In Medio Oriente le tensioni accumulate in decenni di declino economico, guerre, disoccupazione di massa, oppressione religiosa e nazionale, e tutti gli altri problemi provocati dal capitalismo e dall’imperialismo, hanno raggiunto un livello non più sopportabile.

La guerra in Iraq e l’imminente crollo della monarchia saudita

La situazione che va delineandosi in Arabia Saudita è probabile che peggiori, da quanto non sia già estremamente seria e degeneri in una vera e propria catastrofe dal punto di vista delle maggiori potenze.

Il cosiddetto “trasferimento di poteri” all’Iraq ha dato al popolo di un paese devastato e immerso nel sangue - e, in verità, a tutti i popoli del mondo - una nuova lezione sulla tragica realtà della “democrazia” imperialista. Non meno del precedente “ad interim”, questo è un governo di paglia composto da traditori e criminali, incaricato solo di aiutare l’imperialismo USA nel saccheggio e nella repressione ai danni del popolo iracheno.

Il primo ministro Iyad Allawi è stato per parecchi anni sul libro paga della CIA. Il presidente nominato dall’amministrazione USA, Ghazi Al Yawer, è un ricco protetto della monarchia saudita e capo di una delle più potenti tribù sunnite. Inoltre, circa 200 funzionari USA lavoreranno come “consiglieri” al nuovo governo, tanto per essere sicuri che quali che siano le decisioni prese dai ministri, esse siano in stretta rispondenza agl’interessi dell’imperialismo americano. Questo è ciò che chiamano “ritorno alla sovranità”.

Il primo atto di questa cricca di mercenari è stato la dichiarazione di uno stato d’emergenza di fatto, in cui siano previsti speciali poteri per sciogliere associazioni, condurre indagini in maniera del tutto arbitraria ed imporre coprifuoco a piacimento. Tuttavia, nella pratica, aver adottato misure del genere non cambia granché la situazione, nella misura in cui il popolo iracheno vive sotto la dittatura dei comandanti militari USA dalla caduta di Baghdad.

Il tentativo dei media capitalisti di presentare tutto questo come il “primo passo” verso la democrazia è del tutto ipocrita. Avere un governo di iracheni non cambia assolutamente nulla dal punto di vista del popolo e cambia ancor meno da quello dell’alleggerimento della situazione per le forze occupanti, sempre più impantanate in un incubo politico e militare del quale non si vede la fine e che, nel lungo termine, li porterà alla sconfitta.

La resistenza di massa all’occupazione

L’occupazione dell’Iraq implica instabilità permanente e sempre più grave, per il semplice fatto che gli occupanti non hanno nessuna base di sostegno nel paese, mentre le manifestazioni di massa e le azioni di resistenza contro l’occupazione straniera sono quotidiane.

Sebbene sia vero che nel nord, a maggioranza curda, gli USA non hanno incontrato grande resistenza, tuttavia anche lì la situazione è potenzialmente esplosiva. La Turchia ha detto a chiare lettere che non accetterà mai l’autonomia per i curdi nell’Iraq del nord. E’ chiaro infatti, che l’autonomia ai curdi iracheni scatenerebbe rivendicazioni analoghe anche da parte di quelli turchi. In tutto questo, l’amministrazione Bush prende tempo, cercando di rassicurare sia i curdi iracheni che il governo turco, ma questo doppio gioco non può reggere per sempre. Alla fine, il solo modo che Washington avrà per evitare un intervento militare turco, sarà quello di procedere al disarmo dei curdi iracheni, e questo, inevitabilmente, porterà ad una nuova guerra.

Nel frattempo, in tutto il resto del paese la popolazione è accecata dall’odio per le forze imperialiste. In un contesto di completa distruzione economica, con la disoccupazione di massa che supera il 40%, il petrolio iracheno e le altre risorse naturali del paese sono saccheggiate dalle rapaci “imprese” vicine all’amministrazione Bush.

Secondo fonti ospedaliere e stime delle associazioni in difesa dei diritti umani, le truppe occupanti hanno ucciso circa 20.000 e ferito non meno di 50.000 iracheni. I soldati americani ed inglesi fanno blitz notturni, sfondano le porte e picchiano intere famiglie, spesso uccidendo uomini, donne, bambini. Facendo irruzione nei quartieri e nei paesi, hanno arrestato migliaia di iracheni in retate indiscriminate, e molti degli arrestati sono lasciati marcire per settimane e mesi in celle minuscole, alla mercé delle sadiche “tecniche d’interrogatorio” dei mercenari in subappalto. I pestaggi, le torture, gli stupri, sono all’ordine del giorno.

Un gran numero di città sospettate di ospitare degli insorti sono state completamente devastate. Le zone popolari adiacenti alle zone di guerriglia in cui le truppe o gli elicotteri sono stati attaccati, vengono sottoposte ad imponenti bombardamenti aerei. Questa tattica di “scoraggiamento delle insurrezioni” ha avuto però l’effetto opposto, e convincono nuove schiere di giovani e di lavoratori a passare nelle file della resistenza. Le organizzazioni attivamente coinvolte nella lotta armata crescono sempre più di numero sono sempre più capaci militarmente, e sempre più audaci. Molte città, come Falluja, Kerbala e Najaf, insieme a molte zone periferiche di Baghdad, sono di fatto, ed efficacemente, off limits per le truppe occupanti.

La resistenza è stata particolarmente forte nelle zone sunnite, in cui si sono formate numerose organizzazioni combattenti, in parte composte da ex militari e graduati dell’esercito iracheno. La resistenza sta conquistando alla sua causa un numero sempre crescente di giovani e di lavoratori dei servizi pubblici. L’ex proconsole americano in Iraq, Paul Bremer, sciolse l’esercito iracheno e licenziò tutti i lavoratori dei servizi che fossero membri del partito Baath. Solo quest’ultima misura ha comportato il licenziamento di 450.000 persone. Per tutti questi, come per milioni di altri iracheni che tentano disperatamente di ritagliarsi un’esistenza in nel caos e nella confusione generali, la lotta contro la dominazione straniera è questione di vita o di morte, essendo in gioco la sopravvivenza stessa, per sé e per le proprie famiglie.

