In vista delle elezioni politiche del 2006

CENTROSINISTRA E ALTERNATIVA: MANIFESTO PER UNA SINISTRA “NON GOVERNATIVA”

Si tratta di riaprire, partendo dall'opposizione e da una forte accentuazione del rapporto con i soggetti dell'aggregazione sociale, primi fra tutti i sindacati (confederali e di base) una prospettiva di transizione al socialismo, alla quale possono concorrere assieme socialdemocratici di sinistra, comunisti più o meno “eretici”, soggetti di movimento.

Negli ambienti della sinistra anticapitalistica italiana, circaola da qualche tempo, in vista delle elezioni politiche 2006, una proposta di presentazione alternativa allo schieramento di centrosinistra, che comprenderà anche Rifondazione Comunista.

Sgombero subito il campo da un dubbio: non sono favorevole, per quel che può valere la mia modestissima opinione, ad una forzatura elettorale per la quale, a mio giudizio, non esistono ancora le condizioni politico – organizzative, anche per il particolare clima in cui avrà luogo lo scontro elettorale.

Diversa valutazione potrebbe essere fornita, invece, ad una presentazione elettorale che avvenisse in situazioni particolarmente significative nelle elezioni amministrative che dovrebbero seguire, dopo un mese all'incirca, la consultazione politica: in quel caso, infatti, si potrebbero avere “test” interessanti, dai quali trarre indicazioni utili per il futuro.

D'altro canto sono del tutto favorevole ad avviare, da subito, una discussione, il più possibile allargata sotto l'aspetto dei soggetti di riferimento, ampia e approfondita al riguardo dei contenuti, sulla possibile strutturazione di una “sinistra non governativa”, la cui presenza, nel panorama politico italiano mi pare indispensabile e che, nel prossimo futuro, potrebbe presentare anche non trascurabili risvolti elettorali.

Rivolgiamo, allora, la nostra attenzione (senza alcuna tema di apparire precipitosi) allo scenario che si presenterà all'indomani delle elezioni politiche del 2006.

Potrebbe essere già avanzata una ragionevole previsione, fondata su due punti:

  1. il successo del centrosinistra (sul quale grava comunque l'incognita relativa al Senato, laddove il premio di maggioranza assegnato a livello regionale potrebbe rappresentare elemento di squilibrio, dal punto di vista dell'esito complessivo) sarà limitato e condizionato, nella sua espressione numerica della maggioranza dei seggi in Parlamento, dagli effetti della nuova legge elettorale, che non mi sento assolutamente di considerare come “proporzionale”;
  2. l'emergere di una evidente necessità, già risaltata nella fase conclusiva della presente legislatura, di scomposizione e ricomposizione dei soggetti presenti nel nostro sistema politico, assolutamente non più adeguati non soltanto all'emergere ( e al riemergere) di una qualità specifica delle contraddizioni sociali, ma anche, addirittura, rispetto ai loro stessi, pur rimasti minimi, riferimenti di valore.

Insomma: i partiti trovano difficoltà, in questa fase, non solo nel rapporto con la società, ma perfino a riconoscere loro stessi.

Esaminiamo, allora, quale potrebbe essere valutata come la motivazione portante dell'eventuale successo del centrosinistra nelle elezioni del 2006: quella, cioè, di rappresentare una sorta di “armata dei crociati” tesa a superare la fase politica avviatasi con la, cosiddetta, “Seconda Repubblica” e denominata con il termine, giornalistico e del tutto estraneo alla scienza politica, ma efficace di “berlusconismo” ( che non scomparirà, come fenomeno politico, con l'uscita di scena del suo massimo interprete).

Le elezioni 2006 assomiglieranno davvero, dal punto di vista del centrosinistra, ad una sorta di crociata, il cui criterio di aggregazione si è fondato sulla moneta di scambio di una forte genericità, non tanto dal punto di vista del programma, quanto della “collocazione sociale” della coalizione e dell'eventuale governo, che dovesse scaturirne, nel caso di esito positivo della tenzone elettorale.

