Dopo il sequestro delle due militanti di “Un ponte per...”

«Salviamo quelle vite ma anche il popolo iracheno»

Intervista a Fabio Alberti, “Un ponte per..”

La voce di Fabio Alberti è tranquilla ma determinata, il clima a "Un Ponte per... " concitato e movimentato. Nelle facce e negli occhi dei volontari, di amici e compagni dell'associazione che da oltre un decennio si batte per una politica diversa nei confronti del popolo iracheno, si legge la tensione del momento, il desiderio di non aver mai avuto bisogno di tanta attenzione e, allo stesso tempo, il sollievo di non essere soli. Le notizie dall'Iraq sono scarse, anzi quasi inesistenti. E però c'è un sacco di lavoro da fare, di contatti da tenere, la manifestazione di oggi da preparare, l'emozione per la sorte dei quattro amici e compagni a Baghdad - gli ostaggi non sono solo le due "Simone", al Ponte non lo dimenticano mai - da tutelare. Fabio Alberti, presidente di questa scialuppa di volontari che è riuscito a non far dimenticare l'Iraq anche quando un embargo micidiale lo fulminava a colpi di cibo e medicine negate, è stanco ma non si arrende. Anche nel momento più difficile e delicato ricorda che in Iraq c'è la guerra, «proprio stamattina (ieri per chi legge, ndr.) c'è stato un nuovo bombardamento a Falluja che ha provocato altre vittime, tra cui quattro bambini, non dimentichiamoci di loro». La guerra continua a fare vittime civili e se vogliamo la salvezza di Simona, Simona, Raad e Mahnaz, vogliamo anche la salvezza di tutti gli iracheni».

Ci sono notizie, novità, qualche segnale?

Purtroppo non c'è niente. Niente che possa offrire un'indicazione, un'indiscrezione, una interpretazione di quanto accaduto. Non sappiamo chi ha fatto quel rapimento, né il motivo.

Ci sono giornali, come il Corriere della Sera, che offrono una dettagliata ricostruzione in cui si indicano in ufficiali dell'ex regime baathista i possibili autori del sequestro.

Si, ma non vuol dire molto. Sembra evidente che i sequestratori erano ben preparati e professionali ma questo non ci rinvia al disegno politico che li muove. Certo, una delle conseguenze è che le Ong sono spinte ad abbandonare il paese, forse è questo che si vuole. E l'abbandono di osservatori civili unito al prosieguo dei bombardamenti e all'escalation di operazioni terroristiche aumenta l'instabilità del paese, pregiudicando fortemente la tenuta di elezioni nel prossimo gennaio. Ma sono obiettivi che possono essere voluti da diversi soggetti. Non ci aiuta a fare chiarezza sui rapitori.

In questi giorni voi avete mantenuto i contatti con l'Iraq. Che risposte e ritorni avete avuto?

La cosa più interessante è che si è messa in moto una mobilitazione anche indipendentemente dalle nostre richieste che ha riguardato gli ambienti più disparati della società irachena. Il Centro studi per i diritti umani di Falluja, i circoli religiosi sia sunniti che sciiti, le organizzazioni non governative, le associazioni per i diritti umani, le madri dei bambini che oggi (ieri, ndr) hanno manifestato a Baghdad. Tutti si stanno mobilitando per il rilascio, una mobilitazione "politica" che non sta cercando contatti con i rapitori ma che preme affinché i nostri compagni siano liberati.

Veniamo a noi, qui in Italia. Cosa facciamo? Ci sono tante mobilitazioni, oggi c'è la fiaccolata a Roma, domani la manifestazione a Milano. Il movimento si sta mobilitando, quale messaggio credi che debba essere lanciato?

La mobilitazione è la nostra unica risorsa. Spetta ai governi - e sottolineo i governi, compreso cioè quello iracheno che per quanto non legittimo deve darsi da fare - il compito istituzionale di attivare contatti e canali per giungere all'obiettivo della liberazione degli ostaggi. Questa distinzione di ruoli ci permette di chiedere a loro di attivarsi in tutti i modi possibili mentre noi manteniamo intatti i nostri giudizi politici. Perché tutta la vicenda avviene in un contesto di guerra che chiama in causa anche chi della guerra è responsabile senza con ciò ridurre le responsabilità di chi ha compiuto questo atto terroristico. Però non c'è, e non deve esseci, confusione tra la richiesta dell'intervento istituzionale e il giudizio politico, e quindi la mobilitazione. E siccome siamo per la vita di tutti, delle nostre Simone, di Raad e Mahnaz ma anche degli iracheni, rimane la necessità di chiedere la fine dell'occupazione, almeno la cessazione dei bombardamenti sulle città, a partire da Falluja. Una richiesta che non è fine a se stessa ma che deve accompagnarsi con una politica di mediazione pacifica nel Mediterraneo e con un ruolo più consono alla tradizione dell'Italia. Perché non si può fare la pace mentre si fa la guerra.

Un'ultima domanda: come state?

Dopo il primo momento di sconforto, ora il clima è buono, anche se l'ansia è altissima. Ma essenziale è stata l'enorme solidarietà ricevuta. Le visite, le manifestazioni, gli appelli, i messaggi, sono quello che ci ha permesso, e ci permette, di lavorare e di superare il dolore e lo sconforto. Senza questo, non so dove saremmo.

Salvatore Cannavò
Roma, 9 settembre 2005
da "Liberazione"