La forza della resistenza si è manifestata nella sconfitta degli americani a Falluja, nonostante l’impressionante bombardamento cui la città è stata sottoposta dell’artiglieria e dall’aviazione USA. A parte brevi incursioni nelle periferie della città, i generali americani sono stati costretti ad ammettere che gli era impossibile mantenere alcuna presenza militare stabile in città. In un numero crescente di città sunnite, compresa Tikrit, gli attacchi continui delle forze insorte hanno efficacemente imposto la ritirata alle truppe d’occupazione.

I portavoce della Casa Bianca, alla cattura di Saddam Hussein, annunciarono trionfanti che si trattava di un passaggio chiave verso la sconfitta della resistenza sunnita: dovrebbe essere abbastanza chiaro a tutti che non è proprio così. Al contrario, le autorità americane in Iraq ammettono a microfoni spenti che la cattura dell’ex dittatore non ha fatto altro che rafforzare la partecipazione al movimento di resistenza.

Gli sciiti

Sotto Saddam Hussein, gli sciiti, che sono circa il 65% della popolazione, erano un settore particolarmente oppresso della società irachena. I pellegrinaggi ai sacri sepolcri di Kerbala (dove Hussein, il nipote di Maometteo, fu ucciso) e di Najaf (dove è sepolto Alì, genero e cugino di Maometto) erano proibiti. Tutta la popolazione sciita era sottoposta a una costante repressione ed a tutta una serie di massacri. Nel 1991, le forze d’invasione USA arrestarono la loro offensiva ed aprirono un varco perché le truppe inviate da Saddam potessero schiacciare la rivolta sciita. Il risultato fu un massacro di 30.000 tra uomini, donne e bambini.

Nella comunità sciita, l’opposizione sta rapidamente guadagnando sostegno e tutta una serie di tendenze diverse si stanno organizzando. Il leader spirituale più importante è l’Ayatollah Ali Al Sistani. Le autorità USA avrebbero voluto coinvolgerlo nel governo, ma quest’ultimo non l’ha riconosciuto, sostenendo, invece, che l’unico governo che gli iracheni avrebbero potuto riconoscere sarebbe stato un governo regolarmente eletto. Generalmente considerato “moderato”, Al Sistani insiste comunque sull’immediata partenza delle truppe straniere. Dato che gli sciiti sono la maggioranza della popolazione irachena, e vista l’autorità di Al Sistani, i suoi sostenitori avrebbero certamente la maggioranza in caso di libere elezioni, ma un regime sciita in Iraq è un’eventualità che l’imperialismo USA deve evitare a tutti i costi.

L’armata del Mahdi, guidata dal religioso sciita Moqtada Al Sadr, è attiva nella resistenza armata contro gl’imperialisti ed i collaborazionisti iracheni. Le sue unità sono ben organizzate e disciplinate, composte da combattenti giovani ed audaci. L’amministrazione USA ha disperatamente cercato di “trattare” con Al Sadr, e, allo stesso tempo, continuava a dire pubblicamente che era sulla lista dei ricercati “vivi o morti” e gli si sarebbe sparato a vista! Al Sadr ha una base forte, ed in crescita, tra i settori più radicali della gioventù sciita, ma le forze a sua disposizione sono ancora troppo esigue per scatenare l’offensiva finale generalizzata contro l’occupazione.

La tendenza di Abdul Aziz Al Hakim è sostenuta dal regime iraniano. Al Hakim ha partecipato al “consiglio del governo provvisorio”. Suo fratello, l’ayatollah Mohammed Baqir Al-Hakim, tornò in Iraq al seguito delle armate imperialiste, e fu ucciso a Najaf nell’agosto del 2003. L’attuale ministro delle finanze, Adel Abdel Mehdi, è un ex comunista, che ora appartiene alla tendenza di Al Hakim. Un’altra tendenza collaborazionista è quella che era guidata da Abdel Majid Al Khoei, rimpatriato dalla Gran Bretagna nella prima settimana dell’aprile 2003, ed immediatamente assassinato a Najaf. Al Khoei lavorava anche per i servizi britannici, ed il suo ritorno a Najaf era visto come “pacificatore” all’indomani dell’invasione USA della città.

Le masse sciite comprendono bene che delle libere elezioni porterebbero ad un governo sciita, ponendo definitivamente fine al pericolo di una rinnovata oppressione da parte di governanti che si basassero sulla minoranza sannita. E’ proprio questa prospettiva di soluzione “pacifica” che, fino a questo momento, ha consentito ad Al Sistani di controllare la sua base. L’imperialismo USA, tuttavia, non può consentire tale via d’uscita, che immediatamente scatenerebbe la popolazione sunnita, che a quel punto non avrebbe altra prospettiva che quella di diventare una minoranza oppressa, e creerebbe gravi difficoltà per il regime saudita. La posizione moderata di Al Sistani sta, al momento, perdendo terreno rispetto ai movimenti radicali che sostengono la lotta armata, e specialmente rispetto ad Al Sadr, pertanto le forze occupanti stanno cercando di ammazzare Al Sadr, nella speranza di bloccare questo processo.