Di conseguenza destinata, come tutte le crociate, a sciogliersi per “esaurimento di scopo”, nonostante la distribuzione dei ministeri e dei posti di sottogoverno, come accadde anche dopo la distribuzione dei principati latini nel Medio Oriente, ai cadetti della nobiltà fiamminga e francese, ai tempi di Goffredo di Buglione.

Sul versante del centrodestra è altrettanto prevedibile l'emergere di una pulsione verso il “rompete le righe”, se si verificherà una sconfitta, sia pure mitigata nei numeri dal meccanismo di assegnazione dei seggi, previsto dalla nuova legge elettorale.

Una modificazione, questa del sistema elettorale, che finirà con l'affossare il già malconcio “bipolarismo all'italiana”, che pure aveva faticato il tempo di tre legislature per affermarsi nelle abitudini elettorali e nella logica di intervento sui fatti della politica, di gran parte degli italiani.

In questa situazione si rileva un ulteriore elemento di di estrema difficoltà per il sistema, rappresentato dalle modifiche al titolo II della Carta Costituzionale, recentemente approvate dal Senato.

Queste modifiche costituzionali saranno sottoposte, presumibilmente nel corso del prossimo mese di Giugno 2006 a referendum popolare: se dovessero uscirne confermate si metteranno in discussione delicatissimi equilibri , sul piano del vero e proprio “riconoscimento democratico” tra Presidenza della Repubblica, Presidente del Consiglio, rami del Parlamento, Regioni, Sistema delle Autonomie.

Il punto di fondo del contrasto su cui si svilupperà l'itinerario di una possibile scomposizione/ricomposizione del sistema politico italiano sarà, però, rappresentato dall'eccesso di potere accumulato dal ceto politico, annidato nei partiti, al riguardo della società civile.

Il ceto politico, espressione di partiti ormai privi di radicamento sociale, fondati sui meccanismi della personalizzazione individualistica e del “partito azienda” (a destra, come a sinistra), ma dotati di uno sproporzionato potere di nomina, incautamente esaltato dal meccanismo delle “liste bloccate”, adottato per le elezioni legislative.

L'eccesso di potere a disposizione del ceto politico, espressione di partiti provvisori ed autoreferenziali aprirà, inevitabilmente, un conflitto molto forte (di cui la vicenda delle “primarie” del centrosinistra, ha rappresentato, non troppo paradossalmente, il primo atto) con la società civile, le sue organizzazioni e l'articolato e complesso intreccio tra la “società dello spettacolo” e “l'industria della comunicazione globalizzata”, all'interno della quale emergono già segnali di una tendenza alla delegittimazione dell'attuale sistema dei partiti.

Inoltre l'oggettiva instabilità del sistema si misurerà, anche, su di un “cleavage” parzialmente inedito, che però sta assumendo progressivamente una capitale importanza: quello collegato alla “questione europea”.

I temi dell'allargamento dell'Unione Europea e del meccanismo di approvazione del trattato di Costituzione (con particolare riferimento agli esiti del referendum francese e olandese, ed i risultati delle elezioni tedesche) rappresenteranno un ulteriore fattore di ricollocazione per i soggetti politici italiani sul classico spettro “destra/sinistra”, con un doppio “centro” (collocato,cioè, sia sul versante moderato, sia sul versante riformista, attraverso la formazione di due nuovi soggetti: uno dei quali, sul versante riformista, del resto già in formazione sotto l'insegna del Partito Democratico).

Un doppio centro, sostanzialmente europeista nella tradizione accezione della continuità Monet- Spinelli, con il conseguente posizionamento sul versante di destra e di sinistra, delle forze più o meno contrarie alla dinamica in atto circa il processo di unificazione europea (sia nell'ottica dell'Europa sociale, sia nell'accezione contraria del conservatorismo etnico e dell'”anti- euro”).

Il ritorno della “questione morale”

Un ulteriore elemento di difficoltà, sul piano delle dinamiche interne, sarà rappresentato dal ritorno sulla scena, in tutta evidenza, della “Questione morale”.

