Gli Usa possono, forse, vincere una guerra sul campo, ma non possono strappare consensi

Tra pace e guerra non c'è terza via

O si sta con Bush o con il movimento

La guerra in Iraq ha già cambiato volto. Cessati i bombardamenti e la furia degli eserciti nelle città, diventa una guerra "a bassa intensità": con le sue vittime, soprattutto civili, le sue battaglie, il suo sanguinoso caos quotidiano, come accade in Afghanistan. Rimarrà, certamente, un'occupazione militare straniera. Il rancore e l'odio, già esplosi nei giorni della guerra guerreggiata, cresceranno nelle piazze arabe. Bin Laden ringrazia: il dolore e il risentimento portano nuove reclute alla lucida follia omicida del terrorismo. Come dopo l'11 settembre, guerra e terrorismo si alimentano a vicenda in una spirale perversa e mortifera della vita e della politica.

Con la schiacciante superiorità della sua macchina da guerra, gli Usa (e i loro alleati) possono schiacciare i Paesi di volta in volta individuati come nemici, terrorizzare con bombardamenti che devastano le città e spianano i mercati, distruggere persone e cose. Ma non possono, forse neppure vogliono, conquistare consensi. Né favorire la crescita di nuove e autonome classi dirigenti. Appunto, possono vincere, non convincere.

La dottrina Bush segna un salto di qualità che cambia non solo il modo in cui sono combattute le guerre ma la loro stessa concezione e percezione. Nel secondo dopoguerra, sono stati tanti i conflitti combattuti: quasi esclusivamente "guerre sporche", guerreggiate dalle grandi potenze per interposta persona. I grandi si fronteggiavano, e morivano gli altri, nel sud del mondo. Ma, nelle coscienze popolari la guerra era cosa da evitare: la si poteva accettare al massimo come difesa o riparazione a una violazione flagrante. In Italia, addirittura, un articolo della Costituzione sanciva il "ripudio della guerra, come mezzo di offesa o di risoluzione delle controversie internazionali". Con la dottrina Bush, invece, lo stato di guerra diviene immanente e permanente: non è più una "continuazione della politica con altri mezzi", è la sua sostituzione in toto.

La guerra permanente

Negli anni scorsi, è stato coniata l'espressione "guerra umanitaria", un ossimoro orrendo. Oggi, si parla, addirittura, di "guerra di contaminazione democratica": la guerra come mezzo per esportare modelli politici e sociali, la così detta "democrazia occidentale". Una pura ipocrisia: i nemici mortali di oggi sono quasi sempre dittatori cresciuti all'ombra dei loro soldi e dei loro cannoni.

Una illusione: il modello nordamericano non solo non è esportabile, ma non è sostenibile dal pianeta.. Esso si fonda sull'esclusione "organica" dal progresso e dallo sviluppo dell'ottanta per cento della popolazione mondiale: oltre un miliardo di persone, come sappiamo, non possono accedere a beni essenziali quali l'acqua.

Il modello della guerra preventiva, dello stato di guerra permanente, è, quindi, il nuovo mostro generato dalla globalizzazione capitalistica e dalla volontà di dominio internazionale ad essa connessa. E', allo stesso tempo, progetto politico di dominio e istanza culturale fondamentalista. E' intimamente intollerante e intrisa di razzismo, perché concepisce le diversità come inferiorità e subalternità.

E' l'altra faccia della globalizzazione neoliberista.

La cifra che ne informa i processi è l'estensione della precarietà e dell'insicurezza, come già accade nelle politiche economiche e sociali, con la distruzione dei sistemi di tutela del lavoro e dei diritti sociali. Che si estende fino al limite estremo della mercificazione e manipolazione del vivente. Ma con la teoria e la pratica della guerra preventiva e dello stato di guerra immanente e permanente, questa condizione di insicurezza e precarietà si estende alle relazioni tra gli Stati e i popoli, detrermina tutti i rapporti social, modifica, perfino, anche quelli tra le persone.

Con la guerra permanente, il Nemico è sempre alle porte, l'instabilità diventa endemica. Non siamo, per dirla con una espressione usata in questi giorni, di fronte a una "nuova Yalta". La guerra è lo strumento per realizzare una condizione di instabilità endemica sul quale fondare il proprio sistema di dominio nel tempo delle crisi generate dalla globalizzazione.