I partiti dei lavoratori ed i sindacati

La dura repressione, prima e durante il regime di Saddam Hussein, eliminò le organizzazioni operaie indipendenti. Il PC iracheno fu distrutto, i suoi membri furono imprigionati, uccisi o costretti alla clandestinità. Il movimento operaio non si è ancora ripreso da quella sconfitta, e la mancanza di una leadership basata su un programma socialista ed internazionalista ha fatto sì che le redini del movimento di resistenza contro l’occupazione siano nelle mani di nazionalisti, religiosi fondamentalisti ed altri elementi reazionari. Il compito più importante in Iraq, al momento, è quello di costruire un movimento indipendente ed organizzato della classe operaia.

A Baghdad, Bassora ed altre città, organizzazioni operaie indipendenti e strutture sindacali cominciano a formarsi. Tuttavia, il contesto generale di un crollo generalizzato della struttura economica implica che la nascita di una organizzazione dei lavoratori, indipendente e di massa, è una prospettiva piuttosto improbabile nel breve termine. L’amministrazione USA sta cercando di stroncare alla nascita ogni sviluppo di organizzazioni simili, fondando dei sindacati controllati dagli elementi collaborazionisti e finanziata dal dipartimento di stato, utilizzando l’ILO (Organizzazione internazionale del Lavoro, un’agenzia ONU, NdT) come copertura. In ogni caso, però questo non impedirà al movimento operaio di svilupparsi in futuro.

Sotto Saddam Hussein, i dirigenti principali del PC furono esiliati e, particolarmente dopo l’operazione “Desert Storm” del ’91, iniziarono ad intessere legami con l’amministrazione USA ed altre potenza imperialiste occidentali, tanto che, per tutti gli anni ’90, sostennero l’embargo. Secondo l’UNICEF, l’embargo ha ammazzato non meno di un milione e duecentomila iracheni, di cui almeno mezzo milione di bambini. Anche il PC ha partecipato al “consiglio provvisorio” imposto dagli americani subito dopo la caduta di Baghdad, ed è presente tuttora al “governo”, che in realtà non governa nulla, in cui ha il ministero della cultura.

La dirigenza del PC giustifica la partecipazione al governo sostenendo che questa è la tattica migliore per accelerare la partenza delle truppe della coalizione. Sostiene, inoltre, che la rivolta armata non fa altro che allungarne i tempi, ed utilizza il fatto che vi siano fondamentalisti e baathisti a guidare la resistenza, per denunciarne il carattere reazionario ed antidemocratico. Aggrappandosi alla scadenza del 2005, in cui, se tutto va “secondo i piani”, la democrazia sarà ristabilita e le truppe straniere se ne andranno, il PC oppone elezioni democratiche immediate a causa della “continua violenza”. Se questa è la linea dei dirigenti, tuttavia, sia in patria che all’estero, molti militanti del PC avanzano pesanti dubbi su questa posizione collaborazionista.

Un’altra organizzazione operaia, il Partito Comunista Operaio Iracheno (PCOI), ha la sua base di massa soprattutto nel Kurdistan, ma dalla caduta di Baghdad, seppure non di grandi dimensioni, si è organizzato e sta crescendo anche nella capitale, con un lavoro importante tra i disoccupati e le donne. Pubblica regolarmente un giornale, Al Sharila (I lavoratori), e conta al momento, tra i cento ed i duecento iscritti a Baghdad.

Il morale delle truppe occupanti è in caduta libera

L’assenza di qualunque base sociale per gli occupanti si riflette nel completo fallimento del tentativo di organizzare una forza militare irachena affidabile da affiancare alle truppe inglesi ed USA. L’amministrazione USA sostiene di aver reclutato 30.000 uomini, ma molti rapporti dalle zone d’operazione ridimensionano la cifra attorno ai 12.000. Inoltre, solo una parte di questi ha potuto completare un addestramento decente. In definitiva, si stima che, al momento, non ci siano più di 5.000 soldati iracheni pro coalizione che potrebbero essere impiegati in combattimento.

La miseria è il fattore che recluta la massima parte degli uomini di questa forza collaborazionista, e non è un fattore granché motivante per un esercito il cui obiettivo dovrebbe essere quello di fare operazioni punitive per conto di una potenza straniera. Le diserzioni delle reclute irachene sono frequenti, così come gli atti d’insubordinazione. Il morale è chiaramente molto basso. Un documentario, trasmesso recentemente dall’emittente franco-tedesca Arte, ha mostrato delle interessanti immagini a proposito delle vere condizioni di queste forze “lealiste” irachene. Il documentario apre con un comandante iracheno che spiega perché i suoi uomini non vogliono farsi vedere nelle strade: “La gente ci considera dei traditori, alcuni dei miei uomini sono già stati uccisi, ed alle loro famiglie sono state offerte somme ridicole come risarcimento. Non sono pagati abbastanza per mettere a repentaglio le proprie vite”. Le autorità USA hanno, alla fine, concesso degli aumenti di paga, ma pochi giorni dopo, quando centinaia di dimostranti chiedevano il rilascio di alcune donne prese in una retata la notte precedente, dei soldati iracheni nemmeno l’ombra. La folla inferocita temeva che le donne fossero violentate o torturate. Il comandante americano, alla fine, riesca a rintracciare quello iracheno, ma i suoi uomini continuavano a rifiutarsi d’intervenire, nonostante l’aumento: “Mostrarsi avrebbe significato esser uomini morti”.

Quanto raccontato da Arte non è certo un episodio isolato se perfino Rumsfeld, riporta Le Monde il 26 giugno 2004, è stato costretto ad ammettere che “nessuno si aspettava che le forze di sicurezza irachene sarebbero state costrette a far fronte a combattimenti cruenti quali quelli che hanno dovuto affrontare a Falluja, Najaf o Kerbala nell’aprile scorso. Non ci sorprende che numerose unità di sicurezza irachene abbiano ottenuto risultati scarsi nelle recenti situazioni di combattimento”. È evidente come Rumsfeld sia dotato sia nella nobile arte del basso profilo come in quella della menzogna spudorata. Quelli che lui chiama “risultati scarsi” delle unità irachene, nelle situazioni da lui indicate, altro non sono che, in alcuni casi, la fuga per mettersi in salvo, o addirittura, in altri, il rivolgere le proprie armi contro gli americani.