Si sta discettando molto sulle possibili analogie tra lo stato di cose in atto (il riferimento, come è ovvio, è rivolto alla cosiddetta “Bancopoli”) e la questione morale degli anni'90 del secolo scorso (la famosa “Tangentopoli”): esistono, però, elementi di diversità che rendono la situazione attuale affatto diversa da quella di allora.

Salvo l'analogia con il potere sostitutivo esercitato, ancora una volta, dalla Magistratura e dalla Stampa, nei riguardi della politica.

Torniamo, allora, alle caratteristiche di quella stagione tumultuosa, allorché, all'indomani della caduta del muro di Berlino, DC e PSI furono travolti dalle inchieste giudiziarie.

Al centro di quella storia, che aprì l'infinita “transizione italiana” oggi ben lungi dal concludersi, stava il tema del “costo della politica” (poi, ovviamente, negli interstizi emersero storie molto poco edificanti di arricchimenti personali e di stili di vita discutibili, mantenuti dai diversi leader rampanti di allora, in ispecie appartenenti al PSI).

Insomma: i partiti contrattavano tangenti dal sistema economico, pubblico e privato, per mantenere i loro apparati, far fronte alla crescita dei costi per l'utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa (l'ingresso sulla scena della TV commerciale aveva fatto lievitare i prezzi), rendere massimamente visibile la loro pervasiva presenza nella vita sociale, culturale, politica del Paese.

Questo fenomeno si intrecciò con le traversie incontrate dall'economia pubblica, tra nazionalizzazioni, formazione di carrozzoni di diversa natura (GEPI, EGAM, ecc), salvataggi di imprese decotte e successive, finte, privatizzazioni: un fiume di denaro perennemente in piena, i cui rivoli erano dirottati dove serviva, in un crescendo di iniziative le più diverse, il cui risultato finale può ben essere considerato quello della sparizione dal tessuto produttivo del Paese, di interi settori industriali decisivi, dalla chimica, all'agroalimentare, tanto per fare alcuni esempi.

Oggi la situazione, rispetto ad allora, è cambiata e la “questione morale 2005” si presenta con caratteristiche ben diverse: non a caso, al centro della scena, ci sono pezzi di sistema bancario (o presunto tale) ed emerge un ruolo della Banca d'Italia, del tutto inquietante (l'esito di questa storia, tra l'altro, sarà quello di una ulteriore perdita di autonomia del nostro Istituto Bancario Centrale al riguardo del sistema politico. In sostanza, i partiti strapperanno, anche in quella direzione, ulteriori pezzi di “potere di nomina”).

Non siamo più, dunque, alla contrattazione di tangenti tra sistema politico e sistema economico, ma ci troviamo ad una rappresentazione diretta del sistema economico nella politica: insomma, la politica viene “usata” direttamente, senza intermediazioni,per “fare affari”.

Questo è il punto che, apparentemente, a sinistra si è fin qui fatto fatica a comprendere o, forse, si è fatto finta di non comprendere,puntando, invece, nel pieno esercizio di una impressionante sudditanza culturale, ad accreditarsi presso i cosiddetti “salotti buoni”, come nel caso del “farsi avanti”degli “storici” soggetti economici collegati alla sinistra in determinate sedi, il cui esito vediamo oggi valutando la realtà del caso Unipol/BNL.

Forse chi ha dichiarato, recentemente, che economia produttiva ed economia finanziaria, al giorno d'oggi, si equivalgono nel giudizio di valore, non ha avuto ben presente la gravità ed il peso delle parole che stava pronunciando.

Inoltre è stata sottovalutata (volendo usare una terminologia, perlomeno, benevola) l'importanza del peso della esasperazione della personalizzazione della politica sotto questo aspetto, che ha portato molti ad assumere , in proprio, un ruolo nel concerto economia/politica (nel centrodestra questo fenomeno appare, alla prova dei fatti, diffusissimo).

