Dopo l'estradizione di Milosevic
Il ricatto del presidente Bush
Un precedente pericoloso

«Plaudo al trasferimento all'Aia dell'imputato di crimini di guerra Slobodan Milosevic. E' un messaggio inequivocabile». Una volta di più, il presidente americano, George W. Bush, ha torto e la scelta dei termini lo denuncia. Tutti gli statisti europei che hanno rilasciato commenti si sono espressi in modo volutamente generico. Nessuno ha definito inequivocabile un fatto che è equivoco e gravido di equivoci. Bush lo ha fatto nella logica di certi western in cui gli allevatori di bestiame del Texas identificano i loro capi dal marchio sul dorso e ne rivendicano la proprietà.

Perché «equivoco e gravido di equivoci»? La risposta la si poteva leggere ieri su molti giornali italiani, in forma esplicita o meno esplicita, a cominciare dal Corriere, che da rilievo alla protesta dei sostenitori di Milosevic, accreditandola. (il messaggio sottinteso è: il dato è reale e avrà pure una spiegazione) e correda di un "forse" il titolo dell'editoriale, firmato da un autorevole diplomatico, nel quale si definisce «potenzialmente rivoluzionaria» la cattura di un uomo di governo di un paese sovrano e la sua traduzione dinanzi a un tribunale internazionale, per effetto «delle forti pressioni, al limite del ricatto, che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno esercitato sul governo serbo».

Con un risultato che conferma pienamente l'importanza dell'obiezione sollevata: la rottura del delicato rapporto tra il presidente Kostunica e il primo ministro Djindjic, il primo intransigente sul diritto sovrano della Federazione jugoslava e della Repubblica serba a giudicare i propri cittadini, il secondo costretto a corteggiare gli Stati Uniti e l'occidente «perché ha bisogno del loro denaro». Un bisogno reale - poche ore prima del trasferimento di Milosevic, il Fondo monetario internazionale aveva diffuso via Internet le ventisei pagine della lettera inoltrata al Fondo stesso dal

governo di Belgrado, con l'impegno di seguire una determinata linea di politica economica - ma non per questo meno umiliante.

L'editorialista del giornale milanese vuole - e non saremo noi a dargli torto - che Milosevic sia processato e punito, ma non per un'imposizione delle potenze vincitrici, una delle quali - gli Stati Uniti - «sembra decisa a non ratificare il trattato per la creazione di un tribunale penale mondiale». «Non vorremmo certo avere un ordine internazionale in cui una grande potenza si riserva di chiamare in giudizio gli avversari, ma respinge sdegnosamente l'ipotesi che i suoi connazionali possano subire lo stesso trattamento», conclude.

Altrove, sullo stesso giornale, si ricorda un giudizio del diplomatico americano Richard Hollbrooke, un personaggio che ha avuto un ruolo importante nello smembramento dell'ex-Jugoslavia su Milosevic: «Se fosse nato in un paese democratico sarebbe

stato un politico di successo». Durante i negoziati sulla Bosnia, Hollbrooke aveva apprezzato, in lui, «un certo fascino», astuzia, resistenza oratoria, tattiche oltre il limite del cinismo. Credeva, Milosevic, di avere convinto gli Usa di essere l'uomo giusto per la stabilità dei Balcani, riassume il giornalista. Non ricorreremo al detto «cane non mangia cane», anche perché non sempre è così. Ma ci viene in mente che anche Saddam Hussein credeva, dopo una certa conversazione con l'ambasciatore americano, di aver ottenuto dagli Stati Uniti l'avallo per l'invasione del Kuwait.

Tante cose si spiegano (a parte, naturalmente, le responsabilità di questo o quell'uomo politico, da accertare e valutare) se l'uomo della strada, ansioso di vedere operare in politica criteri di giustizia e di moralità, impara a diffidare delle campagne di demonizzazione di sempre nuovi "Hitler" in sedicesimo, lanciate dalla superpotenza americana.

Ennio Polito
Roma, 30 giugno 2001
da "Liberazione"