Tra Islam e petrolio

Arabian connection

In un rapporto commissionato dal Pentagono l'Arabia Saudita veniva bollata come "il nucleo del male, il primo movente, il nemico più pericoloso", ...

L'impressionante ondata di attentati kamikaze che ha investito Arabia Saudita, Cecenia, Marocco, Israele e Turchia dimostra in maniera lampante che la guerra preventiva non solo non intacca minimamente i pianificatori del terrore, ma finisce col fornire loro più forza e credibilità in settori non solo marginali delle masse islamiche. Questa non è una novità.

Agli osservatori più superficiali può, invece, sembrare una novità uno dei primi effetti delle nuove bombe targate Al Qaida: la fine della luna di miele tra gli Stati Uniti e i loro maggiori bastioni in seno all'"umma" araba, i sovrani sauditi. Washington non si fida più della monarchia wahabita di Riad, retta di fatto dal principe ereditario Abdullah bin Abdulaziz. Dopo l'11 settembre, quello che è stato un utile strumento per vincere la prima guerra del Golfo e, successivamente, garantire una parvenza di stabilità nella regione e nel mondo musulmano, è scivolato pian piano nella lista nera del Pentagono.

L'Arabia Saudita ancora non compare accanto a Siria, Iran, Libia, Cuba e Corea del Nord, nell'elenco degli "Stati canaglia". Ma già si è conquistata l'appellativo di paese inaffidabile, che non collabora fino in fondo alla crociata americana contro il terrorismo. Gli attentati suicidi contro il complesso residenziale di Al Hamra, costati la vita a un numero tutt'oggi imprecisato di cittadini Usa e di altri paesi occidentali, non devono essere considerati un fulmine a ciel sereno. Sono la conseguenza visibile di quasi due anni di una guerra diplomatica ed economica non dichiarata, di "bassa intensità", tra i due paesi ex-alleati, che ha raggiunto i picchi più alti dopo la strage delle Torri gemelle e durante la recente "soluzione" dell'affaire irachena. Hanno tutta l'aria del bagliore che prelude all'apertura di un nuovo fronte conclamato di Enduring freedom.

Un altro Stato terrorista?

«La guerra al terrorismo non è finita. La nostra missione continua. Chiunque sia coinvolto nelle realizzazione o nella pianificazione di attentati terroristici contro il popolo americano diventerà un nemico di questo paese e un bersaglio della giustizia americana». Le parole di George W. Bush, pronunciate il 1° maggio sulla portaerei Lincoln, suonano come un monito a rivali dichiarati, amici timidi e pentiti e a chiunque non sia completamente allineato con la superpotenza Usa: nulla resterà impunito. La patria di Maometto è tra i destinatari del messaggio. Nessuno ne fa mistero alla corte dei Sauditi. Mai le relazioni con il governo nord-americano sono state così fredde, ora che questo si appresta a trasferire le sue truppe alla volta di altri paesi del Golfo, più fedeli e meno ambiziosi dell'Arabia, e brandisce il progetto di creare entro il 2013 una zona di libero scambio in Medio Oriente simile al Nafta, dollarizzata e avente come bacino di utenza i paesi "che intraprenderanno la via delle riforme democratiche".

I portavoce ufficiali di Washington assicurano che "le relazioni con l'Arabia Saudita sono di lunga data e ciò che è accaduto non avrà alcun impatto su di esse". Eppure i monarchi wahabiti sanno di non poter dormire sonni tranquilli. Saudita è Osama bin Laden, imprendibile primula rossa di Al Qaida. Sauditi sono sedici dei diciannove dirottatori suicidi dell'11 settembre e buona parte degli oltre 650 prigionieri di Guantanamo. Le accuse non sono generiche, investono perfino la casa reale: la principessa Haifa, moglie dell'ambasciatore saudita negli Usa nonché figlia di re Faisal, avrebbe fatto pervenire indirettamente finanziamenti ad Al Qaida. Così anche altri rampolli del reame, di manica larga nell'ottemperare al dovere musulmano della carità…

La guerra latente del petrolio

Se l'establishment americano si mostra ancora titubante, più espliciti sono i suoi gregari. In un rapporto commissionato dal Pentagono, già lo scorso 10 luglio l'Arabia Saudita veniva bollata come "il nucleo del male, il primo movente, il nemico più pericoloso", attivo a ogni livello della catena del terrore.