Il morale sta crollando tra le truppe USA stesse. Ai soldati americani avevano detto di far parte di una “forza di liberazione” che avrebbe portato democrazia e prosperità, mentre ora si ritrovano circondati da una popolazione ferocemente ostile ed invischiati in continue operazioni antisommossa. Gli effetti di tutto questo sul loro morale sono venuti fuori in un’indagine fatta fare ad hoc dal comando dell’esercito, che difficilmente immaginiamo abbia gonfiato la cosa. I risultati, pubblicati dal San Francisco Chronicle il 27 marzo 2004, mostrano che il “70% degl’intervistati definiva il morale dei propri compagni basso o molto basso”. Il problema si fa ancor più grave per i gradi inferiori e per le truppe della riserva, continua il Chronicle, “quasi il 75% dei militari ritiene che la qualità del comando, a livello di battaglione, sia piuttosto scarsa, e non si curi granché dei soldati”. Il rapporto continua: “lo studio è stato promosso dall’esercito a seguito della preoccupazione che il gran numero di suicidi provocasse disordini mentali ai soldati in Iraq. […] Il Pentagono è molto preoccupato dal fatto che i turni di combattimento, sempre più lunghi e frequenti, portino i soldati ad abbandonare l’esercito piuttosto che ad offrirsi di nuovo volontari, specie se si tratta di un’altra missione in Iraq o in Afghanistan”.

Prima della guerra, in una serie di note per lo studio ovale, Rumsfeld e Wolfowitz sostenevano che la conquista e l’occupazione dell’Iraq sarebbe stato un cakewalk (letteralmente “passeggiata per la torta”, dal nome di una gara di ballo degli schiavi in cui questi ridicolizzavano le movenze delle danze formali dei loro padroni, chi vinceva aveva una fetta di torta in premio in senso figurato significa qualcosa di estremamente semplice, l’espressione è molto evocativa e nota negli USA tanto che Country Joe, noto cantautore che ai tempi scrisse album interi contro la guerra in Vietnam, ha scritto una canzone ad hoc “Cakewalk to Baghdad”, molto conosciuta negli USA, in cui sbertuccia la faciloneria e denuncia la ferocia dell’amministrazione Bush, NdT), e che i soldati americani sarebbero stati salutati come eroi e liberatori. Oggi, nonostante le dichiarazioni ottimistiche fatte alle conferenze stampa alla Casa Bianca o al Pentagono, gli strateghi dell’imperialismo Americano debbono essere piuttosto terrorizzati dalla piega che stanno prendendo gli eventi. Il governo fantoccio messo in piedi a giugno è nato già screditato in partenza. Le risorse finanziarie e militari del governo USA sono spremute ben oltre i loro limiti, e da questo punto di vista nessun altro paese può dare un contributo significativo. In tutto questo, centinaia di soldati sono stati uccisi, mentre altre migliaia sono stati feriti, mutilati, o stanno morendo, tenuti nascosti negli ospedali militari in Germania o altrove. Gli oleodotti sono costantemente sabotati, ed i convogli attaccati dalla guerriglia. La situazione, in definitiva, sta sfuggendo loro di mano. Dal punto di vista militare, con l’allargamento della resistenza popolare, i problemi che le forze occupanti si troveranno ad affrontare non possono far altro che aumentare. Prima o poi, in un contesto di miseria crescente ed incoraggiata dai successi della resistenza armata, ci sarà un’insurrezione popolare di massa a Baghdad.

L’imperialismo Americano si trova di fronte ad un terribile dilemma. Rimanere in Iraq significa una guerra ancora lunga e costosa, in cui moriranno centinaia di altri soldati. L’opposizione alla Guerra può solo aumentare in patria, e questo, a sua volta, avrà un effetto sui soldati, che saranno in misura crescente contrari, essi stessi, alla guerra. D’altro canto, venire via sarebbe una sconfitta bruciante, che lascerebbe la posizione USA nel Medio Oriente ancor più precaria che prima dell’invasione. Mentre le difficoltà aumentano su tutti i fronti per ciò che riguarda la situazione in Iraq, altri, insormontabili, problemi emergono in altre parti della regione. In particolare, la situazione che va delineandosi in Arabia Saudita è probabile che peggiori, da quanto non sia già estremamente seria e degeneri in una vera e propria catastrofe dal punto di vista delle maggiori potenze.

Declino ed instabilità in Arabia Saudita

Alla morte di Ibn Saud, nel 1953, l’Arabia Saudita era il quarto produttore mondiale di petrolio. Oggi le sue riserve ammontano a 263 miliardi di barili, ed è il primo produttore mondiale. Nel 2003, è stato il principale fornitore di petrolio per gli USA, si capisce dunque perché l’esistenza di un regime affidabile è di vitale importanza. La classe dominante USA capisce bene che qualsiasi minaccia alla monarchia saudita sarebbe non solo un attacco diretto e potenzialmente devastante alle proprie forniture petrolifere (e quindi a tutti i propri interessi industriali e finanziari), ma metterebbe in discussione l’intera posizione strategica complessiva dell’imperialismo statunitense, nel Medio Oriente e su scala mondiale.

