Cofferati, i DS e Rifondazione Comunista

Un segno di salute e il problema del signor NO

Cofferati irrita la leadership dei DS e di Rifondazione

Si annuncia un anno durissimo, un giorno sì e uno no ci dicono che siamo in guerra con l'Iraq, governo e padronato sono al massimo dell'aggressività ma l'opposizione non è mai stata così rissosa. Sospetti, diffidenze, battutacce si sono moltiplicati specie da quando Cofferati è tornato in campo e sono culminati attorno all'affollatissima assemblea di Firenze. Autoconvocata e autofinanziata, essa ha oltremodo irritato la leadership dei ds e di Rifondazione. La prima ha accusato l'ex segretario della Cgil di scindere il partito, la seconda di scindere il movimento. Non è un bello spettacolo. L'insofferenza dei ds tradisce l'incapacità di rispondergli nel merito, persuadendo la propria area sulla guerra, sulle riforme istituzionali (più poteri all'esecutivo), sulle pensioni. Tradisce anche la preoccupazione di vederlo riempire gli stadi, mentre il partito sembra perdere tessere. La segreteria Fassino, decisa a portare avanti in modo più spicciativo la linea D'Alema-Amato, anche se i duri fatti l'hanno dimostrata perdente, non trova di meglio che lanciare su chi le si oppone l'accusa di scissionismo. Come sempre - chi scrive ne sa qualcosa.

Ma stavolta l'argomento è singolarmente inoperante, perché i ds sanno benissimo come Cofferati non miri a scindere il partito ma a batterne la linea, a fletterla. Non è un capo corrente, è un leader, abituato a rispondere ai lavoratori e ai cittadini, più che a un partito che da Occhetto in poi s'è fatto «leggero», cioè si è ridotto poco più che a un comitato elettorale e una burocrazia di eletti, che ha mandato a spasso la sua base militante e la sua area d'influenza e di alimentazione. Il militante Cofferati è un perturbatore della quiete: come negargli, senza coprirsi di ridicolo, l'ambizione di diventare un leader maggioritario? Già Fassino si è ridicolizzato ricorrendo all'argomento che Berlusconi usa con l'opposizione - mi delegittima! Vorrebbero, ma non possono dirlo, che tacesse fino alle prossime elezioni o al prossimo congresso, come si usava ai tempi del centralismo democratico. La battuta più pittoresca è stata di Reichlin: non è più tollerabile una circolazione extracorporea (al partito. Non è bello?).

Vecchia storia. Più sorprendente l'attacco di Bertinotti: Cofferati sarebbe reo

  1. di dividere il movimento,
  2. di illudersi che l'Ulivo potrebbe diventare un'opposizione più seria.

La prima accusa rivela un vizio tipico: il solo partito, Rc, che riconosceva al movimento («movimento dei movimenti») la sua natura di forma politica nuova, plurale, libera convergenza di diverse anime e storie su punti chiave (guerra, globalizzazione, diritti), e quindi né divisibile né riducibile a una disciplina, si innervosisce quando una parte di essa, che costituiva soprattutto l'area elettorale ds, vuol dialogare con Cofferati. Moretti sarebbe la parte cattiva del movimento? Andrebbe espulso dal medesimo? Ma andiamo!