In conclusione senza una vera e propria “rivoluzione culturale” la sinistra italiana finirà con l'essere invischiata in questa torbida vicenda di ambiguità e di commistioni: come al solito il dato più grave non riguarda le modalità di circolazione del danaro, ma il fatto che, attraverso queste modalità di circolazione, si rilevi una totale subalternità nei progetti per il Paese (un fenomeno, del resto che è già avvenuto e continua, in forme molto evidenti, anche a livello locale).

La prospettiva per il 2006

Abbiamo così anticipato quelli che potrebbero essere ritenuti i temi essenziali per il 2006.

Dopo le elezioni sarà, infatti necessario, per i detentori del potere, ricostruire un asse di riferimento centrale per il sistema politico italiano.

Paradossalmente, con l'adozione del nuovo sistema elettorale, si potrebbe assistere all'avvio di quel processo di semplificazione del sistema che non si è verificato nel periodo del maggioritario.

Se vorranno determinare un possibile meccanismo di alternanza le forze politiche intenzionate a sostenere un ruolo “centrale” di governo, dovranno attrezzarsi per assumere dimensioni tali da consentir loro di “traguardare” almeno il 30% dei voti (in questo senso si indirizza, come abbiamo già avuto modo di accennare, il processo di riaggregazione in corso tra DS e Margherita, innestato dall'ala “prodiana”: un processo sul prosieguo del quale peserà, comunque, in una dimensione del tutto decisiva l'esito elettorale).

In sostanza per poter pensare di far funzionare positivamente il meccanismo della politica italiana, i partito dovranno cercare di ritornare, più o meno, a quel “bipartitismo imperfetto” su cui si era soffermato Giorgio Galli tra gli anni '60 – '70 del 900 (ovviamente oltrepassando l'allora vigente “conventio ad excludendum”).

I due “centri”, alla fine, potranno anche realizzare fasi di “Grossekoalition”, o appoggiarsi, alle forze di moderato”antieuropeismo” che si collocheranno,a destra come a sinistra, in funzione di supporto e tenendo fuori dall'area di governo, gli eventuali soggetti di opposizione “anti – sistema”, pur potenzialmente presenti nell'arena parlamentare.

Tutto questo discorso cosa potrebbe significare per una sinistra che intenda mantenere,ostinatamente, una prospettiva di radicale alternativa al riguardo del sistema, sia pure in una dimensione, almeno all'avvio, fortemente minoritaria?

Quella sinistra che abbiamo già voluto definire, in altre occasioni, come “Sinistra non governativa”?

Appare evidente come, dal nostro punto di vista, sia necessario attrezzarci per affrontare adeguatamente, sul piano dell'analisi e della proposta, la fase che abbiamo appena definito di “scomposizione/ricomposizione”del sistema.

Si presenta, a questo punto, all'interno del “caso italiano”, il nodo dell'attuale collocazione di Rifondazione Comunista all'interno dell'alleanza dell'Unione: a prescindere dall'inedita vocazione governativa, Rifondazione Comunista appare, ormai, al di là delle proclamazioni verbali, aver ormai acquisito un fondamento di identità, maturato all'interno di una logica di ceto politico che ha inteso superare l'idea di una trasformazione della società, sia pure in senso classicamente socialdemocratico, accomodandosi in una dimensione di ala “radical” nei riguardi del costituendo Partito Democratico.

Una possibile sinistra di alternativa deve, quindi, essere ricostruita sulla base di 5 punti di effettiva discriminante, insieme ideologica e programmatica:

  1. Pace e contrapposizione netta verso la superpotenza;
  2. Europa sociale e politica dell'immigrazione;
  3. Programmazione pubblica dell'economia e gestione pubblica dei nodi decisivi dell'energia e delle infrastrutture;
  4. Welfare – State universalistico;
  5. Recupero di una soggettività politica orientata verso l'integrazione di massa e supremazia del concetto di “rappresentanza” su quello di “governabilità”.

