Berlusconi non è il diavolo e Moretti non è un esorcista

Il girotondo della giustizia sociale

Nonostante lo stile luciferino del suo gabinetto, Berlusconi non è il diavolo. Invece l'Ulivo pensa che lo sia e, piuttosto che contrapporgli un blocco di opposizione nella società e nella politica, lo insegue e gli sfugge denunciandone le diavolerie. Forse a causa della catechesi pontificia - che ci intima di non considerare come una pura metafora la pelle di Belzebù - il nostro premier viene tinteggiato proprio così, con la coda e le corna, un puzzo di zolfo siciliano, insomma come una peculiare incarnazione del Maligno. Come tutti i diavoli, ci appare imprendibile e ci sollecita, insinuante e vischioso, a fare patti con lui. Appunto, i patti col diavolo.

Come definire altrimenti il pendolo di un centro-sinistra che oscilla, quasi con moto schizoide, tra demonizzazione e consociazione, tra scontro frontale spinto fino alla tentazione aventiniana e sublime ricerca dell'accordo bipartisan con lui, col Cavaliere Irresistibile, con l'uomo che di giorno sarebbe un gangster e di notte sarebbe uno statista?

Questo girotondo del fronte ulivista è la rappresentazione plastica di un cupo avvitamento dentro le spirali di una politica che non vede, non sente e non parla, ovvero di un politicismo che abita la separatezza sociale delle Istituzioni e si riproduce per partogenesi. Come un diaframma tra politica e vita, come un sortilegio che immunizza la politica dalla vita, come un riparo dalla magmatica e dolente materialità del sociale: così è il dispiegarsi della prosopopea sul "riformismo" e sulla "governabilità". Che sono parole senza corpo, maschere senza colore di una resa allo stato delle cose, mero adattamento all'alternanza di ceti politici le cui differenze sarebbero apprezzabili solo con il metro di un astratto moralismo. La deriva è così catastrofica che il mare quieto della base sociale dell'Ulivo comincia ad agitarsi: non sopporta più le oscillazioni, il tepore di una opposizione crepuscolare, lo zigzag che finisce nella melina e nella melassa di nuovi patti, di nuove consociazioni. Qui nasce il maremoto di Nanni Moretti, la rivolta etica di una borghesia progressista che spara sul proprio "quartier generale", che denuncia l'afasia del gruppo dirigente della sinistra moderata. Qui nasce l'emblematico rimpianto per "Mani pulite", la straripante indignazione per un potere che torna a cingersi di inviolabilità e che torna ad esibire lo scandalo della sua secolare impunità.

Se Berlusconi è il diavolo, Moretti è una sorta di esorcista laico: senza crocifissi appuntiti e aspersori ambulanti, ma pur sempre armato di santo furore e di formule magiche. Lo dico per non essere frainteso: questa onda legalitaria è il segno di una crisi organica del progetto dell'Ulivo. Ma è anche un segno di reattività di un "popolo" alquanto speciale: un popolo senza popolo, un ceto medio delle buone maniere e del civismo, un pezzo di intellettualità liberal-progressista, ciò che resta di quella mitica "società civile" fecondata dalle inchieste di Milano e di Palermo. Sono amici e amiche a cui vorrei porre alcune domande. Non è più utile cercare di conoscere il segreto (che non è solo economico o televisivo) della fortuna politica di Silvio Berlusconi, non è persino indispensabile analizzarne criticamente il blocco sociale e l'ideologia, piuttosto che attardarsi in una demonizzazione che rende meta-politico questo avversario e non ne capisce i codici, le alleanze, la natura e le forme di insediamento nel ventre molle della società italiana? Prima questione.

Seconda questione: la giustizia è un terreno minato e scivoloso, dove a sinistra si sono commessi errori gravi ed anche fatali. Noi dobbiamo essere capaci di separare il grano dal loglio, di non ripetere copioni già consumati e perdenti. Bisogna rivendicare l'esercizio pieno del controllo di legalità, plaudendo a chi, nei ranghi della repressione penale, non si è fermato sulla soglia dei palazzi del potere, ma ha saputo ficcare il naso nella trama torbida dei rapporti tra classi dominanti e gruppi criminali. Ma delegare alla frontiera dei Pubblici Ministeri il mestiere della rivoluzione, indulgere alla tentazione delle scorciatoie repressive ed emergenziali, affidare alla norma penale e alla casta giudiziaria compiti di governo della complessità: questo è sbagliato, è una semina di vento che ci fa inevitabilemnte raccogliere tempesta.

Non solo: ciò che fa Berlusconi oggi ha molto a che fare anche con la subalternità del centro-sinistra alla logica del mercato e del primato del sistema d'impresa. Lui azzarda mosse spettacolari - e drammatiche per la nostra "civiltà giuridica" e anche per la nostra vita - perché ha trovato il terreno arato dagli avversari. Che fa Berlusconi in materia di giustizia? Fa il marxista all'incontrario: poiché il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è una pia illusione liberale - si tratta di una eguaglianza formale divorata dalla diseguaglianza sociale - il capo della destra si spinge fino a sanzionare la diseguaglianza formale dei cittadini di fronte alla legge: ci dice, e non parla solo di sè e per sè, che la ricchezza è sempre innocente e la povertà è sempre colpevole. Scrive un doppio codice, di un classismo senza orpelli e senza vergogna: i reati dell'establishment sono cancellati, si va oltre alle norme del garantismo e alle pratiche dell'impunità. La proprietà è sacra e quindi il proprietario è "legibus solutus": viceversa, i giovani, i proletari vecchi e nuovi, i migranti, i diversi, i devianti sono oggetto di una recrudescenza senza limiti dell'attenzione penale e dell'afflizione sociale (urbana, lavorativa, culturale). Lo fa in sintonia con quella sorta di "emergenzialismo planetario" rappresentato dalla guerra e dal suo indotto di repressione su vasta scala. Lo fa per una questione di classe.

Per questo io penso, lo dico sommessamente a Moretti e agli amici del girotondo, che l'appuntamento più importante e più concreto che hanno di fronte quanti si ribellano all'illegalità che si fa Stato, è lo sciopero generale proclamato dalla Cgil. Altrimenti la legalità sarà una predica o una maledizione per addetti ai lavori. E non la sfida collettiva di quella vera giustizia che è sempre stata, sia pure declinata nella singolarità ed individualità dei diritti, giustizia sociale.

Nichi Vendola
Roma, 24 febbraio 2002
da "Liberazione"