Perché il sindacalista Cofferati sceglie Prodi e scarica i Ds. Non è solo questione di tattica, o di giochi politici di breve periodo

Dalla Cgil all'Ulivo

In questi giorni, molto si è discusso dell'intervista di Cofferati al Corriere, con relative precisazioni, repliche, aggiustamenti. Non abbiamo riflettuto a sufficienza, forse, sul fatto che essa, almeno al momento, mette una pietra tombale su un mito della politica (e della politologia) duro a morire: la nascita di una "vera socialdemocrazia", con annesso leader, seguito di massa, ideologia "riformista". Se c'era qualcuno che sembrava incarnare perfettamente questa tipologia - storicamente assente dall'Italia - era proprio il segretario della Cgil: per vocazione culturale e perfino antropologica, nonché per le scelte concrete degli ultimi mesi. Invece, con notevole lucidità e coerenza (vedremo in quale senso), Cofferati ha delineato una prospettiva strettamente ulivista: prodiana doc, anzi liberaldemocratica (come ha scritto Ritanna Armeni su Liberazione del 7 agosto). Priva, soprattutto, delle coordinate tipiche di un'opzione socialdemocratica: come il riferimento al lavoro e alla sua rappresentanza, sia pure, magari, in un'ottica moderata.

Ma perché un'opzione così "sorprendente" che, come si è visto, spiazza tutte le sinistre del centrosinistra, isola in particolare la sinistra interna della Quercia, suona come una liquidazione secca dei Ds e del suo gruppo dirigente (D'Alema e Fassino in specie), ridà forza all'ala più "intransingentemente ulivista" della stessa Margherita? Parisi e Micheli, dioscuri di Romano Prodi, hanno infatti colto la palla al balzo per rilanciare il famoso "ticket" (Prodi-Cofferati) per le prossime (e lontane) elezioni politiche e, con esso, l'idea dell'Ulivo partito unico. E i Ds - a cominciare dai dalemiani - non hanno potuto che replicare gelidamente: il programma della coalizione, ha detto Luciano Violante, lo scrivono i partiti, altro che comitato di saggi. Perché, dunque, una collocazione così "anomala" che, se allontana le prospettive di scissione, avvicina ulteriori tempeste nel già disastrato centrosinistra? Lasciamo stare, per un momento, i giochi tattici di breve, e il chiacchiericcio agostano (per altro destinato a intensificarsi negli appuntamenti settembrini).

Ma cos'è una socialdemocrazia?

Facciamo un passo indietro: in Italia, dicevamo, non c'è mai stato un partito socialdemocratico, nel senso "europeo" del termine. In realtà, per quasi cinquant'anni, nel nostro Paese, è stato il Partito comunista a svolgere un ruolo forte di rappresentanza delle classi lavoratrici e popolari, nonché una concreta funzione, insieme, di opposizione e di capacità riformatrice. Certo, per ragioni ideologiche, scelte di campo internazionale, pratiche politiche e sociali. il Pci non è stato un vero partito socialdemocratico: forse, è stato una socialdemocrazia sui generis, atipica. Quando, ormai una dozzina di anni fa, il Pci si è sciolto, diventando prima Pds e poi Ds, il ciclo ascendente dei partiti socialdemocratici europei volgeva oramai al tramonto, travolto anche dal crollo del socialismo reale: dunque, la nuova formazione maggioritaria della sinistra italiana, che sorgeva sulle ceneri di quella straordinaria "giraffa" che era stato il Pci, non poteva approdare ad una identità che non solo era assente dal suo Dna ma che stava diventando politicamente impraticabile. Non c'era stato soltanto il terremoto dell'89: si stava avviando un ciclo capitalistico radicalmente nuovo. Come si faceva - come si fa - a fare i socialdemocratici con un capitale che adotta, spesso ciecamente, la religione neoliberista? Che cosa si contratta con chi sembra perseguire, anzi persegue, la sistematica riduzione di diritti, tutele e ruolo dello Stato? Il risultato di questo complesso (e rovinoso) processo è stato un partito, i Ds, e una sinistra moderata, che hanno abbracciato, sia pure tra notevoli resistenze interne, un'identità genericamente liberaldemocratica: progressista e liberale, in senso però molto vago, a-ideologico. Hanno reciso cioè ogni legame organico con la classe operaia e lo stesso mondo del lavoro dipendente, per rivolgersi ad una "cittadinanza" apparentemente indeterminata, ma che era (ed è) in realtà un ceto medio urbano, acculturato, benestante. Il modello di riferimento di questo tipo di sinistra era (ed è) il partito democratico americano. L'identità politica conseguente è quella del bipolarismo puro e del sistema elettorale maggioritarismo: dove la politica, appunto, non "rappresenta" più interessi o classi sociali, e neppure programmi, ma opzioni generalissime di valori. Dove, s'intende, si può essere più o meno liberal, più o meno (meno) radical, ma sempre e soltanto su terreni specifici, civili, "formali" e non sostanziali. Tutte le vicende di questi anni - compresa l'ascesa e la sconfitta del centrosinistra - si sono dunque dipanate all'interno di un presupposto intimamente (perfino drammaticamente) contraddittorio: per portare a coerente compimento le ragioni della sua nascita, il Pds-Ds avrebbe dovuto morire, sciogliersi, cioè, in un soggetto politico più largo - l'Ulivo. O, ciò che non è riuscito a fare e che non può fare, dato il peccato originale di cui è portatore, ad egemonizzarlo davvero.

