Le scelte politiche della Conferenza programmatica dei Democratici di sinistra

Il blairismo senza bombe

Una linea moderata che non rompe con lo schema neoliberista

L'assise programmatica tenuta a Milano dai Democratici di sinistra, è stata sotto i riflettori in particolare per quanto riguarda i rapporti interni ai gruppi dirigenti. Senza nulla voler togliere a questo tema, vorrei avanzare alcune riflessioni sulla linea politica emersa dalla Conferenza. Con questa infatti saremo chiamati a misurarci nel prossimo periodo. Se dovessi fare una sintesi direi che i Ds ripropongono in pieno una linea moderata - una sorta di blairismo senza bombe - e che per poterlo fare senza troppe contraddizioni debbono sbiadire nella loro analisi il dato strutturale della crisi attuale.

In primo luogo, della globalizzazione vengono finalmente colti gli elementi di crisi, di contraddizione. Di questa consapevolezza analitica però non rimane traccia nella proposta politica. Confidando nelle virtù taumaturgiche della politica, si mette al centro il nodo del governo confidando che la globalizzazione - se ben guidata - può dare una risposta alle aspettative della maggioranza della popolazione. In questo quadro la guerra è colta in tutta la sua drammaticità ma non nel suo carattere strutturale, intimamente connesso con questa stessa globalizzazione e con la sua crisi. La guerra viene vista come il frutto di politiche sbagliate, come errore soggettivo di alcune elite, che può essere sconfitta governando diversamente la globalizzazione medesima. Per i Ds la guerra non è un dato connaturato alla crisi della globalizzazione ma può essere una parentesi.

Lo stesso Patto per l'Italia - per rimanere a casa nostra - è dato sostanzialmente per archiviato. Gli elementi più duri - ma per questo paradigmatici - dell'attuale fase della globalizzazione capitalistica vengono semplicemente assunti come incidenti di percorso, come una sorta di deviazione da una strada di saggia gestione della globalizzazione. Non si vede che il meccanismo di accumulazione capitalistico si è inceppato, non si coglie il carattere intrinsecamente regressivo delle politiche neo liberiste che - al di la delle divisioni sulla guerra - resta il paradigma unificante di tutte le classi dirigenti a livello mondiale. Non si vede cioè come siamo all'interno di un profondissimo scontro di classe che ha come posta in gioco i dati di fondo del nostro vivere civile.

Conseguentemente a questo impianto politico i Ds non vedono il dato strutturale della nascita del movimento no global. Non cogliendo sino in fondo la valenza politica delle contraddizioni del sistema non riescono nemmeno a capire il carattere strutturale di questo movimento e a capirne la sua politicità matura. L'atteggiamento dei Ds mi pare un pò quello delle forze liberali di fine '800 inizio '900, incapaci di capire le radici strutturali della nascita del movimento operaio. Un pò di presa di distanza, un pò di paternalismo, un pò di riproposizione del primato del partito ma nulla che colga il passaggio politico che sta avvenendo nella società. Non a caso la "società civile" invitata all'assise era costituita in larga parte dai portatori degli interessi forti - dalla Confindustria in giù - ritenuti evidentemente in grado di fornire un significativo contributo alla definizione del programma e di legittimare l'attitudine governativa del partito. Il fatto che il referendum sull'articolo 18 sia stato bollato come "ideologico e reazionario" la dice lunga su quale idea di innovazione alberghi nel gruppo dirigente dei Ds.

L'estetica governativa

Riaggiornando uno schema che conosciamo da anni, viene quindi riproposto un ruolo della politica come governo di una società altrimenti anarchicheggiante; la politica come attività separata dalla dinamica sociale, attività produttrice di "senso" e quindi in grado di conciliare i diversi interessi specifici in conflitto tra loro. La società è vista come muta politicamente, portatrice solo di istanze "particolari": alla politica spetta il compito di produrre una attività ordinatrice che interpreti lo spirito del tempo che - al fondo - è incarnato dalle forze sane dell'economia. Il problema non è quello dell'alternativa ad uno sviluppo capitalistico che ha imboccato una strada regressiva e barbarica, ma il governo dello sviluppo stesso, visto come potenzialmente risolutore dei problemi dell'umanità.

Nel concreto del caso italiano, questa linea si pone il problema di superare quelle che vengono ritenute le anomalie che ostacolano questo processo, questo cammino. In primo luogo l'anomalia del populismo berlusconiano che deve essere ricondotto all'interno di un "bipolarismo mite". Parallelamente deve però essere ricondotto a ragione anche il movimentismo cofferatiano ed in particolare l'estremismo della Cgil. Per questo alla Cgil viene chiesto di ripristinare - senza perdere tempo - l'unità sindacale, vera condizione per la ripresa piena della concertazione.

