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L'atomica iraniana? Non scherziamo.

Per la supremazia statunitense, fondata sul dollaro come moneta di scambio internazionale, non c'è rischio peggiore dell'avvento del petroeuro ...

Sabina Morandi

Sabina Morandi

Photo by Infinite Storieinfo

L' atomica iraniana? Non scherziamo. Molto più ravvicinata di una bomba, che il capo dell'Agenzia atomica e Nobel per la pace El Baradei giudica molto di là da venire, c'è la minaccia di una borsa petrolifera in euro, che Teheran persegue attivamente già da qualche anno. Per la supremazia statunitense, fondata sul dollaro come moneta di scambio internazionale, non c'è rischio peggiore dell'avvento del petroeuro, e l'attacco all'Iran potrebbe essere l'unica salvezza per una potenza economica decisamente in declino. I segnali sono numerosi, bisogna soltanto coglierli e leggerli alla luce della politica monetaria globale.

La notizia è passata inosservata ai più ma il 17 ottobre scorso si è verificato un fatto storico: per la prima volta dal 1990 i capitali sono fuggiti dagli States: 163 miliardi sono “scappati” in cerca di lidi più sicuri. La cosa è avvenuta proprio mentre il prezzo del petrolio polverizzava l'ennesimo record, trascinato in alto anche dalla progressiva svalutazione del biglietto verde. Il flusso di capitali stranieri che finanzia il mega-deficit statunitense improvvisamente s'interrompe e, anzi, s'inverte. Il tracollo è particolarmente evidente per i buoni del tesoro a lunga scadenza, foraggiati prevalentemente con i soldi dei cinesi e dei produttori di petrolio, questi ultimi sempre più propensi - finalmente - a investire in casa, ovvero in un boom immobiliare che, così sperano, dovrebbe fornire un'exit-strategy economica all'esaurimento dell'oro nero. Quali sono le ragioni e, soprattutto, quali potrebbero essere le conseguenze di una simile svolta storica?

In principio era il gold standard

«E' un bene che la gente non sappia come funziona il nostro sistema monetario. Perché se così fosse, credo che ci sarebbe una rivoluzione entro domani mattina». Così parlò, secoli fa, Henry Ford, uno che di capitalismo se ne intendeva. Per capire quanto è importante la supremazia del dollaro come moneta internazionale per l'economia statunitense bisogna tornare al luglio del 1944 quando i delegati dei paesi vincitori si ritrovarono a Bretton Woods dove venne definito il sistema di norme e istituzioni che avrebbe regolato gli scambi negli anni a venire.

Fino a quel momento era stato utilizzato il gold standard ovvero un sistema di scambi valutari basati sull'oro: l'unità monetaria di un paese veniva definita in base alla quantità di metallo prezioso che deteneva nei suoi forzieri. In questa prospettiva ogni moneta doveva essere convertibile, cioè chiunque poteva andare alla Banca Centrale e chiedere l'equivalente in oro delle proprie banconote. Il crollo dell'impero britannico, che aveva sostenuto il gold standard, rese necessario un nuovo sistema per stabilizzare le monete. Durante la conferenza Keynes avanzò l'idea di una moneta unica di scambio (il bancor) emessa da un organismo internazionale super partes, ma gli Stati Uniti imposero un sistema basato sul dollaro, con un valore fisso rispetto all'oro. Venne creato il Fondo Monetario Internazionale, ben meno indipendente di come l'aveva pensato Keynes.

Il nuovo sistema - il dollar exchange standard - sancì il ruolo del dollaro come moneta di riserva internazionale, cosa che diede alle autorità monetarie americane un'enorme libertà d'azione con un solo limite: qualunque paese avrebbe potuto chiedere, in qualunque momento, di scambiare i dollari in suo possesso con l'oro. L'espansione del dollaro venne aiutata quando il Piano Marshall inondò l'Europa di dollari (ben 13 miliardi) che servivano prevalentemente per comprare beni americani e petrolio. Le Sette sorelle misero piede nel Vecchio Continente e ci restarono, malgrado le inchieste sull'abuso dei fondi del Piano che seguirono. Per venticinque anni il sistema funzionò alla grande poi, nel 1971, con l'economia europea che marciava a pieno regime, il legame fra oro e dollaro non tenne più.

