La Costituzione e le vicende politico-istituzionali italiane dal 1946 al 1994

2.3 L’idea e i contenuti di ispirazione liberale

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Una seconda componente ideale presente all’interno dell’Assemblea Costituente fu rappresentata dai valori dell’antica tradizione liberale italiana.

I liberali ottennero il 6,8% dei suffragi, ma nonostante questa modesta presenza numerica, i valori che essi rappresentavano si ritrovano affermati in modo consistente nella Carta costituzionale:

Alla base di tali valori c’è la convinzione che l’individuo, portatore di bisogni soggettivi, abbia un valore fondamentale.

In un ipotetico e primitivo stato di natura, come affermava il filosofo inglese John Locke, l’individuo, alla ricerca della soddisfazione dei suoi bisogni, dispone del diritto naturale di appropriarsi di tutte quelle cose che rappresentano il risultato del suo lavoro (diritto di proprietà) ed, eventualmente, anche del diritto naturale di scambiare con altri individui il frutto della sua attività (contratto).

Diritto di proprietà e contratti preesistono dunque a ogni umana istituzione quali possono essere lo Stato e le sue leggi. Però, Stato e leggi si rendono indispensabili al fine di garantire proprio quei diritti naturali e una pacifica convivenza fra gli individui, evitando che ognuno possa farsi giustizia da sé.

Emergono così chiaramente le due componenti proprie del pensiero politico liberale.

Da un lato l’idea del liberalismo politico, cioè la convinzione della necessità del ruolo minimo e limitato dello Stato che, contro ogni dispotismo, è chiamato a svolgere la funzione di arbitro tollerante e garante dei diritti naturali di tutti gli individui considerati liberi ed eguali, da cui scaturisce anche la concezione e tutta la cultura giuridica dello Stato di diritto e della separazione dei poteri, necessaria per evitare ogni tipo di sopruso da parte di chi esercita il potere.

Dall’altro lato l’idea del liberismo economico, cioè l’affermazione della libertà di ogni individuo ad essere affrancato da qualsiasi vincolo relativamente alla produzione, distribuzione e domanda dei beni economici. Il ruolo minimo e limitato dello Stato, da questa angolazione, significa, secondo i dettami della teoria economica classica e neoclassica, esaltazione della concorrenza e delle libere forze del mercato ritenute, da sole, in grado di determinare automaticamente il migliore assetto nei rapporti economici, secondo la nota formula del laissez-faire per la quale il perseguimento del proprio interesse individuale non può che determinare l’interesse e il maggior benessere di tutta la collettività.

Entrambe le idee, del liberalismo politico e del liberismo economico, sono in modo consistente presenti nella Costituzione italiana. In diretta antitesi al regime instaurato dal fascismo, i Costituenti sentirono la necessità di costruire qualcosa di diametralmente opposto, recuperando appieno dallo Statuto Albertino, e ampliandoli decisamente, tutti quei diritti civili soffocati dalla dittatura che aveva imposto agli individui discriminazioni ingiuste e arbitrarie.

In primo luogo, l’art. 2 della Costituzione enuncia solennemente che "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità..." e il successivo art. 3, "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali...".

I diritti naturali di "Tutti i cittadini... senza distinzione...", che la Costituzione preferisce definire come diritti inviolabili, vengono da essa "...riconosciuti...", cioè considerati come preesistenti all’ordinamento giuridico, comunque spettanti ad ogni uomo libero quale patrimonio naturale della sua personalità, conferendo ad essi un altissimo e profondo valore che nessun regime o modifica costituzionale potrà mai annullare.

La Costituzione inoltre "...garantisce..." questi diritti naturali, disciplinandoli in modo articolato, soprattutto a partire dal tit. I della prima parte, dedicato ai rapporti civili: la libertà personale, all’art. 13; l’inviolabilità del domicilio, all’art. 14; la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, all’art. 15; la libertà di circolazione e soggiorno, all’art. 16; la libertà di riunione, all’art. 17; la libertà di associazione, all’art. 18; la libertà di religione, agli artt. 19 e 20; la libertà di manifestare il proprio pensiero, all’art. 21.

A tutti questi si aggiungono ancora altri articoli e ognuno di essi sottolinea il carattere garantista tipico della concezione liberale che impone allo Stato un "non fare", una presenza "in negativo", minima e limitata nella società in cui debbono poter dispiegarsi liberamente le azioni e gli interessi individuali senza alcuna interferenza.

A garanzia di questi limiti del potere dello Stato, si ritrovano nella Costituzione italiana i due principi fondamentali tipici dello Stato liberale: da una parte l’affermazione dello Stato di diritto, dall’altra il principio della divisione dei poteri.

Lo Stato di diritto impone che le azioni dei pubblici poteri vengano sottoposte a norme giuridiche che consentano di tracciare preventivamente i confini della loro legittimità per evitare abusi arbitrari e incontrollati.

L’esistenza stessa della Costituzione ne è già un’affermazione, sia nella disciplina dei diritti degli individui nei confronti dello Stato, sia nella disciplina dell’organizzazione dei pubblici poteri contenuta nella seconda parte relativa all’Ordinamento della Repubblica; di essa si sottolinea l’importanza e il valore dell’enunciazione dell’art. 97 in cui il principio di legalità viene ribadito con riferimento specifico alla pubblica amministrazione: "I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione".

Il principio della divisione dei poteri parte dal presupposto che se tutti i poteri dello Stato fossero concentrati nelle mani di una sola autorità, si determinerebbe quella che il pensatore politico francese Montesquieu, suo primo teorizzatore, definiva tirannide e che in questo secolo si definisce dittatura.