Un primo abbozzo di analisi economica

Proviamo , allora, ad entrare nel merito di alcuni, primi e parzialissimi, aspetti di analisi economica, partendo da alcuni punti fermi:

  1. una ripresa dell'economia americana si è effettivamente avviata, ma elementi congiunturali e strutturali (il doppio deficit commerciale e di bilancio) spingono a dubitare che essai sia duratura e impetuosa e , soprattutto, che offra un modello generalizzabile e torni a funzionare come una locomotiva cui l'Europa, possa agganciarsi per superare una ormai prolungata fase di stagnazione;
  2. l'Italia si trova, in questo quadro, in una situazione di particolare difficoltà (il peso del debito pubblico, il declino della grande industria e soprattutto dei settori di punta, l'arretratezza delle infrastrutture).

In questa situazione la scelta preliminare,per ogni nuova politica economica, è quella della redistribuzione del reddito, e di un aumento della spesa pubblica, dopo anni di riduzione del salario, di ritiro delle tutele sociali, di smantellamento del potere contrattuale.

Appare ormai una necessità, non solo per senso di equità sociale, ma per rilanciare una domanda interna, senza della quale nuovi investimenti e ripresa produttiva rappresenterebbero mere velleità.

Ovviamente ciò comporta la pressione costante e generale di una lotta dal basso e di una azione contrattuale efficace per le quali, in questo momento, non ci sono condizioni e riconoscibili volontà da parte degli apparati dirigenti della sinistra e del sindacato.

Si pone subito un interrogativo: da un mondo del lavoro molto parcellizzato e spesso precario, sotto il ricatto del mercato finanziario e delle istituzioni comunitarie, è possibile creare alcuni spazi e supporti necessari per una efficace opposizione alle politiche liberiste, che comunque il governo di centrosinistra adotterà, per necessità e per profonda convinzione politica?

Ad esempio, sarà possibile portare avanti una lotta per la rinegoziazione del Patto di stabilità, per una nuova politica fiscale, per l'abolizione della legge che incentiva, oltre la flessibilità, la precarietà (cosa che il governo di centrosinistra non riuscirà a fare), per una richiesta di diversa rappresentanza sindacale legata alla base?

La proposta di redistribuzione del reddito, così come la richiesta di espansione della spesa pubblica, dovendo di necessità graduare gli obiettivi e scegliere le priorità, dovranno dotarsi di riferimenti sociali ben visibili.

Occorre, quindi, uscire dal vago e su alcuni di questi punti fare, preliminarmente, chiarezza, assumendo impegni di lotta, comuni a quanti intendano contribuire a costruire, davvero, una “sinistra non governativa”.

Si sbaglierebbe eludendo questa necessità, disinteressandosi dal mettere in campo, subito, richieste credibili.

Rimane, ancora, in piedi un interrogativo: seppur necessaria una richiesta di redistribuzione del reddito, di aumento della spesa pubblica in consumi sociali e infrastrutture, potrà risultare sufficiente per assicurare una nuova fase di consistente sviluppo?

Una simile banalizzazione teorica deve essere rifiutata.

I fallimenti ed i prezzi sociali del neoliberismo sono ormai sotto gli occhi di tutti, ma una proposta alternativa di regolazione dell'economia che incorpori una qualità diversa dei suoi obiettivi e un modo, semplicemente meno oppressivo, di renderlo efficiente non pare proprio esistere sul mercato dell'offerta politica corrente.

La sinistra moderata e quella “radical” neo- governativa, in Italia e non solo, pensa che, in sostanza, il problema non esista.

E resta, per lo più, interna al pensiero neoliberista; al tema del risanamento finanziario dominante negli anni'90, oggi viene sostituita una idea – forza risolutiva: più spesa nella ricerca, più formazione professionale, più limpidezza nei rapporti concorrenziali tra le imprese, più innovazione tecnologica.

In ciascuna di queste proposte c'è del vero, ma alla prova dei fatti queste proposte si rivelano altrettanto inconsistenti della consueta politica di emergenza, basata sui classici “due tempi”,

Sono sul tappeto, invece, problemi di tipo nuovo che riguardano le strategie di lungo periodo, nel merito dell'intervento pubblico, della priorità della ricerca, nella determinazione delle priorità dei bisogni cui civilmente dare risposta, nel calcolo di lungo periodo delle convenienze, nel tipo di lavoro e di generale capacità umane da formare.