Gli Stati Uniti erano già nel mezzo di una crisi economica e quando arrivò la guerra del Vietnam nelle casse di Washington si aprì una voragine. Ma gli americani non avevano alcuna intenzione di rinunciare ai vantaggi del dollar exchange standard né di svalutare la propria moneta come chiedevano in molti. Le banche centrali continuarono a finanziare il deficit Usa anche se sempre più paesi cominciavano a pretendere la riconversione del biglietto verde in oro, cosa che svuotò pericolosamente i forzieri di Washington. Così, nell'agosto del 1971, Nixon annunciò la sospensione della convertibilità. Come scrivono Paolo Conti ed Elido Fazi su Euroil : «Fu una mossa spregiudicata e unilaterale, che pose di fatto la comunità internazionale di fronte a un'economia basata su una valuta che non era più legata ad alcun valore misurabile». Secondo l'economista Krassimir Petrov, così facendo «l'America si autoproclamò un impero. Aveva estratto un'enorme quantità di beni dal resto del mondo senza alcuna vera intenzione di restituirli. Il mondo era stato effettivamente tassato e non poteva farci nulla».

Una volta sganciato dall'oro, il dollaro venne cementato al petrolio mediante un accordo segreto stilato nel 1974 con il più forte produttore mondiale, l'Arabia Saudita, che s'impegnò a vendere il proprio greggio esclusivamente in dollari, a usare il proprio peso all'interno dell'Opec per garantire che gli altri paesi membri facessero lo stesso e, non ultimo, a investire i proventi petroliferi nell'economia americana. L'accordo segreto fu sancito dall'acquisto di 2,5 miliardi di dollari in buoni del tesoro Usa da parte del governo saudita, e la tassazione indiretta del mondo continuò indisturbata fino a quando arrivò l'euro.

Arriva l'euro

Alcuni economisti cominciarono studiare la possibilità che il petrodollaro fosse sostituito o quanto meno affiancato dal petroeuro. Nel 2003 Giampaolo Caselli, esperto di economia politica, scriveva: «Tutti i contratti petroliferi sono oggi fatturati in dollari; qualora alcuni Stati produttori dovessero preferire l'euro, il tasso di cambio fra le due valute sarebbe sottoposto a un'ulteriore tensione, e si comincerebbe ad assistere alla sostituzione del dollaro con l'euro come moneta di riserva di molti paesi produttori ed eventualmente da parte della Cina, che ha già annunciato un tale movimento di fronte alla perdita di valore del dollaro». Se, dunque, si stesse profilando la nascita di un sistema di scambi in euro alternativo alle uniche due borse petrolifere esistenti, il Nymex di New York e l'International Petroleum Exchange di Londra, entrambe in dollari, dovremmo aspettarci dalle banche centrali alcuni passi in questa direzione. Ed è esattamente quanto sta accadendo.

E' noto che l'Iran, il Venezuela, la Libia e la Russia già operano transazioni petrolifere in euro ed è quindi normale che differenzino le loro riserve acquistando sempre più divisa europea. Nel corso del 2006 molti paesi hanno annunciato con più o meno enfasi una “differenziazione delle proprie riserve monetarie”: l'ha fatto la Svezia, annunciando la riduzione delle proprie scorte di dollari dal 37 al 20 per cento del totale; l'ha fatto la Cina che, in dicembre, ha diplomaticamente parlato di uno “sganciamento” dal biglietto verde a favore di un paniere di monete, fra cui anche l'euro. Se la Casa Bianca è spaventata dalla mossa di Pechino, che con i suoi 850 miliardi di riserve valutarie in dollari sta praticamente finanziando l'enorme deficit statunitense, il disimpegno di paesi più piccoli come la Siria e gli Emirati Arabi è altrettanto preoccupante. Questi ultimi in particolare, che hanno annunciato la conversione in euro del 10 per cento delle riserve il 22 marzo 2006, potrebbero tirarsi dietro anche la ben più significativa Arabia Saudita danneggiata, come tutti i paesi produttori, dalla svalutazione del biglietto verde. Del resto anche il ministro delle Finanze russo Alexei Kudrin ha apertamente messo sul tavolo la questione della preminenza del dollaro come riserva mondiale a fronte dell'attuale deprezzamento.