Il contenzioso con Riad non è certo di poco conto. Non dimentichiamo che si sta parlando del principale produttore mondiale di oro nero, in un momento in cui questo combustibile - proprio grazie alla rottura che si è verificata tra i sovrani sauditi e le compagnie Exxon e Shell in tema di gas naturale - si è assicurato un futuro prossimo senza concorrenti, rinviando di molto l'avvento dell'era dell'idrogeno. L'Arabia Saudita è tuttora l'asse portante dell'Opec, organizzazione pesantemente indebolita dal colpo portato a segno contro il regime di Saddam Hussein e da quello, al momento non riuscito ma costato forti ricadute sul piano economico, contro il Venezuela di Hugo Chavez. La perdita di potere dell'Opec è andata a tutto vantaggio degli Stati Uniti che, controllando direttamente il petrolio iracheno e implicitamente quello di altri Stati del Golfo a loro subordinati, controllano un parte consistente dei rubinetti del Medio Oriente e possono spadroneggiare nella fase della determinazione dei prezzi, tenendo così con il cappio al collo i paesi e i blocchi emergenti - in primo luogo Cina ed Unione Europea - che dipendono dal combustibile estratto in questa regione. Pechino, solo nel 2002, ha importato 70 milioni di tonnellate di petrolio. Con una crescita del fabbisogno energetico stimata al 15% annuo, si prevede che nel 2020 diventerà il maggior consumatore mondiale di questo combustibile. Disponendo a piacimento del petrolio mediorientale, gli Usa possono tentare di porre un freno alla espansione dell'economia cinese.

Valute, egemonia e conflitti

Nel caso dell'Europa l'elemento da porre in evidenza è l'intreccio tra petrolio e dinamiche valutarie. Uno studio elaborato recentemente dalla Banca federale tedesca dimostra come una crescita del prezzo del greggio del 10% provochi un deprezzamento dell'euro sul dollaro dell'1,5%. Il super-euro preoccupa gli Stati Uniti - specie se questo vola a quota 1,1713 dollari, mai toccata dal 15 gennaio del '99 - come li preoccupa il rapporto privilegiato che sta sorgendo tra questa valuta e i paesi produttori di greggio. A istituirlo ci aveva provato l'Iraq, ed è stato punito. L'Iran sta procedendo su questa stessa strada con maggior cautela. La Malaysia è stata la più decisa: la compagnia nazionale Petronas venderà il suo petrolio in euro anziché in dollari. Gli Usa non possono tollerare una scelta simile da parte dei sauditi. Non possono tollerare che i "petrodollari" si trasformino in "petroeuro". E non hanno tutti i torti, secondo il loro punto di vista.

Fissare e "denominare" il prezzo del greggio in euro sarebbe, ha scritto l'inglese Guardian, un'arma "micidiale e, se correttamente utilizzata, insuperabile" per contendere l'egemonia agli Usa. Ci guadagnerebbero i paesi importatori, quelli europei su tutti, che non avrebbero più bisogno di accumulare riserve in dollari per acquistare l'oro nero, diminuendo così la dipendenza da Washington e le quotazioni della valuta Usa.

In questo momento la fetta ritagliata dall'euro sul mercato energetico varia tra il 10 e il 15%, una quota che intacca solo in minima parte il predominio americano. Ma, al contempo, va segnalato che quasi duecento miliardi di dollari dei petrolieri arabi hanno abbandonato i depositi d'Oltreoceano per rifugiarsi in quelli del Vecchio Continente. Una iattura per il paese più indebitato del mondo, che potrebbe bastare a giustificare una guerra contro un ex alleato, meglio ancora se in odore di fondamentalismo islamico…

Claudio Grassi
Roma, 3 giugno 2003
da "Liberazione"