Immigrazione non fa rima con invasione
Dalli all'immigrato: retroscena dell'allarme sicurezza

Gli ultimi dati Caritas parlano chiaro.
Il 3% dei residenti in Italia è costituito da immigrati, siamo lontani dal 6% della Francia e dal 9% della Germania, ma possiamo dire che l'Italia è lentamente divenuta terra di immigrazione stabile e, di conseguenza, utile e produttiva.
La maggioranza di coloro che sono arrivati nell'ultimo anno sono lavoratori in cerca di occupazione (il 65% circa), mentre il 25% viene per ricongiungimento familiare; complessivamente il tasso di disoccupazione fra i migranti è piuttosto basso (il 9% per le donne e l'11% per gli uomini), ma troppo spesso sono costretti all'umiliazione del lavoro nero. In qualche modo, dopo una relativamente breve pausa, l'Italia è tornata ad essere quella che, per posizione geografica e per vicende storiche, è stata per millenni: un luogo di incontro e di mescolanza di culture, di lingue, di usi e di umane passioni.

La versatilità, la vivacità e la creatività, l'arte di arrangiarsi che ci vengono riconosciute sono frutto, antico e continuamente rinnovato, del meticciato culturale e dell'incontro di genti d'Africa, di Europa e d'Asia.

Non ci sarebbero dunque ragioni di allarme, non siamo di fronte ad una invasione e neppure al rischio di uno snaturamento della nostra caleidoscopica cultura. Eppure siamo continuamente pressati dal “pericolo immigrazione”, oppressi dal “totem della sicurezza” come se fossimo minacciati da una incombente sciagura, e ciò nonostante le richieste del mondo imprenditoriale di aumentare l'ingresso di lavoratori stranieri, mano d'opera a basso prezzo, ricattabile, disposta ad una contrattazione differenziata razzisticamente e, anche, al lavoro nero sommerso.

Non si riesce a cogliere la contraddizione fra la richiesta di aumentare il volume del flussi d'ingresso e il rifiuto, la paura, dello straniero stesso, inteso come altro da sé, minaccioso perché diverso, diverso perché guardato con occhi spaventati e mente chiusa. Il problema della sicurezza va dunque indagato fuori da schemi precostituiti, va indagato come un nostro problema, che si cerca di esorcizzare rifiutando il migrante, ma che non cesserebbe di angosciare anche se sparissero di colpo tutti gli stranieri.

Insicurezza: un “nostro” problema

Cerchiamo di dividere la insicurezza globale e diffusa in singole insicurezze elementari e di esaminarle separatamente, senza gerarchie e senza tassonomie rigorose.

Innanzi tutto dobbiamo fare i conti con una perdita di sicurezza esistenziale: l'affermazione dei valori del mercato, come principali valori su cui costruire il modello etico e comportamentale, confligge con la cultura che ha segnato, bene o male, il nostro dopoguerra dalla Resistenza agli anni '80.

La competitività sostituisce la solidarietà; l'affermazione personale sostituisce il lavoro collettivo; porsi problemi non è più un valore, semmai lo è il risolverli presto; il dubbio creativo è segno di debolezza; l'omologazione è rassicurante; l'apparire è l'essere; vincere è un dovere, chi resta dietro è colpevole… ma pochi sono coloro che si affermano e reggono un certo tempo sulla cresta dell'onda. Tutti gli altri sono i perdenti in invidiosa ammirazione dei vincitori e in attesa della inevitabile caduta dei primi.

E' la legge della concorrenza e del mercato, inebriante ed arida.

E' la fonte dell'insicurezza esistenziale. La perdita della sicurezza sociale è una conseguenza della prima insicurezza.

La globalizzazione impone quella precarietà e quella flessibilità che costituiscono l'unico humus in cui può proliferare.

A cosa servono i capri espiatori

L'elenco potrebbe continuare, ma credo che sia sufficiente per capire perché il tema della sicurezza sarà il tema principale delle prossime elezioni.

Non nel senso di proporre ricette politiche per rimuovere le insicurezze, ma, piuttosto, per scaricare le nostre angosce su capri espiatori del tutto estranei: gli immigrati, appunto. Magari con riti propiziatori, come il pestaggio degli stranieri innocenti ad opera delle ronde padane o, a scelta, l'inseguimento della “preda” da parte della polizia della repubblica, come sembra continui ad avvenire a Roma (come scriviamo in questa stessa pagina).

Il fenomeno della clandestinità (spesso indotto da una cattiva legge, dall'operato delle questure, dalla avidità delle imprese) è ingigantito, così come quello della microcriminalità, che le statistiche ufficiali ridimensionano a livelli molto inferiori di quello che riguarda la microcriminalità autoctona.

Tutto viene invece ricondotto alla presenza dei migranti, di stranieri poveri che vengono per lavorare e per sopravvivere a guerre e carestie.

Altri stranieri potenti, che decidono la nostra vita, che dirigono banche internazionali, che orientano la finanza, che prosciugano le risorse di interi popoli, che impongono usi e comportamenti monopolizzando l'informazione, che decidono le guerre, i blocchi e le sanzioni: questi altri stranieri non vengono mai additati come creatori delle nostre insicurezze.

Dovremmo, anche noi comunisti, parlare di più di sicurezza e dire ai cittadini preoccupati e confusi che solo assicurando la cittadinizzazione ai migranti e costituendo con loro un blocco sociale per lottare per sicurezze e diritti comuni, non solo si superano la paure, ma si pongono le basi per far rivivere la speranza.

Carlo Cartocci

Carlo Cartocci
Roma, 17 marzo 2001
articolo da "Liberazione"