Movimenti, radicalità, partito

Alla luce di questo sommario excursus, si capiscono, forse, le ragioni di fondo dell'ultima sortita cofferatiana. Tra il Cofferati sindacalista e il Cofferati ulivista non solo non c'è divergenza, ma un nesso stringente: il bipolarismo concertativo. Come leader della Cgil, non è mai stato un "massimalista": piuttosto, è stato ed è un contrattualista puro, un moderato, un propugnatore della concertazione, mai messa in discussione neanche nel momento dello scontro più aspro, così come la linea di moderazione salariale perseguita in questi anni dal sindacato. Come esponente ds, non è forse del tutto casuale che le sue maggiori simpatie, negli anni scorsi, siano andate all'ala detta "migliorista" del partito. Nella rottura di questi mesi - l'irruzione dell'"ingombro Cgil" sulla scena, le giornate del 23 marzo e del 16 aprile, la dichiarazione dello sciopero generale d'autunno - Cofferati ha seguito uno schema, a ben pensarci, molto limpido, in parte anche molto innovativo quanto alla "radicalità delle forme", mai però realmente proteso alla costruzione di un nuovo soggetto politico - un partito del lavoro, "naturale" espansione della Cgil, nucleo possibile di una forza neosocialdemocratica. Lo schema era - e resta - la difesa intransigente di una "ditta" sotto attacco (e pesantissimo), portato da un avversario che ha deciso di rompere con la concertazione: l'obiettivo, come Cofferati non si stanca di ripetere, è quello di ripristinare rapporti di forza tali che costringano il governo a trattare, da capo, a riavviare il rapporto concertativo. Di nuovo, s'intende, ci sono la mobilitazione di massa, il movimento, la radicalità della partecipazione diretta: ma la loro "rappresentanza", o "rappresentazione", in così scarsa determinazione di contenuti, piattaforme, obiettivi offensivi, è aperta a diversi esiti. Perché non dovrebbe costituire uno sbocco efficace un vero "partito dell'Ulivo", in competizione vera con il partito della destra? Un soggetto politico - una "ditta" - nettamente distinto, anzi separato dal soggetto sindacale, e dai soggetti sociali: per organizzarli, in quanto tali, ci sono la Cgil, i movimenti, i girotondi, tutti in qualche modo equivalenti. Un soggetto capace di assumere, rielaborandola in chiave democratica, la crisi della politica, e l'antipolitica, di cui si è impadronito il Polo: del resto, non era ben presente questa tematica proprio nella svolta occhettiana? Un soggetto funzionale ad un sistema politico rigorosamente fondato sul bipolarismo e sull'alternanza, che a sua volta costituisce una variante particolare della concertazione: dove si "concertano" prima i valori di riferimento comuni, le regole, le scelte generali di politica economica e di schieramento internazionale, indi si compete. Anche fino all'ultimo sangue. Ma si finisce per fare - con diversi gradi di intensità, e in Italia di civiltà - la stessa politica.

Rina Gagliardi
Roma, 9 agosto 2002
da "Liberazione