Show di Bossi, che si scatena contro gli immigrati e contro Fini, poi minaccia la secessione

Un razzista a Milano

Il senatur torna in pista presentandosi senza mezzi termini come l'anti Fini, leader di una destra che non si vergogna di condividere, coltivare ed esaltare le passioni più esecrabili e le paure più accecanti dell'elettorato

Riecco gli accenti giulivi dei vecchi tempi, quando il Carroccio faceva il pieno di voti insultando i terroni e solleticando i peggiori istinti delle nordiche genti. Mai messi del tutto da parte, adoperati anzi con gran gaudio dai gerarchi alla Calderola, quegli accenti tornano ora a essere il cavallo di battaglia del leader supremo. Bossi accusa il prefetto di Milano Bruno Ferrante di «tentare di forzare la Bossi-Fini». Poi passa al razzismo puro: «A Milano c'è gente che lavora da una vita e non ha una casa, e noi diamo casa al primo bingo-bongo che arriva. Scherziamo?». Dal razzismo al secessionismo: «Se non passa il federalismo, il nord torna alla secessione dura, senza alcuna mediazione con lo stato italiano». Non che basti. Un Bossi così ringhioso e a ruota libera, deciso a inveire contro tutto e tutti, non lo si vedeva da tempo. Se la civiltà padano-occidentale vacilla e rischia il declino, di chi la colpa se non dell'aborrito Concilio vaticano II? «Fu un disastro. La chiesa ha legittimato la sinistra con i Paolo VI e i Giovanni XXIII. Ma se tu legittimi il comunismo quello poi figlia». La stoccata finale è quella meno truculenta, ma probabilmente è anche la meno propagandistica e più sentita. Bersaglio, Gianfranco Fini: Non penso proprio che una maggioranza con Fini leader possa vincere le elezioni. Per vincere è necessario l'accordo con la Lega, che rappresenta il nord». Sottinteso esplicito: su quel sostegno una Cdl guidata dal vicepremier non potrebbe contare.

Per una volta il quesito solitamente obbligatorio in questi casi, «perché», è del tutto superfluo. Stavolta è sin troppo evidente perché Umberto Bossi abbia deciso di rispolverare il peggio del suo repertorio: razzismo puro, incaute minacce di secessionismo, raffiche di nordica mitraglia contro l'alleato che firmò con lui la legge sull'immigrazione. Il senatur si sente spiazzato, messo ogni giorno di più con le spalle al muro. Da un lato deve subire l'iniziativa di Fini, che gli ruba la scena. Dall'altro si sente minacciare quotidianamente di una reesa dei conti che, per diplomazia, chiamano «verifica». Peggio ancora, il capo leghista deve ingoiare il prolungato silenzio del capo supremo, che ormai lo irrita quasi più dell'onnipresenza loquace di Fini.

Dunque il senatur torna in pista presentandosi senza mezzi termini come l'anti Fini, leader di una destra che non si vergogna di condividere, coltivare ed esaltare le passioni più esecrabili e le paure più accecanti dell'elettorato. Non si spinge sino a ricattare personalmente Silvio Berlusconi, nonostante sia evidentemente lui il vero destinatario del messaggio. In compenso incarica della bisogna il capo dei deputati Cé che, con l'alibi delle «dichiarazioni personali e non a nome del gruppo», sferra un diretto contro il premier e contro Giulio Tremonti come mai la Lega, in questa legislatura, si era permessa. «Personalmente - confessa come se nulla fosse - comincio a fidaarmi sempre meno sia di Tremonti che di Berlusconi. Se le cose vanno male non dipende solo da Tremonti, ma soprattutto da Berlusconi che non può limitarsi a farel'ago della bilancia ma deve imporre agli alleati il rispetto del programma elettorale». E' ora che il cavaliere si dia una mossa.

Tra gli alleati della Lega solo l'Udc, punta sul vivo dall'attacco al Concilio, reagisce, e neppure troppo duramente. Il capogruppo Volonté, pacato, si limita a segnalare «una difficoltà evidente nei rapporti tra la coalizione e il partito di Bossi» e a incolpare proprio «i continui schiamazzi della Lega» per i rallentamenti subiti dal processo di riforma. Dagli spalti forzisti, poi, si fa sentire solo un graduato di seconda fila, il responsabile per i rapporti con il mondo cattolico Giro, e volentieri assolve il razzista del Carroccio che, certo «usa un linguaggio forte», ma come negargli il merito di «ricordarci che in Italia c'è una questione settentrionale?». Grazie Umberto. Da An nessun commento. E' sin troppo ovvio che Fini non voglia lanciarsi in un corpo a corpo che servirebbe solo a tirare fuori Bossi dal cono d'ombra.

Tutt'altri toni, naturalmente, arrivano dall'opposizione, anche se risalta il silenzio dei massimi leader. Per la Quercia è solo Carlo Leoni, del correntone, a parlare chiaramente del «volto razzista e secessionista di un partito che è al governo del paese». Nella Margherita è Rosi Bindi a bollare come «indegne di un paese civile queste dichiarazioni sugli immigrati e sulla chiesa», e solo il verde Cento chiede le dimissioni del ministro razzista. I motivi del mancato sdegno, o almeno del mancato clamore, sono due. In parte le sparate di Bossi sono ormai state metabolizzate dal mondo politico, e nessuno le prende troppo sul serio. In parte l'opposizione vuole evitare di ricompattare il centrodestra, attaccando troppo a fondo, e si può comprendere che i leader dell'Ulivo e del Prc puntino sulla crisi che travaglia i rivali.

Al centro di quella crisi, dopo l'offensiva culminata con la svolta israeliana, c'è senza alcun dubbio oggi il partito di Gianfranco Fini. L'adunata di Storace all'Hilton è stata trionfale, quella di martedì prossimo a Napoli promette di rivelarsi anche più affollata, tanto che il meeting è già stato spostato da un albergo a una più capiente sala cinematografica. Ma la rivolta del governatore del Lazio non sembra impensierire più di tanto il capo e i suoi colonnelli. Un po' perché Storace, almeno per il momento, non va oltre la canddiatura a leader di una robusta minoranza interna, un po' perché l'altro leader della destra sociale, Alemanno, derubrica lo scontro a questione secondaria a paragone della verifica: «La nostra attenzione è rivolta a quella. Non c'è tempo per altro».

Le cose sarebbero diverse se Storace ottenesse quel congresso straordinario che ha reclamato dall'Hilton. Ma Fini non ha alcuna intenzione di concederglielo. Ufficialmente il presidente di An non si pronuncia. Il coordinatore la Russa, burocratico, si limita a constatare che, se avanzata ufficialmente, la richiesta «sarà valutata». Ma fuori dalle formalità i toni dei colonnelli sono ben altri. «All'Hilton - spara La Russa - c'erano molte persone che non hanno votato né per An né per il Msi. Sono contento di non esserci andato, viste le frequenti cadute di tono». E il congresso? «Credo che il cosidetto `cuore del partito' sia l'assemblea nazionale». E' un no tondo, e fa il paio con il rifiuto che la leadership finiana opporrà alla seconda richiesta dei dissindenti, quella di spostare l'assembela nazionale in data diversa dal 23 dicembre, meno condizionata dall'imminente natale. «Perplessità fondate», ammette La Russa. Ma la data non si cambia.

Andrea Colombo
Milano, 5 dicembre 2003
da "Il Manifesto"