Arci: il governo rischia di sprecare un’occasione per uscire dall’unilateralismo e dal pensiero unico

Le basi di una buona politica estera ci sono perché l’Unione si lacera su Afghanistan e Vicenza?

Il programma dell’Unione è stato costruito non solo dalla mediazione dei partiti, ma dalla convergenza diretta e indiretta di culture, esperienze che vivono nella società italiana da decenni e che sono un valore.

Il governo dell’Unione ha, fra i suoi compiti, una priorità tanto necessaria quanto impegnativa: innescare una netta controtendenza alla politica estera del paese.

Per un decennio, proprio sul terreno della politica internazionale si è giocata la più poderosa operazione ideologica del neoconservatorismo globale, impegnato a smantellare le basi del diritto internazionale e affermare il diritto del più forte.

Il pianeta è ancora immerso in questa fase: impregnati di unilateralismo, affogati nello squilibrio fondato sulla forza militare ed economica, siamo circondati dalle devastazioni prodotte dalla guerra preventiva e permanente e dal grandioso accumulo di ingiustizie create dal neoliberismo selvaggio.

La politica e le istituzioni, soprattutto nel nord del mondo, non riescono a scrollarsi di dosso la sudditanza al pensiero unico, e la consapevolezza ormai diffusa della crisi di sistema non produce ancora lo scarto necessario a una decisa inversione di rotta.

In questo clima, che con speranza vogliamo definire di transizione, una nuova politica di governo è impresa difficile: la ricostruzione di un progetto e di una visione è ancora acerba, le resistenze anche in aerea democratica sono molte, difficili i rapporti di forza a livello internazionale.

Ma il coraggio di una agenda innovativa è indispensabile: giocare un ruolo attivo è la sola via per costruire le condizioni oggettive di un mutamento dello scenario internazionale.

Non si chiede a nessuno di fare testimonianza, ma di fare politica: per battere il dominio neo-con c’è bisogno di allargare il campo delle alleanze, di legittimare le potenzialità di un altro approccio attraverso pratiche efficaci, di aiutare il cambiamento – in primo luogo negli Stati Uniti che vanno verso le elezioni.

Il programma dell’Unione contiene gli elementi chiave a fare da bussola a una azione di governo con queste ambizioni: multilateralismo e multipolarismo sono le condizioni essenziali per creare spazio a nuove politiche di pace, di composizione politica dei conflitti, di giustizia globale.

Una decisa assunzione di responsabilità da parte dell’Italia può rendere compatibile la convivenza di iniziative unilaterali e multilaterali: il ritiro delle truppe dall’Iraq è stata una giusta scelta unilaterale, e altrettanto efficace è stato spingere l’Unione Europea a assumere un ruolo positivo nel conflitto libanese di questa estate.

Le condizioni di una buona politica estera ci sono tutte Alcuni suoi settori, come quello della cooperazione internazionale, hanno riconquistato in poco tempo peso e dignità. Ma allora perché l’Unione si lacera sull’Afghanistan e su Vicenza? Perché il movimento pacifista è costretto ad alzare la voce contro l’aumento delle spese militari e l’incredibile accordo con gli Usa per la costruzione dei caccia Joint Strike Fighter – che contraddice persino la scelta altrettanto contestata di produrre nuovi sistemi d’arma in sede europea?

Non siamo stupiti del fatto che nella coalizione di governo convivano posizioni e culture differenti. In un paese come l’Italia, che per tutto il dopoguerra è stato costretto a una condizione di sudditanza agli Stati Uniti dal regime democristiano, un ideologico vincolo atlantista sta nel codice genetico di molte forze politiche. A ciò si aggiungono i danni culturali prodotti dalla subalternità alla lotta al terrorismo di Bush, e un approccio schematico e settario di componenti minoritarie della sinistra.

Non ci sorprende neppure che le pressioni internazionali siano forti. L’amministrazione Bush non ha reagito alla sconfitta nelle elezioni di mid-term mitigando il suo estremismo. Al contrario, su molte questioni spinose sta cercando di mettere una futura amministrazione democratica di fronte a fatti compiuti e condizionanti. Le pesanti ingerenze nella politica dei paesi alleati non si fermano: il rinvio a giudizio per omicidio volontario del marine che uccise Calipari ne è una fin troppo tragica conferma.

Crediamo però che l’Unione rischi di sbagliare approccio, nell’affrontare le proprie difficoltà. Il programma dell’Unione è stato costruito non solo dalla mediazione dei partiti, ma dalla convergenza diretta e indiretta di culture, esperienze che vivono nella società italiana da decenni e che sono un valore. Forse in nessun altro paese c’è una così grande ricchezza di energie dedicate a fare e a pensare la pace, la soluzione pacifica dei conflitti, la solidarietà internazionale, la giustizia globale, la riforma delle istituzioni internazionali.