Il potere legislativo di fare le leggi, il potere esecutivo di attuarle attraverso gli apparati amministrativi, il potere giudiziario di applicarle agli stessi apparati amministrativi, a tutte le autorità e agli individui se non le rispettano, risolvendo le controversie, devono essere, ciascuno nel proprio ambito, autonomi e indipendenti.

Se, come ai tempi dello Stato assoluto, chi pone in essere le norme si identifica con chi è chiamato ad eseguirle e controlla chi deve giudicare le controversie relative alla loro violazione, la conduzione del potere non potrà che essere arbitraria e incontrollata.

Non è una situazione molto dissimile da quella propria di ogni dittatura e, in particolare, del regime fascista: il governo di Mussolini, a capo dell’esecutivo, controllava sostanzialmente già dal 1925 l’Assemblea legislativa che nel 1939 venne anche formalmente soppressa e sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e, siccome i giudici ordinari non davano sufficienti garanzie di fedeltà al regime, nel 1926 istituì anche il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, composto da giudici compiacenti e legati al fascismo, con il compito di giudicare i reati politici.

Parlamento, Governo e Magistratura, ma anche Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale, vengono disciplinati nella seconda parte della Costituzione repubblicana che prevede per ciascuno ambiti di autonoma competenza ben precisi, con particolare attenzione all’autonomia e all’indipendenza dei giudici.

In una forma di governo parlamentare come quella delineata dalla Costituzione, in cui il Governo deve godere della fiducia del Parlamento, il problema dell’indipendenza dei poteri si pone soprattutto con riferimento alla Magistratura nei confronti del potere politico, rappresentato, appunto, dall’asse Parlamento-Governo.

Per evitare, come era accaduto nel periodo fascista, una strumentalizzazione del potere giudiziario da parte del potere politico, nel tit. IV della seconda parte della Costituzione dedicata alla Magistratura, vengono individuate una serie di garanzie a favore dell’indipendenza e autonomia dei giudici.

L’art. 104 recita solennemente che "La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere" e successivamente indica la maggiore garanzia di indipendenza e autonomia dei giudici prevedendo un organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura, formato in maggioranza da giudici eletti dagli stessi magistrati. Ai sensi del successivo art. 105 ad esso competono le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari relativi ai magistrati medesimi, al fine di evitare indebiti condizionamenti da parte del potere politico.

Un’altra garanzia riguarda la figura del pubblico ministero, cioè di quel magistrato che promuove l’azione giudiziaria e la pubblica accusa; al fine di evitare qualsivoglia forma di condizionamento e addomesticamento da parte del potere politico, l’art. 107 della Costituzione all’ultimo comma stabilisce che "Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario" e il successivo art. 112 che "Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale".

La Costituzione tutela però anche l’uso persecutorio che del suo potere la Magistratura può fare nei confronti del potere politico.

Per quanto riguarda i parlamentari, attraverso la cosiddetta immunità parlamentare prevista dall’art. 68, anche nella nuova recente formulazione, in base al quale "I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni"; inoltre lo stesso articolo prevede specifiche autorizzazioni che i giudici devono richiedere allo stesso Parlamento in alcuni casi di restrizione delle libertà personali, qualora i parlamentari stessi commettano reati.

Per quanto riguarda invece i Ministri, attraverso la disposizione contenuta nell’art. 96, anche questa oggi in una formulazione diversa da quella originaria, che prevede da parte dei giudici la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato e alla Camera per i reati commessi, dai Ministri stessi, nell’esercizio delle loro funzioni.

Oltre al riconoscimento normativo delle idee del liberalismo politico, la Costituzione italiana riconosce ampiamente i principi e le indicazioni del liberismo economico che, forse meno di altri, vennero toccati dalla tragica esperienza del fascismo.

Alla solenne dichiarazione dell’art. 41 della Costituzione "L’iniziativa economica privata è libera...", segue l’enunciazione dell’art. 42: "La proprietà è pubblica o privata. I beni appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e di godimento...".

Viene così garantita la libertà economica, intesa come libertà di ogni individuo di essere proprietario dei beni, e in particolare dei beni economici, di acquistarli, di venderli, di goderne e di disporne, di commercializzarli, senza alcun vincolo; ma anche intesa come libertà di intraprendere iniziative imprenditoriali, cioè di investire, di produrre, di assumere e vendere forza lavoro; in poche parole, vengono garantite tutte quelle condizioni essenziali e necessarie all’esistenza e allo sviluppo di un capitalismo moderno.

L’economia di mercato richiede, secondo questa visione, una presenza minima e limitata dello Stato, nella convinzione e fiducia che gli individui siano i giudici migliori nel decidere l’allocazione delle risorse. Mossi da intenti edonistici e sospinti dalle libere forze della concorrenza e della domanda e dell’offerta di mercato, il loro libero agire riuscirà sempre a garantire il benessere della collettività.

Si vedrà presto però che accanto a questi principi la Costituzione ne enuncia altri che, all’opposto, profilano invece la necessità di un marcato intervento pubblico nell’economia.

In questa, come in altre parti della Costituzione, si delinea perciò un quadro obiettivamente ambiguo: da una parte si riconosce la libertà (di proprietà, di contratto, di impresa), dall’altra si prevedono penetranti limiti e obblighi.

Fu questo uno dei problemi più dibattuti all’interno dell’Assemblea Costituente, e mai definitivamente risolto. La soluzione concreta sull’effettivo ruolo che è venuto ad assumere lo Stato italiano rispetto alla società civile e all’economia è, per questa ragione, dipesa dalle forze politiche che hanno governato il Paese, di fatto facendo oscillare la presenza pubblica nella fascia centrale di due estremi: del liberismo e del non intervento assoluto da un lato e dell’interventismo e dello statalismo dall’altro.

Graziano Galassi
Vignola, 1 maggio 1996
www.grazianogalassi.it