità nazionale indipendente solo su una parte della Palestina, nel corso del dodicesimo Consiglio nazionale palestinese (CNP) che si tiene al Cairo nel giugno 1974. È la prima volta che il principio delle tappe intermedie è adottato ufficialmente.

Sulla base della Carta nazionale palestinese e del programma politico approvato nell’undicesima sessione del CNP; convinto che sia impossibile stabilire una pace duratura e giusta in Medio-Oriente se il popolo palestinese non recuperasse i suoi diritti nazionali, ed in primo luogo il diritto al ritorno e all’autodeterminazione sull’intero suolo nazionale; e dopo l’esame delle nuove condizioni politiche sopraggiunte dalla precedente riunione del CNP, il Consiglio dichiara che:
1. E’ riaffermato l’atteggiamento precedente dell’OLP al riguardo della risoluzione 242 che ignora i diritti nazionali del nostro popolo, e tratta la nostra causa come un problema di profughi. Ecco perché il Consiglio rifiuta di essere toccato, in qualunque cosa sia, da questa risoluzione, a tutti i livelli, tanto arabo quanto internazionale, ivi compresa la conferenza di Ginevra.
2. L’OLP impiegherà tutti i mezzi, ed in primo luogo la lotta armata, per liberare il territorio palestinese e stabilire l’autorità indipendente, nazionale e combattente per il nostro popolo, su ogni parte del territorio palestinese che sarà liberato. Ciò implica nuovi cambiamenti nel rapporto di forze, in favore del nostro popolo e della sua lotta.
3. L’OLP lotterà contro ogni progetto di entità palestinese il cui prezzo sarebbe il riconoscimento (del nemico), la pace, le frontiere sicure, la rinuncia ai nostri diritti nazionali e la privazione dei diritti del nostro popolo al ritorno e all’autodeterminazione sul suolo della sua patria.
4. Ogni tappa verso la liberazione è una tappa verso la realizzazione dell’obiettivo strategico dell’OLP, che è di stabilire lo Stato democratico palestinese definito nelle risoluzioni delle precedenti sessioni del CNP.
5. La lotta si prosegue, in collaborazione con le forze nazionali giordane, per stabilire un fronte nazionale giordano-palestinese il cui obiettivo sarà di instaurare in Giordania un’autorità nazionale democratica, strettamente legata all’entità palestinese che sarà creata grazie alla nostra lotta.
6. L’OLP lotterà affinché si costituisca un’unità di combattimento tra i popoli giordano e palestinese e tra tutte le forze del movimento arabo di liberazione che sottoscrivono questo programma.
7. Alla luce di questo programma, l’OLP lotterà per rafforzare l’unità nazionale ed elevarla ad un livello che gli permetta di assumere i suoi compiti ed i suoi doveri nazionali.
8. Una volta instaurata, l’autorità nazionale palestinese lotterà per realizzare l’unione dei paesi del campo di battaglia, in vista di completare la liberazione dell’insieme del territorio palestinese, tappa sulla via della realizzazione dell’unità araba.
9. L’OLP lotterà per rafforzare la sua solidarietà coi paesi socialisti e con le forze di liberazione e di progresso nel mondo, per mettere in scacco tutti i piani sionisti, reazionari ed imperialisti.
10. Alla luce di questo programma, il comando della rivoluzione determinerà la tattica che permetterà di realizzare gli obiettivi definiti. Il CEOLP [Comitato esecutivo dell’OLP, ndt] opererà per mettere in applicazione questo programma e, se si presentasse una situazione che colpisca l’avvenire del popolo palestinese, il CNP sarebbe convocato in sessione straordinaria.

(Fonte: Revue..., cit., pp. 178-179)

Dichiarazione d’indipendenza dello Stato della Palestina (15 novembre 1988).

In nome di Dio, clemente e misericordioso. Terra di messaggi divini rivelati all’umanità, la Palestina è il paese natale del popolo arabo palestinese. E’ là che questo è cresciuto, che si è sviluppato e che è sbocciato. La sua esistenza nazionale ed umana si è affermata, in una relazione organica continua ed immutata, tra il popolo, la sua terra e la sua storia. Continuamente radicato nel suo spazio, il popolo arabo palestinese ha forgiato la sua identità nazionale, e si è innalzato, per il suo accanimento a difenderla, fino al livello dell’impossibile... A dispetto del fascino suscitato da questa terra antica e dalla sua posizione cruciale nel crocevia delle civiltà e delle potenze, in dispetto alle mire, alle ambizioni e alle invasioni che hanno impedito al popolo arabo palestinese di realizzare la sua indipendenza politica, l’attaccamento permanente di questo popolo alla sua terra ha tuttavia impresso al paese la sua identità ed al popolo il suo carattere nazionale. Ispirato dalla molteplicità delle civiltà e dalla diversità delle culture, attingendovi le sue tradizioni spirituali e temporali, il popolo arabo palestinese si è sviluppato in una completa unità tra l’uomo ed il suo suolo. Sulla scia dei profeti che si sono succeduti su questa terra benedetta, è dalle sue moschee, dalle sue chiese e dalle sue sinagoghe che si sono levate le lodi al Creatore ed i cantici della misericordia e della pace. [...]

In dispetto all’ingiustizia storica imposta al popolo arabo palestinese, che ha portato alla sua dispersione e l’ha privato del suo diritto all’autodeterminazione all’indomani della risoluzione 181 (1947) dell’Assemblea generale delle Nazioni unite che imponeva la divisione della Palestina in due Stati, uno arabo e l’altro ebraico, nondimeno resta il fatto che è questa risoluzione che assicura, ancora oggi, le condizioni di legittimità internazionale che garantiscono anche il diritto del popolo arabo palestinese alla sovranità e all’indipendenza. [...] Con l’Intifada, e l’esperienza rivoluzionaria accumulata, la vicenda palestinese è giunta alla soglia di una svolta storica decisiva. Il popolo arabo palestinese riafferma oggi i suoi diritti inalienabili ed il loro esercizio sul suolo palestinese. Conformemente ai diritti naturali, storici e legali del popolo arabo palestinese verso la sua patria, la Palestina, e forte dei sacrifici delle generazioni successive di Palestinesi per la difesa della libertà e dell’indipendenza della loro patria, Sulla base delle risoluzioni dei vertici arabici, In virtù del primato del diritto e della legalità internazionale sancito dalle risoluzioni dell’Organizzazione delle Nazioni unite dal 1947, Esercitando il diritto del popolo arabo palestinese all’autodeterminazione, all’indipendenza politica ed alla sovranità sul suo suolo, Il Consiglio nazionale palestinese, in nome di Dio e del popolo arabo palestinese, proclama la fondazione dello Stato della Palestina sulla nostra terra palestinese, con capitale Gerusalemme.

(Fonte: Nadine Picaudou, Les Palestiniens..., cit., p. 312. Citato in Revue d’études pelestiniennes, n° 30, inverno 1989)

Nadine Picaudou, (Traduzione dal francese di Andrea D’Urso)
Parigi, 21 novembre 2002
da "Bellaciao"