Il movimento è così consistente da provocare l'allarme della Banca asiatica di sviluppo (la Adb, nella quale sono presenti gli stessi Usa) che nella primavera del 2006 parlò di un'imminente «tempesta monetaria», tempesta che la Banca decise di affrontare lanciando un paniere di valute sul modello cinese. Infine, ed è forse la notizia più allarmante di tutte, spicca la decisione del nuovo presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, il quale, appena nominato, annunciò che non avrebbe più reso pubblico l'indice delle scorte monetarie (il cosiddetto M3) per la prima volta dalla data della fondazione della Fed, ovvero dal 1913. La cosa è preoccupante visto che, dopo lo sganciamento dall'oro, solo l'M3 garantiva un minimo di controllo sulla quantità di banconote emesse. Ad arroventare il clima già caldo della primavera 2006 arrivarono i primi annunci sull'apertura della Iran Oil Stock Exchange, una borsa petrolifera elusivamente in euro.

La borsa iraniana

L'idea nasce dallo strano connubio fra il consigliere di un ministro del petrolio iraniano, Mohammad Asemipour, e l'ex direttore della borsa petrolifera di Londra e boss della Wimpole, Chris Cook. Nel 2005 i due istituirono un consorzio le cui quote sono così ripartite: il 65 per cento alla Teheran Stock Exchange (o Tse, ovvero la borsa iraniana) e alla Tse Service Company (la compagnia che si occupa della gestione dei servizi della Tse); il 25 per cento alla britannica Wimpole e il 10 per cento al fondo pensioni dei lavoratori petroliferi iraniani. Il consorzio dovrebbe gestire la borsa insieme all'Iran Petroleum Exchange, l'organismo governativo che attualmente cura gli scambi petroliferi, ma una relativa indipendenza dalle ingerenze della Repubblica islamica sarebbe garantita dalla scelta della sede della borsa: l'isola di Kish, porto franco - o paradiso fiscale che dir si voglia - nella quale è già stata allestita una sede attrezzata.

La fuga dal Fondo…

I venti di guerra hanno spazzato via gli annunci. Nel corso del 2007 la famosa borsa iraniana non ha visto la luce però si è aggiunta un'altra crepa all'imponente edificio che ha garantito la supremazia monetaria - e la tassazione indiretta del mondo - della potenza americana: la crisi del Fondo Monetario. In realtà è una perdita di consenso che risale a dieci anni fa, quando una crisi economica senza precedenti sconquassò l'Asia colpendo principalmente i paesi “modello” del Fondo, quelli cioè che avevano applicato con puntigliosità le solite ricette dell'ultraliberismo anni Novanta smantellando con eguale fervore sia gli ammortizzatori sociali che gli strumenti per regolare il flusso di capitali. Come risultato, al minimo accenno di stagnazione delle fiorenti economie asiatiche, gli speculatori presero la palla al balzo portando via dalla regione qualcosa come 100 miliardi di dollari in un paio di mesi. Come scrisse Walden Bello: «Da allora “Mai più” è diventato lo slogan di un gran numero di paesi che hanno pianto lacrime e sangue nell'estate del 1997. In Thailandia il governo di Thaksin ha dichiarato la sua “indipendenza finanziaria” nel 2003, dopo avere saldato tutti i debiti con la promessa che il paese non avrebbe più fatto ricorso al Fondo. L'Indonesia conta di estinguere il debito entro il 2008. Le Filippine non accendono nuovi prestiti da anni mentre la Malesia ha mantenuto gli strumenti di controllo dei capitali introdotti dieci anni fa». Negli anni seguenti, alla crisi di legittimità del Fondo si sono aggiunti nuovi tasselli, con una fuga in massa dei vecchi pupilli come Argentina e Brasile e, ovviamente, del Venezuela di Chavez che sta riuscendo addirittura a concretizzare l'ambiziosa idea di un Banco del Sur alternativo alle istituzioni controllate da Washington.

