I terribili racconti dei superstiti dell'attacco israeliano alla città di Jenin. Dopo la resa resta difficile un bilancio preciso delle vittime. L'esercito ha fretta di far sparire i corpi

Jenin: dopo il massacro.
Sepolti vivi, fosse comuni, deportazioni e torture

Um al Fahum dove vivono gomito a gomito arabi ed ebrei è l'ultimo villaggio israeliano prima della Greenline, dove corre il confine con i Territori palestinesi occupati (Tpo). Il check point che separa questo villaggio arabo (conquistato nel 1948) dal resto della Cisgiordania è controllato da una pattuglia di soldati israeliani che restano sorpresi del fatto che qualcuno si inoltri in un'area interessata dalle operazioni militari di queste ultime settimane, a dodici chilometri da Jenin. I palestinesi che entrano in Israele si avvicinano con molta cautela, i soldati gli intimano di sollevare la maglia e attendere controlli. A piedi giungo al villaggio palestinese di Rummaneh in un'area dei Tpo sotto totale controllo militare israeliano. Una realtà drammatica e incomprensibile si rivela a piccole dosi.

Nella scuola secondaria, all'ingresso del villaggio, ecco i primi scampati dal massacro del Mohaian Jenin, il Campo profughi palestinese caduto sotto il totale controllo dei soldati israeliani, dopo la resa dei combattenti che tre giorni fa hanno dichiarato il cessate il fuoco, una volta terminate le munizioni. Le uniche notizie che trapelano da Jenin verso l'esterno sono le testimonianze di un centinaio di uomini tra gli 11 e i 70 anni che sono stati deportati nel villaggio. Le loro storie si assomigliano dando la misura di una tragedia senza precedenti nella pur triste storia del popolo palestinese.

Saed Saleh Hashib, 19 anni, è arrivato da poche ore a Rummaneh e indossa la divisa del soccorso medico palestinese. Stava lavorando all'interno del Centro medico della Read Crescent Society sotto un totale coprifuoco, con il cibo razionato e senza acqua da giorni. I medici del centro, compresi quelli della Croce Rossa Internazionale, non hanno potuto soccorrere i feriti o recuperare i cadaveri mentre dal Campo profughi giungevano centinaia di civili in fuga dai bombardamenti a tappeto. Dopo tre giorni di razionamento del cibo circa duecento persone hanno deciso di lasciare il Centro medico con le bandiere bianche e si sono spostate verso est probabilmente in attesa di poter lasciare la città. Saed racconta di un altro grosso gruppo proveniente dal Campo profughi di Jenin. Tutte donne e bambini. Hanno potuto lasciare il Campo dopo che i soldati hanno intimato alle donne di spogliarsi. Una di loro che aveva con sé il suo bambino si è rifiutata, per questo i soldati l'hanno trattenuta sotto il sole per ore sotto la minaccia delle armi. Giungevano notizie di numerosi morti abbandonati al suolo ma soprattutto di numerosi feriti alcuni travolti dalle macerie che attendevano i soccorsi. Durante un tentativo di soccorso Saed è stato arrestato, come tutta la popolazione maschile, ammanettato e bendato infine portato via per gli interrogatori.

Hai sete? Acqua e piscio

I segni degli interrogatori sul corpo di Khaled, 32 anni, sono estremamente evidenti. E' ospite in una casa privata, dove è stato accolto da quattro giorni. Si trovava in casa con la famiglia e i suoi figli quando i carri armati israeliani sono giunti nel Campo. Sono entrati in casa sfondando la porta e urlando che là dentro c'erano dei terroristi. Hanno preso Khaled e suo fratello picchiandoli con i calci degli M-16. Il suo volto è pieno di escoriazioni e non può muoversi. Gli occhi fuori dalle orbite per il dolore. Il villaggio non ha abbastanza medicine e antidolorifici. Dopo essere stato picchiato in casa è stato condotto fuori con le mani legate dietro alla schiena e gli occhi bendati. Insieme agli altri uomini del Campo, costretto a camminare in fila indiana davanti ai carri armati, infine usati dai soldati come scudi umani per poter entrare nelle altre case. La casa di un suo vicino era piena di bambini e Khaled ha gridato ai soldati di non sparare mentre sfondavano la morta ma inutilmente. Molti altri palestinesi testimoniano incursioni dei soldati armati con sparatorie randomiche sulle case. La schiena di Khaled è completamente tumefatta e violacea, i polsi hanno le cicatrici di giorni e giorni di detenzione e maltrattamenti, un segno di riconoscimento dei profughi del Campo di Jenin.

Costretto a spogliarsi è stato condotto nella foresta di Saadi per un altro interrogatorio tenuto questa volta anche dai membri dello Sain Bet. E' in questa occasione che gli sono state spente addosso le sigarette di cui una cicatrice vistosa sul collo. «Mi hanno torturato senza considerazione alcuna di qualsiasi principio umano…» è tutto quello che riesce a precisare. I soldati esultavano intanto che gli elicotteri apache continuavano a bombardare il Campo e la città di Jenin. Poi è stato condotto al check point di Salem, sulla linea verde, e sottoposto ad altri maltrattamenti prima di venire rilasciato. Anche a lui è stata scattata una fotografia con una polaroid dove si vedono i detenuti nudi con una coperta addosso e i volti stravolti. Sul retro delle polaroid i soldati hanno scritto il numero della Id (Identity Card) e la parola "terrorista". Quando gli è stato detto di andare a Rummaneh Khaled non poteva camminare. E' stato raccolto da un ragazzo del villaggio e condotto nella Moschea per un primo soccorso dove c'erano altri uomini.