La questione palestinese

La questione palestinese è, allo stesso tempo, cruciale ed emblematica. Quasi tutti gli analisti sono concordi nel riconoscere che dalla sua soluzione dipende non solo la fine di un conflitto sanguinoso ma tutto l'assetto dell'area mediorientale. La formula "due Stati per due popoli" garantirebbe, assieme, i diritti del popolo palestinese e la sicurezza di Israele. Numerose risoluzioni dell'Onu, mai rispettate, vanno in questa direzione. Ci sarebbero, quindi, tutte le condizioni per una forte iniziativa internazionale. Ma perché, invece, dopo dichiarazioni roboanti e promesse solenni, non è successo nulla? Perché, per ora, l'instabilità indotta dalla crisi mediorientale è funzionale alle scelte dell'amministrazione di Washington. Intanto, mentre l'Iraq veniva invaso e bombardato, sono morti in Palestina almeno altre 100 persone.

Guerra contro l'Europa

Questa condizione di instabilità e di guerra immanente, certo, sono anche contro l'Europa. Ma per poter svolgere un ruolo davvero autonomo, per ricostruire la sua unità, il vecchio continente non può, ora, "ricominciare" dal passato. La guerra non è una parentesi, dopo la quale tutto può tornare come prima: l'intero ordine politico e istituzionale internazionale ne è uscito terremotato. Così il ruolo stesso dell'Onu rischia di ridursi a una sorta di Ong mondiale, per distribuire gli aiuti e soccorrere le popolazioni. Ma a decidere saranno solo i vincitori della guerra. Dunque, ancora una volta non ci sono "terze vie": o si salta sul carro del vincitore, e si spartiscono le briciole che esso lascerà cadere, o si chiede il ritiro delle truppe anglo-americane perché la comunità internazionale possa davvero svolgere un ruolo politico di garanzia.

In altri termini, o si sta con il movimento contro la guerra preventiva o si è complici ovvero subalterni a quella strategia di intervento.

La forza del movimento

Sì, il movimento. E' la vera forza in campo che può contrastare la guerra immanente e permanente. Lo può fare davvero perché ha inciso profondamente nella coscienza dei popoli fino a condizionare, parzialmente, le medesime decisioni dei governi. Sicuramente, nessun governo può prescindere dal fare i conti con le istanze che il movimento ha suscitato e la sua forza espansiva.

Sono due le caratteristiche fondamentali di questa straordinaria forza. Il primo è aver capito il carattere strutturale e costituente di questa strategia di guerra e la sua connessione con la globalizzazione neoliberista: così ha ne ha disvelato le contraddizioni, a partire dal carattere profondamente a-democratico degli organismi che ne regolano le decisioni. Il secondo è il carattere radicalmente nonviolento del movimento. Dove la nonviolenza non è vissuta come mediazione o, peggio, appannamento del No alla guerra, ma come capacità di sottrarsi al terreno che la guerra vorrebbe imporre. Grazie a questa consapevolezza, il movimento non è caduto, dopo Genova, nella spirale infinita della violenza\ repressione. Non è stato annichilito dalla coppia guerra\terrorismo. Ed ha saputo sfuggire alla falsa e immiserente diatriba "guerra lunga o guerra corta", cogliendo, al contrario, la dimensione mondiale della sfida, che si vince solo se si è capaci di battersi nella società e nella politica statunitense.

Siamo dentro a un confronto e a una sfida di tempi lunghi. E' questo passo lungo che è entrato dentro la consapevolezza del movimento: una onda lunga che incide nel profondo e cambia la cultura prevalente.

Per questo risulta ancora più errata ogni tentazione di piegare il movimento dentro vecchi steccati o di ridurlo dentro logiche di schieramento degli Stati. Siamo dentro una crisi di civiltà indotta dalle politiche neoliberiste e dalla guerra permanente (le due facce della globalizzazione neoliberista).

Una nuova sfida è aperta per cambiare e salvare il mondo.

Fausto Bertinotti
Roma, 12 aprile 2003
da "Liberazione"