Ironicamente il saldo dei debiti rischia di mettere seriamente in crisi l'intero assetto finanziario dell'istituzione di Washington che, da anni, fa cassa più con il pagamento degli interessi sul debito dei paesi in via di sviluppo che con i contributi delle potenze economiche del Nord. La decisione di liquidare più rapidamente possibile i debiti pregressi e non chiedere più prestiti ha praticamente dimezzato le risorse del Fondo causando quella che Ngaire Woods, specialista della Oxford University, ha descritto come «una mostruosa stretta nel budget dell'organizzazione». Come se non bastasse i paesi asiatici hanno cominciato ad accumulare capitali che potrebbero servire come fondo d'emergenza se si ripresentasse una crisi come quella che, dieci anni fa, il Fondo non è riuscito a tamponare. Secondo Joseph Stiglitz ben otto paesi hanno più che raddoppiato le loro riserve con la Cina che, da sola, ha accantonato ben 900 miliardi di dollari. Da qui all'istituzione di un Fondo Monetario parallelo a guida asiatica, con il timone nelle mani di Pechino e di Tokyo, il passo è davvero breve.

…e quella da Washington

Nel frattempo anche i capitali privati, come si diceva all'inizio, scelgono lidi migliori. Negli ultimi due anni gli industriali cinesi, i produttori cinematografici indiani o i petrolieri sauditi possono disporre di una gamma di prodotti finanziari non americani impensabile appena dieci anni fa. Come riportava il Sole 24 ore del 14 ottobre scorso «Solo nel 2005 e nel 2006, 70 miliardi di petrodollari sono stati impiegati dai paesi del Golfo per effettuare fusioni e acquisizioni» e, dopo il giro di vite sui movimenti di capitali deciso dall'amministrazione Bush per combattere il terrorismo, le grandi famiglie del Bahrain, dell'Oman, del Qatar e dell'Arabia Saudita hanno cominciato a investire in Europa. Nel 2007, mentre i media ancora discettano sullo scontro fra civiltà, i capitali del Golfo si disputano l'acquisizione della London Stock Exchange.

Dall'altra parte del mondo Pechino lancia la China Investment Corp, un maxi fondo con un portafoglio da 200 miliardi di dollari di riserve valutarie: un colosso che al debutto è già al secondo posto nel mondo - dopo il fondo degli Emirati Arabi. Ora, la Cina ha «un surplus commerciale mensile che si aggira sui 25 miliardi di dollari e quindi una forte capacità di generare capitali da destinare all'acquisto di società europee o americane» come scriveva Luca Vinciguerra da Shanghai sul Sole del 30 settembre. Al di là di cosa potrebbe combinare il nuovo braccio finanziario di Pechino, per il dollaro la notizia non potrebbe essere più nera: non solo nasce un gigante finanziario in grado, prima ancora del battesimo ufficiale, di fare un'offerta sul più grande fondo di private equity statunitense Blackstone, ma è anche un serbatoio nel quale infilare l'enorme liquidità che, fino a pochi anni fa, Pechino riversava nel Tesoro americano.

In questo clima di fuga di capitali e di costante crescita degli scambi in euro, non c'è nemmeno bisogno che Teheran inauguri la sua borsa petrolifera: basta che il blocco formato da Russia, Cina e India utilizzi - come già sta facendo - la moneta europea per acquistare gli idrocarburi iraniani per spingere il dollaro verso il baratro. Alla fine, per fare fronte della tempesta valutaria incombente, chiunque sieda a Washington ha solo due alternative: rinunciare alle velleità imperiali modificando in modo radicale la propria economia oppure scatenare un'altra guerra.

Sabina Morandi
Roma, 4 novembre 2007
da “Liberazione (Settimanale)”