Il fallimento dell'Unione è innegabile il futuro della sinistra è da costruire

Perchè abbiamo perso la sfida

Il governo Prodi è stato, fin dal suo nascere, un governo debole, non soltanto perché al Senato non c'erano i numeri (anche, certo, per questo), ma perché non ha investito un grammo delle sue energie su quel famoso slancio partecipativo che pure era stato, all'inizio, la vera forza dell'Unione.

In queste ore, mentre si decidono le sorti del governo Prodi ed è impossibile nutrire un pur vago ottimismo, non possiamo eludere una riflessione (almeno l'avvio di una riflessione) di fondo su ciò che è accaduto. Non su Mastella, il “mastellismo”, i numeri del Senato e tutta “quella specie di cose” che travagliano e travaglieranno le nostre giornate, ma sulla portata effettiva di una crisi di governo che, come ha scritto ieri Piero Sansonetti, questa volta coincide tout court con la crisi della politica. E che per questo è così difficile affrontare, per non dire risolvere o superare.

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Muovo, intanto, da una convinzione: l'Unione non c'è più, la sua sconfitta, o il suo fallimento, sono ormai consumati e in attesa della certificazione conclusiva. Parlo dell'Unione - spero che non ci siano equivoci - non come “creatura politica” (che personalmente auspicherei durasse fino al 2011), ma come opzione strategica, nella quale abbiamo investito, sperimentato, lavorato negli ultimi tre anni. Parlo dell'Unione come terreno positivo di sfida anche per la sinistra radicale, e per il futuro.

Di che si trattava? Del tentativo di trasformare una scelta “coatta” (resa tale sia dall'esistenza di una destra robusta e pericolosa, sia dal sistema elettorale) in una possibilità riformatrice, rovesciando “a nostro favore” lo stesso schema bipolare. I contenuti di questa scommessa, per noi, erano chiari - lavoro, precarietà, redistribuzione della ricchezza, ridislocazione autonoma della politica estera, diritti civili - a differenza dei nostri partner così detti “riformisti”, in evidente crisi di progetto e di proposta.

Così come ne erano chiari i protagonisti: non solo e non tanto la nostra capacità “contrattuale”, ma la vitalità dei movimenti, delle forze aggregate nella società, delle associazioni, delle comunità di lotta, della stessa opinione pubblica democratica che chiedeva, o si attendeva, l'apertura di una nuova stagione, dopo la lunga gelata berlusconiana.

Dunque, non era un'utopia, e men che mai una scelta di comodo, dettata dalla voglia di entrare, finalmente, nella famosa “stanza dei bottoni”: era la sola sfida seria da tentare, per una sinistra non autoridotta allo stato testimoniale, o di nicchia, e non rassegnata alle pulsioni suicide che hanno portato alla nascita del Partito Democratico.

Ma è proprio questa sfida, temo, che abbiamo perduto. L'abbiamo perduta non solo sul terreno programmatico, di risultati tangibili (e simbolici) rilevanti, della politica economica e sociale, della laicità, ma su quello, forse più importante, della rivitalizzazione della politica e del rapporto tra politica e società.

Il governo Prodi è stato, fin dal suo nascere, un governo debole, non soltanto perché al Senato non c'erano i numeri (anche, certo, per questo), ma perché non ha investito un grammo delle sue energie su quel famoso slancio partecipativo che pure era stato, all'inizio, la vera forza dell'Unione.

Perché è apparso - è stato - in preda a una defatigante ed estenuante mediazione interna, mai affrontata con un atto di coraggio, o di rottura. Perché, come logica conseguenza dell'assenza di ogni tentativo di riforma della politica (a cominciare dalla composizione più che ridondante dell'esecutivo), è stato alla fine subalterno ai poteri forti e alle pressioni corporative, senza per altro neppure riuscire a stipulare con essi un qualche accordo stabile. Allo stesso tempo - cito per tutti un episodio a fortissima valenza simbolica - l'unica “voce forte” è stata quella espressa contro il movimento “no Dal Molin”.

Ma, a parte queste ed altre ragioni che andranno indagate e ricostruite, quel che è venuta meno è stata la disponibilità (o possibilità?) a realizzare sul campo quel “patto riformatore” sintetizzato e simboleggiato dal Programma.

Noi, sinistra e sinistre politiche, al governo e in Parlamento, abbiamo fatto, credo, il massimo possibile, ottenendo talora qualche risultato e, molto più frequentemente, riuscendo nell'arte di tutte più oscura e misconosciuta: la “riduzione del danno”.

Un lavoro, o meglio una fatica grandissima, e anche meritoria: abbiamo inibito, ostacolato, impedito il dispiegarsi di organiche politiche neoliberiste, antiambientali, privatistiche, abbiamo “sanato” alcune situazioni scandalose, abbiamo “segnato” alcuni possibili percorsi.

Ma non siamo riusciti ad imprimere al quadro politico l'accelerazione, l' elan necessari - ed è questo, mi pare, che ci rimprovera la “nostra gente”, non la mancanza di volontà, ma di efficacia. Questa latitanza di “connessione sentimentale” ha rafforzato, non a caso, l'umore antipolitico di massa, già alimentato dalla borghesia con rutilanti campagne mediatiche - sarà un caso che l'unico nuovo movimento di questi tre anni sia stato il dispiegamento del “grillismo”, per quanto fragile, effimero e neppure così interessante esso sia?

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Da queste schematiche riflessioni, non è lecito trarre alcuna conclusione tranchant - tipo “mai più al governo con la borghesia”. Ma è doveroso, certo, il ripensamento del rapporto tra sinistra e Governo, tra sinistra e politica, anche per fronteggiare quella “questione morale” che tanto la attraversa, anche in questa crisi.

Al centro di questo ripensamento, non può che esserci la questione dell'autonomia della sinistra, del nuovo soggetto unitario e plurale in costruzione, per quanto acciaccato possa apparire. In parte (ma solo in parte) ha ragione Mario Tronti, quando ripropone per la sinistra (come su Liberazione di ieri) un'ottica di nuovo inizio, di rigenerazione che sia inestricabilmente sociale e politica, e “di minoranza”, cioè “non maggioritaria”, cioè vocata alla conquista di forza prima che di potere.

Per queste ragioni, mi pare, diventa (ridiventa) essenziale la conquista di quell'autonomia elettorale, che può esser garantita soltanto dalla fine del bipolarismo e da un sistema elettorale non più fondato sulle alleanze coatte. Forse, c'è qui anche uno spicchio di opzione strategica: se fosse vero che non sono possibili, in questa fase, “compromessi dinamici” con le forze democratiche e moderate, potrebbe però risultare decisiva la lotta per impedire l'involuzione americana del sistema politico.

Non è detto, certo, che l'obiettivo sia alla nostra portata, ma mi pare difficile negarne l'importanza, nient'affatto tattica. L'andamento della crisi di governo è tale che spinge ad altri esiti, alla sciagura di elezioni anticipate che non solo si annunciano come perdenti, ma come politicamente ripetitive, chiuse nello stesso schema maggioritario, bipolare e “unionista”, già tentato e già, come dicevo, sconfitto.

Non dicevano i classici che la storia non si ripete mai, se non in farsa? Forse, intanto, sarebbe bene evitarcela, questa farsa e questa ulteriore, duplice sconfitta.

Rina Gagliardi
Roma, 24 gennaio 2008
da “Liberazione”