Le preoccupazioni sulla stabilità del regime saudita sono state il fattore principale per decidere l’invasione in Iraq. Infatti, dopo l’Arabia Saudita, l’Iraq ha le seconde riserve più importanti della regione (112 miliardi di barili), per cui di fronte alla terribile prospettiva di un rovesciamento della monarchia saudita, gl’imperialisti americani hanno voluto almeno assicurarsi il controllo delle riserve irachene. Non solo, ma se la monarchia saudita dovesse crollare, l’Iraq potrebbe sempre essere utilizzato come base d’appoggio per un’offensiva sui pozzi, le raffinerie, gli oleodotti ed i terminali d’esportazione del petrolio che sono sul Golfo Persico, ad est di Riad. Almeno, queste erano le intenzioni degli strateghi del Pentagono mentre preparavano la “passeggiatina pomeridiana” in Iraq. Oggi, 16 mesi dopo l’invasione, con 135000 soldati ancora bloccati in Iraq ed altri 80000 coinvolti in operazioni affini nella regione, la polveriera al confine sud-ovest dell’Iraq sta per esplodere.

L’economia saudita è massicciamente dipendente dal settore petrolifero. Le entrate dalle esportazioni di petrolio sono il 90% del totale dell’export, il 75% di tutte le entrate dello stato, all’incirca il 40% del PIL. Per diversi decenni, i cospicui introiti dalle esportazioni di petrolio hanno dato una spinta formidabile alla crescita dell’economia nazionale ed hanno condotta ad una rapida espansione delle principali città. Fino alla metà degli anni ’70, il tenore di vita medio cresceva stabilmente e costantemente, ma dall’inizio degli anni ’80, gli standard di vita hanno cominciato ad arenarsi ed infine a declinare. Secondo alcune stime, il tasso di disoccupazione ammonta oggi al 25% della popolazione maschile. Dati per la disoccupazione femminile, ovviamente, in Arabia Saudita non sono disponibili.

Le entrate pro capite dall’export petrolifero sono scese drasticamente negli ultmi 20 anni, da 22,2 dollari a 3,4 tra il 1980 ed il 2003. Se in parte questo è dovuto al raddoppio della popolazione giovane dal 1980, è pur vero che sono le entrate stesse in termini reali che sono crollate. La recente debolezza del dollaro - la divisa in cui si regolano i contratti petroliferi - ha causato un peggioramento netto delle ragioni di scambio saudite. I deficit statale e commerciale sono aumentati costantemente. Inoltre, gli USA costrinsero l’Arabia Saudita a contribuire in maniera considerevole ai costi della prima guerra contro l’Iraq, nel 1991, e questo peggiorò le condizioni del debito pubblico, che oggi viaggia attorno al 100% del PIL.

I membri della famiglia reale si mangiano una percentuale spaventosa delle entrate nazionali, la maggior parte delle quali sono investite all’estero in tutta una serie di lucrosi business industriali, finanziari, immobiliari. Il flusso costante di capitali in uscita dal paese, le enormi spese statali in armamenti e sicurezza interna - attorno alle installazioni petrolifere ci sono stabilmente 3000 guardie armate - frena ulteriormente lo sviluppo complessivo dell’economia.

Il regime saudita trae la sua legittimazione dal fatto che è il “custode della Mecca” ruolo fatto discendere da un’interpretazione particolarmente rigida della dottrina religiosa islamica, conosciuta come wahabismo. Sviluppando il potere e l’autorità dei religiosi, le moschee sono state utilizzate per imporre la più totale sottomissione agli editti della famiglia reale. Ogni critica al regime, od alla sua interpretazione dell’islam, particolarmente oppressive nei confronti delle donne, viene punita severamente. Dunque attraverso il potere religioso, la repressione poliziesca ed il diffuso utilizzo di spie e delatori, la famiglia reale e le autorità religiose sradicano e schiacciano senza pietà qualsiasi tendenza d’opposizione nella società.

Tuttavia, dal 1980 in avanti, in un contesto di declino economico e disoccupazione crescente, si registrano chiari sintomi di crescente malcontento popolare contro la famiglia reale. L’austero e soffocante “purismo” della dottrina wahabita che i principi dichiarano di professare è in stridente contrasto con la loro ostentazione di ricchezza, potere, corruzione, e bella vita - le prostitute d’alto bordo nei paesi occidentali, la proprietà dei casinò e quant’altro. Consapevole della crescente instabilità del suo potere, la famiglia reale si è affidata sempre di più ai leader spirituali per legittimare il proprio potere ed il controllo sociale. Tuttavia, per la completa assenza di strutture organizzate attraverso le quali l’opposizione potesse far sentire la propria voce, l’ostilità alla cricca dominante si raccoglie proprio nelle moschee attorno al wahabismo più radicale. Sempre di più, infatti, i religiosi wahabiti mettono in discussione il potere della casata dei Saud, che vedono come un pericolo per la loro stessa autorevolezza e per il loro stesso potere. Dunque, per mantenere il controllo sociale, tendono ad allontanarsi dalla famiglia reale.

L’operazione “Desert Storm” del 1991 e l’installazione di basi militari USA sul territorio saudita ha segnato un punto di svolta, portando migliaia di persone all’opposizione. Il bollettino Stratfor (Strategic forecasting, in italiano “Previsioni strategiche” è una società di consulenza che vende alle aziende private analisi strategiche su cosa succede nel mondo, per intenderci, sul suo sito si definisce una “quasi CIA privata”, NdT) del 30 gennaio 2004 sottolinea l’importanza di quella svolta: “L’opinione pubblica cambiò dopo la guerra, quando i morti e la distruzione in Iraq furono manifesti e la responsabilità fu attribuita, attraverso gli americani, alla dinastia Saud, che li aveva invitati ad occuparsi della questione. Il mantenimento di basi militari sul territorio saudita ha aggiunto benzina al fuoco, favorendo oggettivamente la posizione degli oppositori al regime, che usano la critica alla presenza USA come strumento di aggregazione del malcontento attorno alla famiglia reale accusata di disonestà e di tradimento, e di insozzare il sacro suolo dell’Arabia Saudita con il personale militare americano” (Stratfor bullettin: “Saudi Arabia: A balancing act”)

Attraverso tutti gli anni ’90, sotto la superficie di quello che sembrava comunque un regime monolitico, il wahabismo è sempre più diviso in due correnti, una della quale è diventata sempre più organica alla cricca dominante, mentre l’altra ha cominciato un’azione di propaganda politico-religiosa per un cambiamento di regime. Questa seconda corrente ha raccolto sempre maggiori consensi, e non solo tra i giovani disoccupati e disillusi, ma anche tra gli strati intermedi della società, quali gli studenti ed i piccoli commercianti, fino ad una parte della classe capitalista, i cui interessi sono minacciati dal declino economico generale. La famiglia reale, con tutta una serie di manovre e sotterfugi, passando da un espediente all’altro, con la politica del bastone e della carota, ha cercato di evitare che questa divisione strisciante esplodesse in maniera generalizzata in un conflitto aperto.