L`accusa di Rifondazione rivela quanto sia dura a morire la tesi ventinovista secondo la quale il blocco del capitale sarebbe sempre lo stesso, se sia totalitario o democratico non importa, l'Ulivo sarebbe tale e quale la Casa delle Libertà, irrimediabilmente a destra, infrangibile e inossidabile. Quasi che Rc temesse che un'opposizione non radicalmente antisistema (ma neppure il movimento dei movimenti è radicalmente antisistema) restringesse lo spazio per un partito che si vuole antagonista. E' questo timore che ha spinto l'intelligente Bertinotti a sparare su Cofferati dagli spalti d'un foglietto d'alemiano, Il riformista? E a definire «cavallo ruffiano» i vertici della Fiom, sicuramente il sindacato più avanzato d'Europa? E Liberazione a seguirlo fedelmente e infelicemente, chiamando a giudizio l'Arci o Aprile, e ieri financo noi? Sarebbe buffo se non fosse tristissimo. Anzi, un incidente da dimenticare. Vista, come noi, dal di fuori, la capacità di Cofferati di incrinare il muro dei ds - e non attraverso manovre di corridoi né artifizi populisti - è un segno di salute del paese. Anche se turba non solo la dirigenza, ma la flebile minoranza diessina, che non verrebbe fucilata se parlasse un po' più forte. Ma non tocca a noi metterci il naso. Possiamo però dire ben venga ogni spinta a modificare un asse politico che va ostinatamente verso il centro prendendo inesorabilmente botte. D'Alema, Amato e anche Prodi hanno perso credendo di poter andare contro Berlusconi, Fini e Bossi senza una vera sinistra, radicale e non. La Casa delle Libertà non sarà mai battuta solo da un centro, e lo ha ben capito Rosy Bindi, non solo perché il centro perderebbe elettorato a sinistra, ma per la precarietà delle categorie centriste. E' questa la ragione per cui ascoltare il movimento va ben oltre una preoccupazione elettoralista. Viene dall'obbligo di capire come oramai guerra, globalizzazione, liberismo, messa a tacere dei sindacati, rafforzamento degli esecutivi padronali e statali, fine dei diritti, fine del welfare, privatizzazione di beni fondamentali (come scuola e sanità) vadano assieme, rispondano allo stesso disegno.

Questo ha capito Cofferati, e non è casuale che la percezione venga dal mondo del lavoro: si era tentato di cancellarlo, anche a sinistra, e invece parla.Parla con la voce d'un sindacalista che è tutto fuorché estremista. Anzi. Cofferati è stato un persuaso sostenitore della concertazione fra impresa e lavoro nell'ambito europeo. Lo è stato finché s'è reso conto, a moneta unica raggiunta, nella primavera del 2001, che il padronato italiano aveva chiuso con ogni compromesso sociale, scegliendo come leader Antonio D'Amato, e che il governo si schierava a oltranza sul fronte liberista e mercatista, per un sistema che disconosce al lavoro qualsiasi diritto che non sia transitorio e funzionale all'impresa. E se si muove dall'anno scorso risolutamente è perché questa percezione è mancata o non interessa alla dirigenza del suo stesso partito, un partito ex comunista, che ha gettato alle ortiche non solo quanto aveva dentro di sé di stalinista, ma la sua stessa radice sociale. E' questo che ha «politicizzato» lo scontro con Cofferati e lo fa chiamare «Signor No» o «conservatore» da Berlusconi a D'Alema: dice no a una società ridotta a capitale-mercato, tiene fermo sull'idea che il cittadino è ortatore di diritti non solo politici ma sociali, e che quando mancano questi vengono meno anche quelli. Non è molto diverso da quanto scrivono Jean Pierre Fitoussi e Joseph Stiglitz. Che non sono «antagonisti» ma neanche assimilabili a Bush o al Fondo monetario. E neppure alla Ue.

E qui sicuramente si aprirà il problema. Cofferati è un uomo abile, abile negoziatore e abile combattente, non ha scoperto tutte le sue carte. Ma è evidente che potrà procedere con largo ascolto contro la guerra, contro Berlusconi, contro i tentativi di mettere la mordacchia alla magistratura, all'informazione, alla scuola nonché di privatizzare tutto quel che è pubblico ancora, dalla sanità all'acqua. Tentativi purtroppo già più che abbozzati per i colpevoli errori dei governi di centrosinistra. Su tutto questo può contare sull'insorgenza che nel 2002 ha increspato tempestosamente, e come in nessun altro paese europeo, quella che pareva la bonaccia italiana, dai no global ai girotondi, dalla Cgil agli studenti ai magistrati. E certo la sua spinta non potrà non influenzare l'intera opposizione. Le difficoltà verranno sul modello di sviluppo e quindi anche sull'occupazione nonché sul discorso delle sostenibilità, anzitutto ambientali, nel quadro del sistema economico interamente liberalizzato che la Ue difende, garantendone soltanto la concorrenza. E' il nodo che emerse col trattato di Amsterdam (e fra le sinistre europee a Malmoe) e che né Nizza né Lisbona hanno sciolto. E si può dubitare che lo sciolga la Convenzione europea con una semplice dichiarazione di diritto al lavoro: il lavoro non ha nessun diritto dove l'impresa li ha tutti. E questo è un problema per tutta l'Europa: la sua mancata soluzione ha scombussolato e spinto a destra la protesta dei lavoratori francesi, ha aperto un conflitto durissimo fra i sindacati tedeschi e Schroeder, e in Italia una voragine fra le esigenze primarie dei cittadini e la controparte governativa e padronale - e buona parte dell'opposizione moderata.