E’ un pensiero e una pratica trasversale a tutte le culture e le tradizioni politiche e sociali democratiche. Il pacifismo italiano non si riconosce nella macchietta ideologica con cui si cerca di rappresentarlo, purtroppo non solo in certa stampa ma anche in certi ambiti di governo.

Non appartiene a nessuna componente partitica. Questa estate tante organizzazioni pacifiste hanno sostenuto con forza le scelte del Ministro degli Esteri in Medio Oriente. Abbiamo apprezzato la volontà di riportare la politica italiana nell’ambito del diritto internazionale, che riconosce pari dignità e diritti al bisogno di pace, terra e sicurezza di tutti i popoli dell’area – israeliano, palestinese, libanese.

D’Alema è quanto di più lontano dalla sinistra radicale, che pure in gran parte lo ha sostenuto. I condizionamenti più pesanti alla sua azione vengono dalle componenti moderate dell’Unione.

La gran parte del pacifismo italiano non si fa imbrigliare dalla logica di schieramento, guarda alle scelte, e su quelle vuole confrontarsi. Per questo, non sente contraddittorio oggi schierarsi apertamente contro il raddoppio della base di Vicenza.

Il pacifismo italiano migliore e largamente maggioritario è plurale, politico, capace di mantenere saldi i propri valori, la propria autonomia di pensiero, le proprie rivendicazioni e nello stesso tempo assolutamente interessato a assumersi la responsabilità di un confronto per indicare le tappe possibili di un cambiamento difficile a farsi.

La questione Afghanistan può essere affrontata in molti modi.

Si possono accentuare le incompatibilità fra chi vuole ritirare i soldati italiani da un teatro di guerra aperta e chi è convinto di contribuire a una missione di pace. Noi rimaniamo convinti che quella missione, figlia dell’occupazione, non è lo strumento utile a pacificare il paese. Ma siamo altrettanto convinti che, mantenendo le differenze, si possa lavorare insieme a partire dall’analisi che è comune a tutti: l’intervento militare è fallito, e la situazione peggiora di giorno in giorno.

Cosa serve davvero all’Afghanistan?

La risposta non è scritta. E proprio per questo è necessario affrontarla con la serietà che merita, e con il contributo di chiunque abbia la competenza e la capacità di aiutare. Un piano di azione può portare a scelte unilaterali, ma anche a proposte forti in sedi multilaterali. E sarebbe comunque un passo avanti.

La questione Vicenza non può neanche per un attimo banalizzata nella contrapposizione ideologica fra antiamericanismo e atlantismo.

Non è solo la preoccupazione sociale, ambientale, energetica e di sicurezza della popolazione locale a meritare rispetto. Meritano lo stesso rispetto e attenzione le domande sul senso di una aumentata presenza militare statunitense nel nostro territorio, così come quelle relative all’investimento in nuovi sistemi d’arma offensivi.

Noi crediamo che non ci sia alcun bisogno di aumentare una militarizzazione già così pesante, e che l’Italia dovrebbe agire con coerenza per politiche di disarmo. Ma quale deve essere oggi il sistema di alleanze internazionali dell’Italia e come esso deve realizzarsi è una domanda che dovrebbe interessare tutti, anche coloro che ritengono di non dover mettere minimamente in discussione la scelta atlantica del nostro paese.

Se la politica estera continuerà nei prossimi mesi a essere usata per il braccio di ferro ideologico fra le varie componenti dell’Unione, vediamo grandi nubi addensarsi sul futuro del governo e sulla possibilità che l’Italia possa giocare un ruolo positivo in questa difficile fase mondiale.

Si sta riaprendo il dibattito sul futuro politico dell’Europa e sul Trattato Costituzionale.

Tutta la società civile africana ci chiede di evitare che gli accordi di partnership economica fra Unione Europea e paesi Acp consentano una nuova rapina a danno dei paesi più impoveriti del mondo. Il G8 in Germania a giugno riaprirà il dibattito su come ricostruire un sistema di democrazia globale. Il tema della riforma della cooperazione internazionale è già sul tappeto, con la proposta di legge delega. Tutti argomenti delicati, su cui diverse sono le posizioni nel centrosinistra e le sensibilità nella società civile.

Crediamo che i vertici dei partiti di maggioranza e le mediazioni che in essi si compiono siano parte del mestiere di governo. Ma da soli non bastano.

Solo un dibattito aperto, partecipato, diffuso, unitario, capace di coinvolgere e di appassionare tutte le forze e le intelligenze disponibili sulla costruzione di un nuovo progetto internazionale dell’Italia per la pace e la giustizia può aiutare a dare la spinta e la energia sufficiente a chi, nelle istituzioni e nella società civile, crede in una possibilità di iniziare a cambiare le cose.

Per questo vogliamo impegnarci, insieme a chi lo vorrà.

Presidenza nazionale Arci
Roma, 16 febbraio 2007
da "Liberazione"