Per riproporre questa linea senza dover fare troppi salti logici è nuovamente la realtà a farne le spese; così D'Alema ci spiega che il Patto per l'Italia non esiste più e quindi non esiste più il motivo che ha determinato la divisione sindacale. Che il governo Berlusconi stia dando corso al patto per l'Italia con la manomissione dell'articolo 18, che abbia approvato una legge delega sul mercato del lavoro che liberalizza completamente il medesimo, che voglia adesso dare un ulteriore colpo al sistema previdenziale pubblico sono elementi che tendono scomparire in questo tipo di analisi, costruita nell'intento di giustificare una linea politica moderata.

Di fronte a questo indirizzo politico preciso, la sinistra interna - a parte alcune lodevoli eccezioni - mi pare incapace di proporre una linea alternativa e si limita ad evocare una diversa prospettiva. Il solo Salvi ha posto con forza il nodo dei contenuti politici e polemizzato in esplicito sul referendum sull'articolo 18. Anche per questo deficit - credo - il dibattito avviene più sulle forme e sulle regole di convivenza che non sulla sostanza delle questioni politiche.

Lo scontro sarà sulla Cgil

In questo quadro a me pare che il punto politico di scontro vero nella prossima fase non sarà tanto all'interno del partito quanto nei confronti e dentro la Cgil. E' infatti evidente che il punto principale di sofferenza della linea della maggioranza dei Ds è dato proprio dal "non allineamento" della più grande organizzazione di massa del paese. Per chiamare le cose con nome e cognome, visto che la richiesta pressante alla Cgil è quella di fare pace con Cisl e Uil, cioè dell'unità sindacale, il vero nervo scoperto di tutta la partita si chiama Fiom. Il punto di divisione più netto sul piano sindacale è costituito infatti dalla vertenza dei metalmeccanici. In tutte le altre categorie le piattaforme si stanno facendo e concludendo unitariamente e - come ha rivendicato Epifani dalla tribuna della Conferenza - nell'ultimo anno ben cinque contratti si sono chiusi unitariamente.

Credo quindi che i tempi di precipitazione dello scontro riguardo alla Cgil saranno decisi dalla Federmeccanica, che pare ben intenzionata ad andare nelle prossime settimane alla firma del contratto separato con Fim e Uilm. Di fronte a questa eventualità è presumibile che i Ds - continuando una linea già chiaramente delineata - apriranno duramente il fuoco sulla Fiom, chiamando la Cgil ad un cambio di indirizzo. E' chiaro che in una situazione di questo tipo non sarà possibile per la Cgil cavarsela come ha fatto sin ora, con una solidarietà alla Fiom che però non si è tradotta in pratica contrattuale per le altre categorie. In qualche modo, con i tempi decisi da Federmeccanica e in virtù delle posizioni politiche della maggioranza dei Ds, la Cgil dovrà aprire un chiarimento sulle sue prospettiva. La linea tracciata dall'ultimo congresso della Cgil, che ha radicalizzato le posizioni politiche ma è rimasta in mezzo al guado dal punto di vista sindacale, è probabilmente arrivata al capolinea.

Diritti per tutti

Sul piano politico questa situazione pone a noi problemi di grande momento, nella costruzione di una sinistra alternativa conscia delle divergenze strategiche che ci separano dalla sinistra liberale ma impegnata strenuamente in una sfida sull'efficacia dell'opposizione. In una questa fase, decisiva è la nostra capacità di far leva sul movimento di massa per incidere contemporaneamente sui rapporti di forza complessivi, sulla articolazione e sulla disarticolazione del centro sinistra e sulla costruzione di una sinistra di alternativa.

Vista la centralità dello scontro che si avrà sulla Cgil, due mi paiono i terreni decisivi di iniziativa politica. In primo luogo il referendum che può essere la chiave di volta della situazione politica e sindacale. Se il referendum vincesse le prospettive neo centriste subirebbero un colpo durissimo, aprendo spazi di iniziativa sia politici che sindacali. In secondo luogo è necessario aprire subito una offensiva sulla questione della democrazia sui posti di lavoro. L'unità sindacale di vertice che viene proposta è antidemocratica, neocorporativa e subalterna ai padroni. Solo la rimessa al centro del rapporto democratico con i lavoratori può porre le condizione per una ripresa di un sindacalismo efficace, basato sull'unità della classe e quindi sanamente unitario.

Il nodo della conferenza programmatica dei Ds non è quindi questione di organigrammi ma la riproposizione politica di un impianto moderato; il terreno su cui contrastare questa proposta moderata non è quello separato della "politique politicienne" - fosse anche la più radicale - ma la costruzione concreta di una opposizione efficace al neoliberismo di guerra, attraverso cui riaprire spazi di azione politica e sociale nel paese.

Paolo Ferrero
Roma, 8 aprile 2003
da "Liberazione"