Appena si esce dalle generalità, è un terreno di conflitto. Lo sarà per Cofferati se avrà un ruolo nell'Ulivo, lo è già nei ds, lo sarà prevedibilmente (ma augurabilmente civilizzato) nei lavori della Fondazione di Vittorio, cui si rivolge gran parte di quella sinistra pensante che non ha più casa. Sarà anche il punto sul quale si misurerà la capacità di cambiare non solo la leadership ds, tutta liberista (al punto che recentemente ne sta dubitando anche Giorgio Ruffolo), ma la conformazione sociale, la costituzione materiale che l'Italia va assumendo. Come ridare al paese un impianto produttivo forte e tendenzialmente il pieno impiego? Come imporre delle modifiche alla parte padronale, e quali, e come nell'odierno quadro europeo? Con quali forze sociali, con quali priorità? Sono finite le fanfare sulle virtù del mercato: il caso Fiat ne è stata l'ultima prova. L'Italia è deindustrializzata, ha un livello basso di competitività, perde occupazione. Come invertire questo trend? E' un progetto che va pensato, e non siamo molto avanti. Tanto è vero che l'intera classe dominante, e gran parte dell'opposizione, non sanno che dire sul caso Fiat, e se si agitano è sul destino d'una proprietà che, nelle mani di chiunque vada, allo stato delle cose terrà fermo il piano dell'azienda, e delle banche, dando un colpo terribile alle forze di lavoro. Intenzioni analoghe si presentano in tutti i settori.

Il Cofferati della tesi cofferatiana: il capitale italiano è incapace di innovazione di progetto, fa solo innovazioni di processo, (vulgo sa soltanto risparmiare riducendo la remunerazione del lavoro) è messo alla prova. O cede alla linea finora maggioritaria della Commissione, e quindi non frenerà il declino industriale, o riuscirà a proporre forme di intervento assieme più limpide e più efficaci delle partecipazioni statali che abbiamo conosciuto, ma oltre alle quali non siamo capaci di andare neanche ora (Bertinotti incluso), ed esitano a pronunciarsi i pur interessanti documenti che puntano sul lavoro come priorità.

Questo è il problema, dovunque. E' dell'altro ieri la notizia che gli Stati Uniti, dei quali si era detto fino alla settimana scorsa che avevano risolto il problema dell'occupazione, hanno perduto in un mese 101.000 posti di lavoro: Bush è impantanato sulla guerra, ma anche sulla politica interna, dove i costi della recessione si fanno visibili, e non saranno le spese militari a salvarlo. Quanto a noi, di posti di lavoro ne abbiamo perduto 36.000 nella grande industria, cioè fra i lavoratori almeno parzialmente garantiti, e che costituiscono il bacino delle risorse contributive e previdenziali. Il restringersi della base lavorativa e il nodo delle pensioni vengono assieme, anche se non nelle forme esagitate prospettate dal governo, da Fazio e dalla Commissione. Con la contraddizione fra nord e sud del mondo, che ha spostato soltanto le frontiere geografiche, e sulla quale i no global si battono, si ripresenta quella contraddizione fra capitale e lavoro che il crollo del socialismo reale aveva offuscato nelle coscienze e l'espansione più o meno drogata pareva aver cancellato nella condizione materiale.

La questione di una sinistra forte sul piano sociale, capace di condizionare il capitale, condiziona una rivitalizzazione dell'opposizione a Berlusconi, che non è soltanto né specialmente una anomalia. Ed è anche la porta attraverso la quale si può intessere un patto non precario con Rifondazione. Dietro allo spettacolo penoso della rissa fra le sinistre, questa è la vera posta in gioco, un modo arruffato per non guardarla in faccia. E' una posta in buona misura epocale. E anche chi vede con simpatia il «cinese» non può limitarsi né a tifare per la sua impresa né a gufarla prevedendone le difficoltà; non è impresa d'uno solo. Chi si sente da questa parte della barricata, ha da darsi da fare: noi inclusi.

Rossana Rossanda
Roma, 12 gennaio 2002
da "Il Manifesto"