I Saud hanno utilizzato le “guerre sante” in Afghanistan e altrove, insieme ad un appoggio di facciata alla causa palestinese, per rafforzare la propria posizione all’interno del paese e dirottare l’azione dei wahabiti radicali sull’arena internazionale. Fanatici mujahidin sono stati spediti in Afghanistan ed altrove, e grandi finanziamenti sono stati stanziati per queste operazioni non solo dall’Arabia Saudita e dal Pakistan, ma anche dai governi USA, inglese, francese e di altri paesi occidentali. Ai tempi della guerra in Afghanistan, personaggi quali Bin Laden ed i “combattenti per la libertà” hanno reclutato militanti nelle scuole coraniche ed in altre istituzioni religiose finanziate dall’Arabia saudita e da altri stati wahabiti, alleati di vitale importanza dell’imperialismo americano.

Insieme al regime saudita, anche Washington ha incoraggiato queste reti fondamentaliste - ivi comprese le loro affiliazioni in Algeria, Daghestan, Cecenia ed altrove - utilizzandole per i propri fini, ma alla fine ne hanno perso il controllo. In Afghanistan, i leader della cosiddetta armata talebana hanno preso il potere nel 1996, con il sostegno degli USA, ma poi gli si sono rivoltati contro; Al-Qaeda, invece, ha lanciato tutta una serie di attentati contro obiettivi americani, quali l’ambasciata USA a Nairobi nell’agosto del 1998 e l’attacco, con imbarcazioni cariche d’esplosivo, all’incrociatore USS Cole nell’ottobre del 2000, fino ai terribili fatti dell’11 settembre 2001, questa volta proprio in territorio americano.

Il ruolo ambiguo della dinastia Saud rispetto a questi eventi esprime tutto il dilemma di fronte al quale questa si trova. Quasi tutti i partecipanti all’attacco dell’11 settembre erano sauditi, mentre membri della famiglia reale finanziavano Al-Qaeda in cambio della garanzia che gli attacchi non sarebbero stati sul territorio saudita. Se, da un lato, il regime saudita si basa sulla forza economica e militare dell’imperialismo USA per mantenersi in piedi in patria, e per mantenere il proprio ruolo nella regione, dall’altro, per tener lontane le attività terroristiche dal proprio territorio, ha finanziato i terroristi che hanno attaccano gli USA. Nel bollettino Stratfor citato si legge: “Per Riad la presenza delle truppe americane è sia una garanzia di salvezza, contro aggressioni esterne ed interne, sia una fonte di pericolo, in quanto contribuisce alla crescita dell’opposizione interna alla cassa regnate ed alla militanza contro di essa. La minaccia interna è stata controllata e dirottata altrove con Bin Laden - la personificazione dell’opposizione - fuori dal paese e che prende di mira obiettivi e strutture militari USA all’estero”.

La crescita dell’estremismo wahabita non è però la sola espressione del malcontento sociale in Arabia Saudita. La corruzione e lo sperpero delle risorse economiche sono oggi apertamente denunciate; studenti ed intellettuali, sfidando le minacce del carcere e dei pestaggi, organizzano petizioni illegali in cui si chiedono riforme democratiche e la fine della discriminazione delle donne. Ci sono state inoltre manifestazioni perchè anche alle donne fosse permesso di guidare automobili, cui le autorità hanno risposto tacciandole di “adulterio”, e l’adulterio, in Arabia Saudita, è un crimine che si punisce con la lapidazione.

L’odiata mutawa [la polizia religiosa, NdT] oggi viene apertamente affrontata e minacciata nelle strade dai giovani arrabbiati e dai loro genitori. Nelle moschee e nelle strade questi “pii” malfattori girano pestando chiunque ritengono stia trasgredendo alle regole dispotiche dell’islam wahabita, ad esempio ragazzi che ascoltano musica o donne che lasciano intravedere ciocche di capelli. Nel passato, la popolazione era troppo terrorizzata per sfidare questi animali, ma ora le cose stanno cambiando e le proteste ripetute hanno finalmente costretto il governo a limitare l’uso del manganello, almeno per le strade.

Recentemente, una nota annunciatrice televisiva è stata pestata a sangue dal marito: la donna, invece di nascondersi fino a quando i lividi e le ferite fossero scomparse, si è coraggiosamente mostrata in video per denunciare la violenza nei confronti delle donne. Nel quadro del draconiano oscurantismo della dittatura wahabita, anche piccole cose come questa sono il sintomo di un cambiamento radicale e profondo della psicologia della gente comune, in quanto vuol dire che la gente non ha più paura, e questo, a sua volta, vuol dire che la dinastia dei Saud è condannata.

