L'Iraq non sarà un altro Libano

«Impediremo la deriva libanese»

Parla lo sceicco Jawad al-Khalisi (Shia), esponente dell'opposizione irachena agli occupanti

«Gli Usa e i loro alleati sostengono di voler portare la democrazia in Iraq ma quel che stanno facendo, promuovendo il confessionalismo religioso e le divisioni etniche, impedendo al popolo iracheno di governarsi e rispondendo con la forza bruta alla resistenza di tanta parte dei nostri cittadini, è esattamente il contrario. Dicono di voler prevenire il caos e la guerra civile quando sono loro con la loro politica che stanno generando questi mostri».

Lo sheik sciita Jawad al-Khalisi esponente della Conferenza Nazionale Irachena Indipendente, un organismo composto dai più importanti esponenti sciiti, sunniti, laici e nazionalisti iracheni che si propone di coordinare l'opposizione politica all'occupazione e di proporre (con la discreta benedizione dell'ayatollah al Sistani, massima autorità religiosa del paese) un governo unitario di transizione, ci esprime con queste parole la sua indignazione per i drammatici fatti di queste settimane che hanno provocato oltre 1000 morti.

Ci riceve nalle sua madrasa in un vicolo oscuro a pochi passi dalla stupenda moschea di Khadimiya con la famosa cupola d'oro circondata da quattro minareti, costruita nella sua forma attuale nel 1500 dal sultano Suleiman il magnifico. Si tratta di uno dei più importanti monumenti dell'Iraq e dell'Islam al quale accorrono milioni di pellegrini sciiti da ogni parte del mondo che si accampano con tutte le loro famiglie, tra thermos e bambini urlanti, nel grandissimo cortile esterno o pregano nella grandi sale interne con le pareti ricoperte da milioni di mattonelle a specchio. Fuori si vende di tutto e il profumo delle spezie copre, non sempre, la puzza della fogna a cielo aperto che scorre al centro delle stradine.

Ma proprio in quanto luogo di ritrovo, di preghiera e di studio, Khadimiya ha avuto sempre una grande importanza anche dal punto di vista politico. Una storia che scorre sui muri della madrasa dove ci troviamo e dove, tra migliaia di libri che ricoprono le pareti troviamo, accando al ritratto del grande aytollah al Sistani, la «fonte di ispirazione» per tutti gli sciiti, il ritratto del nonno dello sheik Jawad, sheik Mahdi al Khalisi, il primo «marja» protagonista della rivoluzione «nazionalista» del 1920 contro il mandato britannico e sostenitore di «uno stato iracheno arabo da Mosul al Golfo». Un'eredità che lo sheik Jawad non sembra preoccupato di assumersi e che lo ha portato a promuovere, con gli altri membri della Conferenza nazionale, un'assemblea che si terrà tra una decina di giorni a Baghdad per dar vita ad una leadership unitaria della resistenza politica e per proporre un articolato progetto di transizione alla sovranità irachena.

«Il problema è l'occupazione -risponde Sheik Jawad dopo averci offerto il suo ottimo the - e quindi la sua soluzione è la fine dell'occupazione: Uscita immediata delle forze di occupazione dalle città irachene. Affidare alle Nazioni unite la gestione della transizione ma come protagoniste del processo, non come semplice copertura dell'occupazione. Formazione di un governo rappresentativo secondo criteri politici «nazionali» e non confessionali o etnici, incaricato di preparare le elezioni del gennaio 2005. Entro il 30 giugno le forze occupanti dovrebbero cominciare il loro ritiro da completarsi nel giro di due, tre mesi. Il nuovo governo potrà richiedere la presenza di forze esterne sotto comando Onu formate da paesi che non hanno fatto la guerra e non hanno occupato il nostro paese».

Durissima la posizione dello sheik Jawad sulla missione Brahimi: «Nella sua visita, come lui stesso ha confessato ai suoi collaboratori, è stato praticamente prigioniero degli Usa che non gli hanno fatto incontrare nessuno degli esponenti che si oppongono all'occupazione dell'Iraq, e questo si vedrà anche dalle sue proposte».

Secondo quanto sostiene il responsabile della Conferenza nazionale irachena, sulla base di indiscrezioni al palazzo di vetro, Bremer e Brahimi avrebbero intenzione di designare il prossimo governo di transizione su basi etnico-religiose con un presidente sunnita, un vice kurdo e un presidente del parlamento sciita, una ricetta che in Libano ha portato alla guerra civile e al blocco di qualsiasi autonomia decisionale: «La struttura istituzionale libanese -ricorda lo sheik Jawad - non solo ha provocato la guerra civile ma ha reso il governo, sempre diviso, dipendente dalle decisioni di Damasco. Qui gli americani vogliono creare la stessa situazione in modo da costringerci a non poter decidere da soli e a chiedere il loro aiuto».

Dopo essere uscito un attimo a sbrigare un affare urgente con uno dei notabili che affollano il cortile della scuola sotto lo sguardo discreto di numerose guardie armate, sheik Jawad si lancia in una requisitoria contro l'introduzione del confessionalismo promossa dagli americani in Iraq: «Sia nello stato democratico occidentale nato con la rivoluzione francese, sia nella concezione di uno stato islamico democratico, la base dei diritti sta nell'essere cittadini di questo stato non nell'appartenere a questa o a quella comunità religiosa, sunniti, sciiti, cristiani, ebrei, sabei , Yazidi o etnica, arabi, curdi, turcomanni assiri etc. Questo non è un modo per democratizzare l'Iraq ma per polverizzarlo».

Ma gli iracheni potranno esprimere una leadership unitaria e bloccare il proliferare delle milizie armate? «In primo luogo - risponde sheik Jawad sorridendo, quasi si aspettasse la domanda - le milizie armate che scorazzano nel paese sono un frutto dell'occupazione dal momento che i loro leader sono tutti nel Consiglio di governo designato da Bremer, ed è singolare che l'unico gruppo armato che vogliono sciogliere sia quello di Moqtada al Sadr. Il problema non è quindi che si tratta di una milizia ma che questa si oppone all'occupazione. In ogni caso ridate il governo agli iracheni e gli iracheni se ne occuperanno. In secondo luogo nelle consultazioni in corso da un anno abbiamo unitariamente indicato decine di possibili primi ministri per un governo di garanzia incaricato di convocare nuove elezioni, rappresentanti dell'unità nazionale, come ad esempio Naji Taleb, già ministro ai tempi di Abdel Salam Aref a metà degli anni sessanta, sciita del sud, o Abdel Qarim Hani sunnita, già ministro nei primi anni sessanta.

Personaggi, al pari di tanti altri, di garanzia e di provata onestà». «Saranno queste le proposte della prossima assemblea nazionale?» chiediamo a sheik Jawad prima di salutarlo. «Innanzitutto esprimeremo -ci dice - una leadership nazionale unitaria irachena che si opponga con chiarezza all'occupazione e costruisca un nuovo futuro democratico per il nostro paese. Il resto verrà dopo. Ma verrà. L'Iraq è un grande paese, non una accozzaglia di tribù o di fanatici come tanti vorrebbero che fosse».

Stefano Chiarini
Khadimiya (Iraq), 21 aprile 2004
da "Il Manifesto"