Cattolici, disobbedienti ma non solo. Tutti non violenti e unitari.

Il nuovo pacifismo Usa

Gli strateghi del movimento pacifista statunitense sembrano indubbiamente più svegli di quelli militari. Dopo avere registrato 2300 arresti durante le manifestazioni che si sono svolte nell'ultima settimana, il movimento ha deciso di cambiare tattica: dalle grandi marce alle piccole azioni mirate e continue che pur rispettando tutte le regole - perfino quelle relative al passaggio pedonale - possono inceppare il normale funzionamento delle città. In questo modo i vecchi militanti radicali, gli studenti e i giovani che compongono l'ossatura delle "azioni dirette", quelle più visibili alle telecamere e più concentrate nelle grandi metropoli, stanno dando parecchio fastidio all'establishment.

A San Francisco, per esempio, questa nuova tattica capillare non violenta e mirata, sta costando alla città quasi un milione di dollari al giorno. Evidentemente è più facile - e meno costoso - controllare un'imponente manifestazione piuttosto che tenere d'occhio decine di gruppetti che si danno appuntamento nei punti nevralgici della città e inventano i modi più strani per esprimere il loro dissenso. A New York, ieri mattina, è stato organizzato un "die in" in mezzo alla 5th Avenue, proprio dove si concentrano la maggior parte dei palazzi del potere: circa cinquecento persone si sono sdraiate in mezzo alla strada fingendosi morte, ma tenendo ben alti i cartelli contro la guerra e quelli con le foto delle vittime dei bombardamenti. Ma la polizia non ci sta: almeno 140 i manifestanti trascinati via di peso, per essere poi arrestati.

Obiettivo della mobilitazione della settimana lanciata da Direct Action to Stop the War e da United for Peace and Justice (rispettivamente Azione diretta per fermare la guerra e Uniti per la pace e la giustizia) due fra le principali coalizioni statunitensi che raggruppano i militanti, sono le sedi di grandi corporation come Bechtel, Citigroup, Carlyle Group e Chevron Texaco. Lo scopo è duplice: da una parte si tratta di sensibilizzare l'opinione pubblica sui reali obiettivi dell'attacco all'Iraq, dall'altra mettere in guardia gli investitori sull'impopolarità di quelli cui hanno prestato i soldi. I palazzi della Carlyle Group sono stati presi particolarmente di mira per via degli stretti legami con la famiglia Bush e la famiglia bin Laden, entrambi fondatrici di questa enorme finanziaria che controlla un giro d'investimenti mondiale di 14 miliardi di dollari e vanta relazioni politiche ad altissimo livello: oltre a Bush padre, denunciano gli attivisti, il gruppo Carlyle ha stipendiato personaggi come l'ex-primo ministro britannico John Major e l'ex Segretario di stato statunitense James Baker, tutta gente che si è particolarmente distinta nel commercio di armamenti.

Boicottaggio globale

Se a Berlino è sempre più difficile trovare Coca Cola, Budweiser, Marlboro o ristoranti che accettino l'American Express, come segnalava la Reuters due giorni fa, lo si deve anche alla rete pacifista statunitense che ha lanciato e rilanciato la campagna Boycott Brand America (Boicotta i marchi americani), specificamente pensata per colpire le corporation che trarranno maggiormente vantaggi dalla guerra in corso. Nel mirino ci sono i grandi finanziatori del partito repubblicano, come MBNA, Philip Morris, Microsoft, Bristol Myers Squibb, più le aziende direttamente coinvolte attraverso la firma di contratti miliardari sia per le forniture militari che per l'accesso al petrolio e al grande business della ricostruzione come Citigroup, Exxon Mobil, BP Amoco, Chevron Texaco, e Texas Utilities. Seguono a ruota illustri rappresentanti della corporate America come Walt Disney, Pepsi e Coca Cola, Ford e General Motors, solo per citare le più note.

"Immagina" scrive sul suo sito Adbusters - militanti anti-logo diventati famosi grazie al libro di Naomi Klein - "un'azione globale contro le multinazionali statunitensi del petrolio o un giorno in cui tutti i McDonald's restano vuoti da Tokyo a Toronto, da Berlino a Chicago. Immagina 24 ore di balck out dei cinque grandi canali televisivi statunitensi".

Sabina Morandi
Roma, 28 marzo 2003
da "Liberazione"