Nel Medio Oriente ed in tutta l’Africa settentrionale, l’ostilità verso l’imperialismo americano è stata ulteriormente accresciuta negli anni dal sostegno di questo ai regimi impopolari ed oppressive di questi paesi. In particolare, l’imperialismo USA è odiato per il suo appoggio incondizionato alla politica estera reazionaria della classe dominante israeliana. La cinica manipolazione ed il tradimento delle masse palestinesi, ripetutamente umiliate e schiacciate dal tallone dell’imperialismo israeliano, è stato un fattore fondamentale nel plasmare il pensiero dei giovani e dei lavoratori del mondo arabo. L’invasione dell’Afghanistan, nell’ottobre del 2001, e ancor più quella dell’Iraq nel marzo del 2003, ha dato un nuovo formidabile impulso all’ostilità popolare all’imperialismo USA in questi paesi. In Arabia saudita questa ostilità è più che mai rivolta contro gli “alleati” di Washington presso il palazzo reale, per questo organizzazioni come Al-Qaeda, che sono per la caduta della monarchia, hanno senz’altro guadagnato una base d’appoggio significativa tra i settori più oppressi nella società.

La monarchia è quindi sotto intensa pressione, sia da parte di strutture tipo Al-Qaeda, sia da parte di ampi settori sociali, ostili ad ogni ulteriore cooperazione con l’imperialismo americano. Allo stesso tempo, il regime è sotto pressione anche da parte di Washington. Ora se resistere alle pressioni USA, però, vuol dire mettere in pericolo la propria posizione e precipitare il crollo della monarchia, contemporaneamente cedere ad esse può essere ugualmente fatale. Dunque le operazioni mirate a controllare l’opposizione interna sono associate ad azioni simboliche tese a mostrare che la monarchia si stia smarcando dagli USA, come ad esempio, la decisione di boicottare il G8 del giugno del 2004.

Alcuni di questi gesti di sfida contro gl’interessi USA sono stati un po’ più che simbolici. Lo scorso gennaio, per esempio, Riad ha firmato grossi contratti per l’esplorazione e la produzione del gas naturale con a compagnia russa Lukoil, la cinese Sinopec, la spagnola Repsol e l’ENI, mentre i concorrenti inglesi ed americani sono stati completamente esclusi dall’affare. Il senso di quest’operazione è chiaramente quello di mostrare al popolo che la monarchia è pronta sfidare gli USA. Inoltre, una mossa del genere aiuta anche ad ampliare il margine di manovra nelle relazioni internazionali, guadagnandosi l’appoggio dei paesi in questione, specialmente le Russia e la Cina, in modo che possano bilanciare le pressioni USA. Con quest’affare, infatti, Pechino e Mosca hanno fatto un passo strategicamente molto importante in Medio Oriente e sono ovviamente ben felici di poter aiutare il regime saudita.

Il Pentagono ha recentemente chiuso molte delle basi che aveva in territorio saudita nella speranza di alleggerire la pressione sul regime, ma vi mantengono, tuttavia, una presenza importante. Infatti, le forze armate saudite, i generali e gli ufficiali superiori sono costantemente “affiancati” da strutture parallele di “istruttori”, “consiglieri” e “specialisti” americani, mentre il dispositivo militare complessivo non ha fatto altro che passare il confine, stabilendosi in Qatar. Dal punto di vista operativo, insomma, il cambiamento nelle relazioni tra il regime saudita e gli USA e più apparente che reale.

Ci sono segnali di un crescente disagio anche nelle forze armate saudite. Ad esempio, nel maggio di quest’anno, quando un gruppo armato ha lanciato un attacco sulla città industriale di Al Khobar, sulla costa est, circondato dalle truppe speciali saudite, ai componenti del gruppo è stato concesso di abbandonare il campo illesi, prima che le forze speciali assaltassero l’edifico in cui si erano asserragliati. A maggior discredito della famiglia reale, il giornale arabo in lingua inglese Arab News ha riportato che gli attaccanti avevano potuto prendere un taxi nella periferia della città già un paio di ore prima che le forze speciali attaccassero, dicendo di non essere terroristi, ma combattenti mujahadin contro “l’imperialismo ed il sionismo”. Questo mostra chiaramente come la completa mancanza di fiducia nella cricca dominante si stia facendo strada anche negli strati dirigenti le forze armate. La stabilità del regime saudita è oggi talmente precaria che potrebbe crollare in ogni momento.

Come è tipico di ogni regime alla vigilia del suo crollo, gli strati superiori, i dirigenti della società saudita, sono divisi tra chi cercherebbe di salvarsi inasprendo la repressione e chi propende per le riforme. L’amministrazione Bush preme per la più feroce repressione contro il fondamentalismo wahabita. In pratica, questo significherebbe segare uno dei rami sui quali la famiglia regnante si è appoggiata per decenni. Questo spiega, dunque, anche l’atteggiamento del comando delle forze speciali ad Al Khobar.

Nello stesso tempo, Washington chiede riforme “democratiche”. Bush e le sue teste quadre pensano, evidentemente, che i dirigenti sauditi possano abbattere i pilastri fondamentalisti sui quali si sono basati per decenni, per sostituirli con degli altri, “democratici”, verso una qualche forma di monarchia costituzionale. Con qualche piccola “riforma dall’alto” pensano di evitare una rivoluzione dal basso. Pertanto il regime ha deciso di indire elezioni municipali per il prossimo settembre, le prime in assoluto dagli anni ’60. Per quanto si tratti di una piccola concessione, questa sarà vista come una grande debolezza. Fino a questo momento, il principe reggente Abdullah, cedendo alla pressione degli estremisti wahabiti, ha negato il diritto di voto e di candidarsi alle donne. Questo ha dato luogo ad una nuova ondata di proteste e petizioni nelle università e nelle strade. La concessione delle elezioni municipali si dimostrerà un passo troppo piccolo, e compiuto troppo in ritardo.

Quanto detto mostra come, sia sul fronte interno che su quello internazionale, il regime saudita naviga a vista, passando da un espediente all’altro, cercando disperatamente punti d’appoggio. Il regime si barcamena con difficoltà tra le opposte pressioni, come un vecchio funambolo, ormai incapace, camminerebbe sul filo. Il regime saudita cadrà, inevitabilmente, e forse molto prima di quanto non si creda.

