Primo via libera del Senato. Disco verde al disegno di legge sulle riforme costituzionali.

Sì al federalismo in salsa leghista. Bagarre in aula

L'opposizione abbandona l'aula per protesta dopo l'approvazione della devolution. E partecipa al voto finale al grido di «vergogna»

Tutto secondo copione. Non bastano le barricate dell'opposizione, che esce persino dall'aula in segno di protesta. Il Senato approva in prima lettura il disegno di legge che stravolge l'impianto della costituzione repubblicana. Premierato forte, meno poteri al capo dello Stato, devolution, un Senato federale già sconfessato da regioni ed enti locali. Sono questi i cardini di una riforma votata dalla Cdl (156 sì contro 110 no) nel nome di Umberto Bossi, padre spirituale del provvedimento. I vertici della Lega non nascondono l'euforia per un successo che potranno ora esibire all'assemblea federale convocata dopodomani a Bergamo. Roberto Maroni, dai banchi del governo, presidiati quasi solo da ministri leghisti, alza le braccia al cielo in segno di vittoria e assicura che «fino alle elezioni europee rimarrà questo governo, che esce rafforzato». Il Guardasigilli Castelli loda la «compattezza dimostrata dalla Cdl». Una compattezza su cui anche Silvio Berlusconi da Bruxelles dice di «non aver mai dubitato». Il diktat del Carroccio («se non passa oggi la riforma, domenica usciamo dal governo») insomma funziona. Ma l'opposizione si prepara a dare battaglia alla camera, e già si dice pronta al referendum per bocciare il testo, se venisse approvato in via definitiva. Sarà anche vero, come si mormora nei corridoi, che dopo le europee le riforme costituzionali potrebbe finire in un cassetto. O che, come ammette il relatore Francesco D'Onofrio (Udc), «nella maggioranza ci sono significativi dissensi». Resta l'enormità di quanto accaduto. Ha ragione il leghista Calderoli quando fa notare che «non era mai successo nella storia della repubblica che uno dei due rami del Parlamento votasse una riforma costituzionale così ampia».

La mattinata per la verità inizia con un brivido. La seduta, convocata da Pera di buon mattino, è appena iniziata e manca subito il numero legale. Un incidente di percorso che non impedisce alla maggioranza di procedere a tambur battente nell'approvazione dei rimanenti sei articoli del ddl, malgrado le continue richieste dell'opposizione di verificare il numero legale. A mezzoggiorno l'aula dà il via libera all'articolo 33, la famigerata devolution (competenze esclusive delle regioni in materia di sanità, scuola e polizia locale) che il presidente della regione Piemonte Enzo Ghigo (Fi), rompendo il fronte unitario con i governatori di centrosinistra, definisce «un passo avanti verso la completa riforma federale dello Stato». L'opposizione non ci sta. Esce dall'aula per protestare contro «la rottura dell'unità nazionale» e non partecipa alla parte finale del dibattito, lasciando solo un rappresentante a presidiare l'aula, per consentire il voto sui propri emendamenti.

Ma non c'è più nulla da fare. È disco verde anche sulla nuova composizione della Corte Costituzionale e sulle procedure semplificate per la creazione di nuove regioni. Il centrosinistra e Rifondazione tornano nei loro banchi solo per le dichiarazioni di voto. E lo scrutinio finale si svolge in un clima incandescente, tra le grida di «vergogna» dell'opposizione e i cartelli issati dai senatori An che inneggiano alla neo-nata «nuova Italia».

Ulivo e Prc usano toni durissimi contro quello che bollano come uno «strappo della maggioranza, fatto sotto il ricatto della Lega». Franco Monaco (Margherita) se la prende con il «cinismo» del centrodestra che «fa carta straccia della costituzione». Luigi Malabarba (Rifondazione) parla di «deriva autoritaria e plebiscitaria». E aggiunge: «è imparagonabile l'errore che fu la modifica ulivista dell'articolo V della Costituzione con l'attuale disinvolta distruzione dell'ordinamento democratico». Per Marco Rizzo (Pdci) siamo al «punto di non ritorno». L'occhettiano Antonello Falomi intravede addirittura la «ripresa del piano della P2, alla quale Berlusconi era affiliato». Per Cesare Salvi (Ds) siamo di fronte a un «colpo di stato legale», mentre il verde Sauro Turroni sente il dovere morale di «chiedere scusa ai padri costituenti» di fronte allo «scempio» in atto. E critiche vengono anche da tutti presidenti delle regioni di centrosinistra.

Anche nella maggioranza alligna però più di qualche perplessità. Lo testimoniano i voti contrari di tre senatori di An. Vota no il vicepresidente del Senato Domenico Fisichella (il suo intervento in aula è applaudito dall'opposizione), da sempre critico con questa riforma, giudicata «priva di sufficienti bilanciamenti» ai maggiori poteri attribuiti al premier, e capace di destabilizzare le istituzioni con «indiscriminata virulenza eversiva». Contrari anche i nazional-alleati Franco Servello e Roberto Meduri che, in uno sbotto di sincerità ammette di «non riuscire a buttare giù questa pillola». Ci tiene ad essere in aula al momento del voto pure Francesco Cossiga, per dire no a «un modello democraticamente pericoloso», figlio però, tiene a precisare il senatore a vita, della «incauta, sbagliata e parziale» riforma costituzionale ulivista.

Di fronte a cotanti attacchi arriva la difesa d'ufficio di Gianfranco Fini che cita la reintroduzione del concetto di «interesse nazionale» per smentire l'equazione devolution uguale spaccatura del paese. Poi già che c'è, il vicepremier smorza sul nascere la tentazione leghista di trasferire il Senato federale a Milano, definendola una «clamorosa sciocchezza».

Ora il testo sulle riforme passa alla camera. Il capogruppo leghista Cé sa che «il percorso sarà difficile». Ma Calderoli sprizza ottimismo e fissa il prossimo obiettivo: approvazione pur con modifiche, ai primi di settembre.

Andrea Gagliardi
Roma, 26 marzo 2004
da "Il Manifesto"