Walid, 42 anni, impiegato Unrwa da 16 anni, non è andata meglio. Il volto è paralizzato sulla parte destra e fa fatica a parlare. E' stato colpito di un M-16 da un soldato durante un suo arresto. Non è servito a nulla il fatto che lavorasse per le Nazioni Unite, tutt'altro. Il soldato gli ha risposto che l'Onu lavorano con gli Hizbollah. Walid porta la barba ed è mussulmano. Anche lui legato e bendato a fare da scudo all'avanzata dei carri armati e degli Apc nel Campo, poi spogliato e condotto su di un autobus per gli interrogatori durati sette ore. Le domande per i torturati erano sempre le stesse: sei un terrorista per i Tazim, di Hamas o della Jihad? Dopo tre giorni senza cibo e acqua ha chiesto da bere. I soldati gli hanno dato acqua e piscio. Lui ha fatto notare che quella non era acqua. In risposta gli è stato detto che era libero di scegliere se bere oppure rifiutare. Dopo sette ore di interrogatorio è stato condotto anche lui al check point, picchiato e fotografato, con la raccomandazione di non uscire dal villaggio per non essere arrestato di nuovo. Nella scuola secondaria sono giunti altri uomini. Non sanno nulla di quello che succede nel Campo di Jenin. Non c'è nessuna possibilità di mettersi in contatto con le famiglie rimaste dentro che non sanno nulla della sorte dei loro padri, mariti, figli. Per questo in questi ultimi tre giorni le donne di Jenin si sono recate al check point a protestare esibendo le foto dei loro cari. In una stanza della scuola ci sono abiti portati dalla gente del villaggio per rivestire chi arrivava nudo dal check point. Alcuni anziani ricordano la loro fuga nel 1948.

Civili come scudi umani

Abu Dia, 70 anni, non si dà pace per il suo nuovo trattore schiacciato dai carri armati giunti nel Campo che si sono aperti dei varchi abbattendo i muri delle case e distruggendo tutte le infrastrutture: i pali delle luce, le condutture e le cisterne dell'acqua, le auto, cioè i mezzi di trasporto, e poi le case, infine un antico pozzo che forniva d'acqua Jenin e i villaggi vicini. Con i carri armati sono arrivati i bulldozer ancora adesso all'interno del Campo. Dopo i bombardamenti degli elicotteri apache e gli aerei da combattimento F-16 molte persone sono rimaste sotto le macerie, vivi e morti. Nelle strade davanti alle case questi scampati hanno lasciato numerosi cadaveri. Si tentano delle stime, ma essuno è in grado ad accennarne una. Si parla però di almeno qualche centinaio di morti… duecento, quattrocento dicono alcuni.

Shady, 14 anni, lo incontriamo a pochi chilometri da Jenin è arrivato al villaggio di Yemoun due giorni fa. Anche lui arrestato e sottoposto alle torture: polsi segnati da cicatrici e collo tumefatto. Un lungo interrogatorio per scoprire che tipo di "terrorista" fosse. Come altri nel Campo ha sparato finché ha avuto munizioni per difendersi, prima della resa. Una resistenza durata tre giorni e stroncata soprattutto dai bombardamenti a tappeto. Gli chiedo se i cadaveri sono stati sepolti. Dice che non ci sono stati funerali tuttavia in molti hanno visto i soldati prelevare i corpi per andare a portarli non si sa dove. Alle famiglie dei martiri palestinesi è stato riservato un trattamento speciale. Quindici famiglie risultano detenute all'interno del Campo, comprese le donne, i bambini e gli anziani. Nessuno tuttavia ha notizie dall'interno. Jenin è totalmente isolata. Non c'è alcuna possibilità di entrare intanto che i bulldozer dell'esercito israeliano sono al lavoro a spianare il Campo e a cancellare le tracce. Nessuna associazione umanitaria, nessun soccorso medico nemmeno la stampa è potuta entrare da dodici giorni. La popolazione che da giorni beve le acque di scolo e convive con i cadaveri insepolti rischia di precipitare in una catastrofe sanitaria e umanitaria. Nessuno a parte i palestinesi dei villaggi vicini sta soccorrendo questi due, tre volte profughi. Restano in attesa di un soccorso umanitario, di viveri, medicine, della fine delle deportazioni delle torture.

Si dice che il generale Sharon abbia sorvolato la zona del Campo profughi su di un elicottero Apache per verificare il lavoro. L'immaginario collettivo palestinese, fortemente segnato dalla crudeltà delle operazioni militari israeliane specie sui profughi e sui civili, deve ancora una volta misurarsi con questo generale già condannato con sanzioni amministrative dallo stesso governo israeliano per aver commesso crimini di guerra nei campi profughi del Libano, a Sabra e Chatila, e interdetto per la stessa ragione dalla funzione del ministro degli Esteri. C'è da chiedersi quanto spazio ancora la comunità internazionale voglia lasciare alle sue sanguinarie operazioni militari.

Patrizia Viglino
Jenin, 13 aprile 2002
da "Liberazione"