Dal disastro della Fiat alla guerra

Bilancio disastroso

Un anno e mezzo di governo Berlusconi

Un anno e mezzo di duro lavoro, ha ragione Corrado Guzzanti. Un anno e mezzo nel quale il governo non è certo stato con le mani in mano. Ne ha fatte di cose, in una tenace, coerente, sistematica opera di demolizione del welfare, dello Stato di diritto, della Costituzione repubblicana. Non c'è bisogno di andare lontano, basta sfogliare i giornali di quest'ultima settimana.

Il disastro della Fiat.

Mentre il suo governo cancella i sindacati da una trattativa con l'azienda condotta nel più puro stile corporativo, il presidente del Consiglio ne approfitta per elogiare il lavoro nero e per insultare gli operai in sciopero, quelli stessi operai che i Ros filmano e schedano, in attesa di tempi migliori. Domanda: come ha influito l'interesse particolare dell'imprenditore Silvio Berlusconi in combutta con Mediobanca, in un disastro nel quale sono in gioco le sorti dell'industria e del sistema economico nazionale e che, secondo fonti bene informate, mette a rischio 300mila posti di lavoro?

La finanziaria.

Aumento delle tariffe e dei prezzi, blocco delle assunzioni, mancati rinnovi contrattuali nella pubblica amministrazione. E tagli. Alla spesa, ai trasferimenti a Regioni e Comuni (che aumentano Ici, aliquote Irpef e reintroducono ticket sui farmaci), alla sanità penitenziaria (20 milioni di euro sottratti all'elemosina dei 95 previsti), alla scuola pubblica, all'Università (che aumenterà ancora le tasse), alla ricerca (con i tagli subiti e progettati, il Cnr non potrà pagare nemmeno le utenze e gli affitti e dovrà disdire le collaborazioni internazionali, vitali per tutta la comunità scientifica, quindi per tutto il paese). Questo per un verso. Per l'altro: condono fiscale, depenalizzazione dei reati fiscali, proroga dello scudo fiscale (la prima delle leggi vergogna con cui si è via via picconata la legalità); soldi alle scuole private e alle comunità di recupero gestite dai clienti; assalto all'arma bianca al patrimonio storico-artistico e ambientale; grandi opere utili soltanto a foraggiare gli amici degli amici.

La giustizia.

Dopo le rogatorie, il falso in bilancio, la Cirami e la tragica farsa dell'indulto e in attesa dell'impunità per i parlamentari, dell'asservimento dei Pm e del carcere duro per migranti e oppositori politici, la museruola al pentito Giuffrè, che rischiava di mettere nei guai troppi confratelli.

L'attacco alla Costituzione.

La vergogna criminale della Bossi-Fini, che procura ogni giorno terrore e violenza alla componente più debole del paese - i migranti - e che ha consegnato nelle mani del boia una famiglia di profughi siriani. La censura sui libri di storia e sulla Rai, le mani che si allungano sul Corriere della Sera. La devoluzione, che punta a spaccare il paese, a consegnarlo ai potentati locali delle Imprese e delle Mafie, a sancire il divario tra un nord sempre più ricco e un Mezzogiorno sempre più disperato. Il progetto presidenzialista-piduista, dichiaratamente teso a concentrare nelle mani dell'Unto del Signore un potere anche formalmente irresistibile, libero persino dai tenui vincoli che può oggi porgli un Parlamento blindato. Il tutto sullo sfondo del puntuale ritorno della strategia della tensione (le bombe a Genova, a Roma, a Milano, un film già visto troppe volte ma evidentemente ancora attuale).

La guerra.

La porta sbattuta in faccia ai palestinesi; il tentativo (per fortuna fallito) di portare la Turchia nell'Ue per acquisire nuovi meriti agli occhi del Padrone a stelle e striscie; la smania di dichiarare a ogni piè sospinto la propria fedeltà - «ci saremo anche noi!» - all'asse anglo-americano e alla sua politica di potenza.

Questo è il quadro, nei suoi elementi essenziali. Diventa sempre meno comprensibile - sempre più simile alla svagata allegria dei naufragi - la diffusa propensione a far finta di nulla. Anzi, a cercare, come si suol dire, il «dialogo». Eccellono in questo sport il segretario e il presidente dei Ds. Il primo ci provò, circa un mese fa, proprio sulla giustizia, ma fu subito messo a tacere, per carità di patria, da alcuni suoi compagni di partito. Il secondo è tornato alla carica in queste ultime ore, con la sua consueta linearità bizantina. Sul presidenzialismo «non possiamo limitarci a dire no». E perché non accettare l'ipotesi del risarcimento, anche senza la giusta causa? Pesa, evidentemente, la nostalgia della Bicamerale. E pesa, soprattutto, la preoccupazione di segnalarsi agli occhi dei veri poteri - le banche, la Confindustria, la Nato - come componente ragionevole dell'opposizione, affidabile e capace di coniugare «riforme» (cioè privatizzazioni e attacco a diritti e salari) e pace sociale.

La parte migliore del paese - e anche ampi settori dell'opposizione - battono, per fortuna, altre strade. Scendono in piazza, ingrossano le file dei movimenti. Manifestano solidarietà agli operai che rischiano tutto e ai compagni messi in carcere per avere osato dissentire. E dicono con forza no alle leggi vergogna del governo e al regime che minaccia di nascere. Questa parte del paese, queste forze politiche e sindacali, hanno sempre incontrato Rifondazione sulla propria strada e continueranno ad averla al fianco in questi mesi cruciali. Le nostre bandiere saranno ancora in prima fila nelle lotte che ci attendono. Contro la guerra, contro questo governo della malavita. E ora, finalmente, a sostegno dei referendum sociali che abbiamo voluto e che possono dare il segnale di riscossa di cui il paese ha urgente bisogno.

Alberto Burgio
Roma, 19 dicembre 2002
da "Liberazione"