Se pure ce ne sarà uno, è difficile dire che tipo di governo rimpiazzerà le monarchia. Una possibilità potrebbe essere quella di un settore delle forze armate, che formi un governo nel quale alcuni posti potrebbero andare ai fanatici fondamentalisti. In ogni caso, una cosa è certa: quale che sia il tipo di nuovo governo, non potrà che essere ostile sia all’imperialismo USA che a quello israeliano, perché qualsiasi scelta diversa da questa gli risulterebbe fatale. Anche un’altra cosa è certa: gli USA, nonostante le difficoltà in Iraq e le difficoltà a trovare sempre maggiori truppe e soldi, non avrà altra alternativa se non quella di lanciare un nuovo attacco in Medio Oriente.

In un articolo intitolato Il regime saudita lotta per la sua sopravvivenza, del 2 giugno 2004, Le Figaro analizza la questione nei seguenti termini: “Consapevoli dell’estrema fragilità del regime, gli americani spingono la famiglia reale ad introdurre le riforme annunciate dal principe Abdullah. Lo scorso novembre, George W. Bush ha citato l’Arabia Saudita tra i paesi nei quali avrebbe dovuto esserci un percorso verso la democrazia, dichiarando “gli USA non interessati a mantenere rapporti” con leader non democratici. Al Pentagono, in particolare, alcuni dei “falchi” pensano che il regime saudita non possa reggere più di qualche altro mese, e che l’esercito americano potrebbe “piuttosto agevolmente” prendere il controllo delle installazioni petrolifere e proteggerle isolandole dal resto del paese, che a quel punto non potrebbe essere altro che disintegrato o nelle mani dei sostenitori di Bin Laden. ‘Se mai dovessimo ritirarci dall’Arabia Saudita’ ha dichiarato un alto funzionario del dipartimento di stato ‘il risultato non sarebbe certo un bel vedere’. Il mantenimento della dinastia saudita sembrerebbe, dunque, il minore dei mali”.

Lo scenario “piuttosto agevole”- non avevamo già sentito qualcosa del genere tempo fa? - di cui si dice si discuta al Pentagono non mancherà di trasformarsi in una situazione estremamente complicata. In primis, “l’isolamento dal resto del paese” di quella che è di fatto l’area più sviluppata del paese non potrà avvenire senza garantirsi il controllo della capitale, che è vicinissima al confine sud-ovest dell’area petrolifera. Se controllata da forze ostili agli USA, Riad sarebbe una formidabile base d’appoggio per le operazioni contro gl’invasori. Inoltre dovrebbero essere messi in sicurezza gli oleodotti, ivi compreso quello più importante che passa per il centro del paese fino ai terminali di Yanbu ed Al Monayez sulla costa del Mar Rosso. Anche se si decidesse di sacrificare gli oleodotti più occidentali, senza dubbio, una seconda guerra in medio oriente richiederebbe enormi risorse aggiuntive, molto oltre l’attuale capacità militare e finanziaria degli USA.

Sembrerebbe che sia in Afghanistan che in Iraq, gli “strateghi” americani non abbiano pensato a quale situazione si sarebbero trovati a fronteggiare dopo l’attacco. Non dimentichiamo che la nuova aggressione di cui sopra sarebbe proprio contro la terra santa dei musulmani, la terra della Mecca e di Medina, e questo sarebbe visto come un insulto da parte di tutti i musulmani del mondo, un oltraggio che in nessun modo potrebbe essere accettato. Perciò migliaia di combattenti musulmani si riverserebbero in Arabia Saudita da tutto il mondo. Il regime giordano, filoamericano, potrebbe anch’esso essere immediatamente rovesciato in caso di aggressione all’Arabia Saudita. I regimi del Libano e dell’Egitto sarebbero ulteriormente destabilizzati, mentre in Israele le conseguenze di questa crisi si abbatterebbero sui lavoratori, spingendoli ad entrare in azione contro la classe dominante. Un intervento militare contro la terra della Mecca produrrebbe un esercito di giovani martiri islamici, motivati e decisi a colpire gli americani ovunque e comunque fosse possibile.

In un momento nel quale il flusso di greggio dall’Iraq non è in nessun terminale vicino ai livelli ottimali per i continui sabotaggi delle installazioni e delle condutture, l’invasione dell’Arabia Saudita vorrebbe dire la destabilizzazione delle forniture petrolifere su scala mondiale. La conseguente impennata del prezzo del petrolio avrebbe ripercussioni economiche drammatiche in tutto il mondo, e darebbe il via a tutta una serie di sollevazioni sociali, politiche e militari. Questo, a quanto sembra, è la prossima fase del cosiddetto “Nuovo Ordine Mondiale”!

In Medio Oriente le tensioni accumulate in decenni di declino economico, guerre, disoccupazione di massa, oppressione religiosa e nazionale, e tutti gli altri problemi provocati dal capitalismo e dall’imperialismo, hanno raggiunto un livello non più sopportabile. Questo implica che grande lotte e situazioni rivoluzionarie sono all’ordine del giorno in tutta l’area. Data l’importanza cruciale del Medio Oriente per le forniture di petrolio, questi eventi condurranno direttamente all’intensificarsi della lotta per la conquista dei mercati e delle risorse tra le maggiori potenze, nella prospettiva di ulteriori guerre e conflitti. Dal caos, dall’instabilità, dalle guerre e dai bagni sangue cui stiamo assistendo deve emergere, ed emergerà, una nuova e potente forza, la sola che può dare una soluzione a tutto questo - quella della classe operaia organizzata e della lotta per il socialismo internazionale.

Greg Oxley, Layla Al Koureychi
Parigi, 15 luglio 2004
da "Marxismo.net"