Straordinarie manifestazioni di protesta contro la giunta militare che opprime questo paese

Myanmar. Un popolo in lotta per la libertà

Dedichiamo la Marcia della pace a questa lotta, chiediamo ai governi e all’Onu una presa di posizione decisiva

Myanmar (Birmania)

Photo by Wikipediainfo

Le braccia alzate, pregando, recitando slogan di pace e preghiere. Da ormai quasi due settimane i monaci buddisti birmani, accompagnati dal popolo, scendono per le strade delle più grandi città per chiedere la fine di un regime militare che dura da più di 40 anni, una delle ultime giunte militari al potere, capace di tenere sequestrata una popolazione intera dal resto del mondo come poche altre. Anche per questo, spesso ignorata. Ignorata nonostante le denuncie dei lavori forzati, degli stupri di massa, delle continue e sistematiche violazioni dei diritti umani di cui la cricca al potere si è macchiata. Sono state le manifestazioni che si susseguono ormai da giorni e la repressione dell’esercito, che hanno portato nelle nostre case le immagini della Birmania, oggi chiamata Myanmar, uno dei paesi più poveri ed isolati del pianeta.

Fino a qualche settimana fa, se qualcuno avesse chiesto alla stragrande maggioranza dei cittadini di un paese occidentale dove fosse collocata geograficamente la Birmania, difficilmente la risposta sarebbe stata pronta e sicura. Oggi le prime pagine dei nostri quotidiani e i primi minuti dei telegiornali sono dedicati a descrivere con immagini e commenti le straordinarie manifestazioni di protesta contro la giunta militare che opprime questo paese.
Sono stati i monaci ad iniziare la protesta contro l’aumento dei prezzi del carburante, la popolazione li ha seguiti in massa ed è sfociata in un’autentica ribellione pacifica al regime militare.

Dopo la violentissima repressione delle manifestazioni di protesta del 1988 e dopo l’annullamento delle elezioni vinte da San Suu Kyi, la leader della Lega Nazionale democratica (partito che ha ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni del 1990) premio nobel per la pace e agli arresti domiciliari da oltre 10 anni, non avevamo più sentito parlare della Birmania e delle sue vicende politiche.

In tutti questi anni nessuno, (ONU, UE, USA; Cina o Russia), ha sprecato solo un attimo del proprio tempo per occuparsi della situazione in cui vive una popolazione che all’ultimo censimento di oltre 20 anni fa contava 51 milioni di persone, di cui il 90 % sotto la soglia di povertà. Solo sanzioni, embargo e non convinte e convincenti condanne da parte degli organismi sovranazionali e di qualche stato. Neanche il conferimento del Nobel per la pace a Suu Kyi ha risvegliato un autentico interesse nei confronti di questo popolo.

Nonostante la repressione sempre più dura e il rischio di un massacro, la protesta continua. Continua con le forme che i monaci buddisti hanno fin dai primi giorni messo in atto: pacifiche e non violente, con cortei da un tempio all’altro, recitando i mantra buddisti. Ad essi si sono uniti i sindacati clandestini, le associazioni studentesche, i partiti . Si tratta di una lotta popolare, di massa e nonviolenta. Che sta riuscendo a rompere l'ottusa censura e, sembra, ad aprire crepe nel regime. I soldati disobbediscono all'ordine di sparare sulla folla. Questa determinazione nella lotta non violenta è davvero sorprendente e da ammirare, nella sua capacità di essere contagiosa ed egemone, vince la paura della repressione brutale che è in corso in queste ore, purtroppo con numeri drammaticamente superiori alle verità del regime. Capace di svelare la violenza del potere.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è finito sostanzialmente con un nulla di fatto, se non con la visita che il delegato dell’ONU ha effettuato ieri nel paese. La Russia e la Cina hanno posto il veto nascondendo dietro la non pericolosità internazionale e il non intervento in questioni interne ad uno Stato, i loro interessi economici in quel paese.

Se è vero che molte volte l'ingerenza negli affari interni è stata e viene usata ad uso e consumo di progetti egemonici, la retorica democratica abusata per giustificare guerre ed occupazioni, in Birmania oggi c'è prima di tutto la lotta di un popolo per la libertà.

A questa domanda non si può rimanere indifferenti. Non esistono calcoli geopolitici che possano giustificare l'inerzia. La Cina e l'India, oramai potenze economiche globali, devono chiaramente intervenire per fermare un regime allo sbando che opprime il suo popolo. In questo caso un loro pronunciamento potrebbe influire molto di più della sbiadita Europa e dello screditato e impresentabile Bush. E darebbe loro molta più forza nel cercare di costruire un ordine mondiale multipolare, piuttosto che rimanere silenti in attesa di un ritorno alla normalità che non ci sarà. Il pronunciamento dell' Associazione degli stati del sud est asiatico, fra cui il Vietnam, di netta condanna della violenza del regime, è stata un'importante novità, che non va lasciata isolata. All'Europa e all'Italia chiediamo di non lasciare che sia, di prendere misure politiche efficaci e nette. Per esempio, di evitare di vendere armi all'India che poi vadano in Birmania.

Noi ci sentiamo dalla parte di questa lotta non violenta, per la libertà del popolo birmano. Lo facciamo anche per i molti altri popoli che soffrono e che sono spesso ignorati dal mondo unipolare che usa due pesi e due misure e un'asimmetria permanente nei loro confronti. Proprio perché siamo vicini ai popoli oppressi da occupazioni e guerre, perchè ci battiamo contro la prepotenza dell'impero e della guerra permanente, oggi ci sentiamo tutti birmani. In tanti ci siamo messi una maglietta o una camicia rossa, per sostenere simbolicamente il coraggio delle migliaia di manifestanti. Non è abbastanza. Alla azione dei governi va associata la più forte solidarietà politica e popolare. Continuiamo a farlo nei prossimi giorni, partecipiamo e promuoviamo iniziative di sostegno, che si stanno moltiplicando nel paese. Coloriamo di rosso la marcia della pace Perugia Assisi di domenica prossima, per esprimere il nostro appoggio al popolo birmano, anche qualora si abbassassero di nuovo i riflettori su quel che accade in quella terra. Non possiamo e non dobbiamo rimanere indifferenti. Per troppo tempo, in tanti, abbiamo dimenticato questo popolo. La sua lotta per la libertà è la nostra lotta.

Fabio Alberti (Responsabile esteri PRC)
Roma, 1 ottobre 2007
www.rifondazione.it