Il Primo ministro Kostunica conta di formare il governo con l'appoggio determinante del Partito socialista di Slobodan Milosevic.

Serbia, il paradosso balcanico

Un fallimento politico dell'accordo di Dayton imposto al paese dagli Stati Uniti

Vojislav Kostunica, ex-presidente federale dell'ultima Jugoslavia e presidente mancato (per non aver raggiunto il quorum in tre successive elezioni) della Repubblica di Serbia, può adesso consolarsi con la carica di primo ministro: ieri ha ricevuto infatti formalmente l'incarico di formare il governo dal presidente del Parlamento - e presidente della Repubblica ad interim - Dragan Marsicanin, eletto sedici giorni fa; un governo che Kostunica conta di formare entro una settimana grazie all'appoggio determinante del Partito socialista serbo (Sps) di Slobodan Milosevic.

Un paradosso balcanico dunque: colui che quattro anni fa ha rovesciato Milosevic e che poi è stato di fatto estromesso dal potere dai suoi stessi alleati nel golpe indolore anti-Milosevic. Secondo molti osservatori (ed anche secondo il responsabile esteri dell'Unione europea Xavier Solana) si tratta in sostanza di un ritorno al passato; ma siamo piuttosto di fronte al fallimento delle paci imposte - manu militari - dagli Stati Uniti, prima con gli accordi di Dayton poi con la guerra del Kosovo, paci alle quali l'Europa si è passivamente associata, piegandosi ieri al progetto americano di una "nuova mappa" dei Balcani così come subisce oggi l'analogo progetto americano per il Medio Oriente.

Nel 2002 la vittoria in Bosnia dei partiti nazionalisti che erano stati protagonisti della guerra, poi nel dicembre scorso il successo in Serbia dell'ultranazionalista Partito radicale (Srs) di Vojislav Seeselj e del Partito socialista di Milosevic, con sullo sfondo il ritorno al potere anche in Croazia dei nazionalisti dell'Hdz del defunto Tudjiman, hanno di fatto mandato in pezzi il processo di "normalizzazione" americana della penisola balcanica; ennesima dimostrazione - come in Afghanistan e in Iraq - che la democrazia non si importa né si impone con la forza delle armi, soprattutto quando la parola democrazia è solo una etichetta che nasconde ben altri interessi, che nei Balcani come in Medio Oriente si chiamano egemonia politico-economica, petrolio, presenza militare e così via dicendo.

Appunto, presenza militare che coinvoolge i Paesi "alleati" ed "amici", inclusa l'ìItalia. Alla luce di quello che sta accadendo, a Belgrado come a Sarajevo (come anche, in termini più drammatici, a Baghdad e a Kabul), è lecito chiedersi che cosa ci stiano a fare contingenti e corpi militari definiti eufemisticamente "di pace" o "di stabilizzazione" e che in realtà non hanno portato né pace né stabilizzazione: ridotti come sono in Bosnia soltanto a impedire la ripresa del conflitto, senza essere riusciti a far rientrare nelle loro case le centinaia di migliaia di profughi soprattutto serbi, e in Kosovo a fare da schermo fra la maggioranza albanese e la minoranza serba, senza essere riuciti a impedire una sostanziale pulizia etnica a danno di quest'ultima.

E' in questo contesto che si colloca la svolta politica in corso a Belgrado. Vojislav Kostunica si appresta a formare un governo fondato sulla coalizione fra il suo Partito democratico serbo (Das), il Partito socialista (Sps), il Movimento centrista G-17 (che è non tanto un partito quanto un club di tecnici ed economisti) e il Movimento per il rinnovamento serbo (Spo) dell'ambiguo quanto pragmatico Vuk Draskovic, monarchico, già al governo con Milosevic, poi nel fronte anti-Milosevic. Grazie ai 22 voti dei socialisti, la coalizione potrà contare su 131 dei 250 seggi del parlamento: una maggioranza ristretta ma sufficiente. All'opposizione, ma aspramente contrapposti fra di loro, si trovano il Partito radicale (Srs) di Seselj e il Partito democratico (Ds) del premier uscente Zoran Zivkovic, delfino dell'ex-premier Zoran Djindjic assassinato nel marzo dell'anno scorso. Un vero e proprio rovesciamento di alleanze, iniziato in realtà più di due anni fa con la rottura fra Djindjic e Kostunica.

Il primo atto della svolta si è avuto il 4 febbraio, quando la stessa maggioranza che sosterrà il nuovo governo ha eletto presidente del Parlamento (e dunque presidente ad interim della Repubblica) Dragan Marsicanin, uomo del partito di Kostunica; e adesso Marsicanin ha chiuso il cerchio assegnando allo stesso Kostunia l'incarico di formare il governo. Kostunica ha indicato come priorità il varo ddi una nuova Costituzione (che dal 2000 ad oggi si è stati incapaci di stilare); e rispondendo alle critiche di Solana - che ha parlato di decisione che «non va nella direzione giusta» e ha sollecitato un governo «filo-europeo dei quattro partiti democratici» - ha detto che il suo esecutivo «non ci allontanerò dall'Europa ma al contrario ci avvicinerà», aggiungendo che l'accordo con i socialisti fa parte «del normale gioco democratico». Una lezione di democrazia», insomma, chiaramente respinta al mittente.

Giancarlo Lannutti
Roma, 21 febbraio 2004
da "Liberazione"