Il petrolio "risorsa energetica" è solo una merce come tante.
Il petrolio come "risorsa egemonica" e una pedina irrinunciabile in un progetto di dominio planetario

Strategia dell'impero

La convergenza tra interessi immediati e strategici

Che un'amministrazione di petrolieri possa avere interesse a occupare militarmente la regione petrolifera più ricca del mondo è quasi lapalissiano. Che alcuni noti truffatori della junta - come un certo George W. Bush e un certo Dick Cheney - programmino di arricchirsi gestendo, oltre al petrolio, i piani di ricostruzione è abbastanza ovvio. Ma, la storia insegna, se il governo di una super-potenza viene lasciato in mano a una banda di truffatori significa che, quanto meno, c'è una convergenza d'interessi fra gli immediati profitti dei singoli e la strategia globale dei poteri forti.

La convergenza non è automatica perché si tratta di due modi di ragionare molto diversi. Una compagnia petrolifera può avere molto da guadagnare dall'occupazione militare di una regione come il Golfo perché, come è intuitivamente facile immaginare, può accaparrarsi il petrolio fregando le concorrenti. Ma questo non è assolutamente sufficiente, per uno Stato, a mettere in moto la sua macchina da guerra. Uno Stato è interessato più al petrolio come "potere" che al petrolio come "risorsa". Questo significa che non è tanto importante battere le concorrenti quanto sottrarre agli altri l'accesso alle risorse. Il petrolio "risorsa energetica" è solamente una merce come tante; il petrolio come "risorsa egemonica" e una pedina irrinunciabile in un progetto di dominio planetario come quello statunitense.

I diavoli europei

Oggi gli Stati Uniti lo ammettono con chiarezza: per Bush la chiave della sicurezza nazionale è l'egemonia globale che si basa sul controllo delle risorse energetiche, ovvero sulla possibilità di "chiudere i rubinetti" dei propri rivali. E' importante sottolineare questo punto perché qualsiasi guerrafondaio negherà con decisione che gli Usa abbiano un bisogno così impellente di petrolio, e a ragione. E' dagli anni Settanta, cioè da quando i paesi dell'Opec nazionalizzarono le loro industrie estrattive innestando la crisi petrolifera occidentale, che gli Stati Uniti stanno bene attenti a differenziare le risorse. Per trent'anni infatti, le lunghe mani di Exxon, Mobil, Chevron e Texaco, sono andate a curarsi le ferite delle privatizzazioni arabe dalle parti del Venezuela, del Messico, della Nigeria. Anche le risorse relativamente incontaminate dell'Alaska, possono tranquillamente soddisfare i bisogni dell'impero.

Per gli europei, al contrario, non ci sono fonti alternative a quelle del Golfo che, secondo uno studio del National Energy Policy della Casa Bianca, entro il 2020 poterebbe coprire fra il 60 e il 70% del fabbisogno mondiale. Così, se alla Russia è rimasto qualcosa - dopo che gli Stati Uniti hanno inglobato le Repubbliche ex sovietiche nella loro avanzata "antiterrorista" - ecco che Europa, Cina e Giappone si troveranno letteralmente in balia di chi avrà in mano la regione petrolifera del Golfo Persico. Dopo la guerra all'Iraq, assicurano i commentatori unanimi, tutti i contratti che le compagnie europee, russe e cinesi hanno firmato con l'industria petrolifera pubblica di Saddam, verranno automaticamente abrogati lasciando il campo libero alle compagnie statunitensi - che ne trarranno beneficio immediato - e ipotecando pesantemente - per decenni - lo sviluppo economico dell'Europa e della Cina. Uno sviluppo molto minaccioso per una superpotenza in recessione, come gli Usa.

In questa chiave la guerra all'Iraq costituisce soltanto il primo passo verso l'occupazione di tutta la regione, Arabia Saudita compresa. Rob Sobhani, consulente dell'industria petrolifera dell'amministrazione, ha dichiarato infatti che «uno dei maggiori problemi con il Golfo Persico è che la produzione è in mano dello Stato» aggiungendo che «bisognerebbe spingere verso cambiamenti politici che vadano verso una privatizzazione dell'industria petrolifera».

La scorsa estate c'è stato un penoso incidente. Laurent Murawiec, un consulente strategico del Defence Policy Board del Pentagono chiamato a tenere un seminario a porte chiuse, è stato licenziato per avere lasciato trapelare le conclusioni del seminario alla stampa. In effetti è stato un po' imbarazzante leggere sui giornali dichiarazioni che definivano "l'Arabia Saudita il vero nocciolo del male" e che prima o poi "bisognerà rimpiazzare la famiglia reale e occupare i campi petroliferi". Che il Dipartimento della difesa abbia già steso piani militari per l'occupazione dell'Arabia Saudita lo sostiene anche Robert E. Ebel, direttore del programma energetico del Center for Strategic and International Studies, un think thank di Washington che conta fra i suoi consiglieri personaggi come Kissinger. "Se succede qualcosa in Arabia Saudita saremo costretti a entrare". Si tranquillizzino quindi i nord-coreani: per ora non rientrano nei piani.

Sbaglia quindi completamente chi crede che l'attacco all'Iraq sia il prodotto della mente squilibrata di un fanatico religioso. Si tratta invece di una tappa decisiva all'interno di una strategia trentennale, che deve molto di più alle contorte macchinazioni di un Kissinger che agli sforzi cerebrali della poco dotata famiglia Bush.

Dalla crisi petrolifera degli anni '70 gli Stati Uniti vanno accrescendo la presenza militare nel Golfo attraverso la costruzione di basi, la vendita di armi e il foraggiamento di partner militari. Ora non resta che consolidare la loro presenza in un luogo che diventerà, in questo modo, il fulcro dell'equilibrio del potere mondiale per i prossimi decenni. Di colpo, occupando l'Iraq, l'amministrazione Bush può portare a compimento un disegno strategico di antica data.

Il piano Kissinger

«E' il piano Kissinger» dichiara James Akins, ex ambasciatore statunitense «credevo che fosse stato abbandonato, invece eccolo di nuovo».
Il piano di Kissinger è stato efficacemente portato avanti dal gruppo dei "neoconservatori" che hanno giocato un ruolo importante negli anni Ottanta, durante l'amministrazione Reagan, e che ora occupano posti di rilievo dell'entourage di Bush: Richard Perle, attuale presidente del Defence Policy Board del Pentagono e Paul Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa, solo per citare un paio di nomi. Ma solo molti di più. I neoconservatori occupano dozzine di posti alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento della difesa, e sono molto vicini al Vicepresidente Cheney e a Donald Rumsfeld, dai tempi in cui questi ultimi prestavano servizio nell'amministrazione Ford. In trent'anni di caute manovre, con un'accelerazione dopo la guerra del Golfo, le forze armate statunitensi hanno continuato ad affluire nel Golfo e dintorni, dal Corno d'Africa all'Asia Centrale, preparando l'occupazione della zona strategicamente più importante del pianeta.

Sabina Morandi
Roma, 15 marzo 2003
da "Liberazione"