Le nuove frontiere tecnologiche, gli strumenti di comunicazione, la domanda diffusa di democrazia come partecipazione diffusa e costante, rappresentano fattori che offrono possibilità per riproporre il concetto di pianificazione, senza necessità di cancellazione sommaria del mercato e senza centralizzazione burocratica della proprietà statale.

Si possono già ravvedere premesse mature in questa direzione, ad esempio nel campo dell'energia o del governo della genetica, del trasporto, della configurazione urbana e, soprattutto, della scuola (educazione permanente, ma oltre i confini dell'aggiornamento professionale), che potrebbero già mostrare la praticabilità, oltre il neoliberismo, di un nuovo modello di sviluppo economico.

In sostanza una possibile opposizione al neoliberismo temperato che il centrosinistra, verosimilmente, adotterà quale sua complessiva strategie di di governo, dovrà misurarsi con una critica che consideri, proprio, il neoliberismo quale forma rozza delle teoria neoclassica, rifiutando altresì di riproporre semplicemente il recupero del keynesismo,quale sola frontiera possibile in grado di riaprire una idea della transizione.

Piena occupazione, scuola, ricerca, Università

Il tema di una “opposizione per l'alternativa”, da costruire in Italia a cavallo tra il breve ed il medio periodo, deve essere, necessariamente, declinato, prima di tutto, sull'idea di una compiuta democrazia economica.

Il problema centrale della compiuta democrazia economica rimane, comunque, quello della piena occupazione.

Le rovinose riforme del mercato del lavoro vanno abolite, anche perché il lavoro precario costa di meno, ma anche rende di meno.

In questa stessa prospettiva va posto il problema della formazione e della ricerca, anche ai fini di una maggiore efficienza economica: la soluzione va cercata nella scuola pubblica e nell'Università.

Oggi si vorrebbe che la scuola e l'Università si trasformassero in una azienda al servizio delle imprese.

Invece la riduzione della scuola e dell'Università a strumento mercantile non sarebbe affatto nell'interesse dell'economia del sistema – paese: senza parlare della questione, davvero importante, della libertà della cultura e della scienza.

Nelle prospettive attuali della scienza e della tecnologia, e nelle condizioni attuali di lavoro (per brevità: in un mondo post – fordista) la cultura e le conoscenze tecniche richieste non sono affatto di tipo specialistico.

Occorrono, invece,solide basi culturali e l'unica cultura solida è una cultura critica: e occorre che gli studenti, nella scuola e nell'Università, imparino a studiare e a imparare, non a fare.

A fare, impareranno poi, facendo, nel mondo del lavoro.

Contro gli apologeti della formazione, basta un argomento: se davvero dovremo prepararci a cambiare mestiere cinque o sei volte nella vita, per tornare che si torni alla logica delle corvèe, occorrerà una scuola che non insegni mestieri, ma una scuola che insegni a studiare e ad imparare.

La sede naturale della ricerca scientifica e tecnologica di base, d'altra parte, è l'Università.

Fuori dall'Università, la ricerca, salvo rare eccezioni, è mero calcolo di convenienza e adattamento aziendale delle tecniche di riproduzione disponibili.

Piena occupazione, redistribuzione del reddito, politica fiscale

Va ricordato anche che l'assunzione di una prospettiva di piena occupazione sarebbe più favorevole alla pace di quanto non potrebbe essere un sistema teso alla conquista dei mercati altrui; il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è ora, ossia un espediente disperato per preservare l'occupazione interna forzando le vendite sui mercati esteri e limitando gli acquisti – metodo che, come vediamo nelle delocalizzazioni selvagge, si limita a spostare il problema della disoccupazione sul vicino che ha peggio nella lotta – ma sarebbe uno scambio volontario e senza impedimenti di merci e servizi, in condizioni di reciproco vantaggio.

Circa la redistribuzione del reddito,per via fiscale, è in primo luogo necessaria una lotta decisa all'evasione e all'elusione.

Inoltre, deve esser smentito il luogo comune secondo il quale le imposte di successione provocherebbero una riduzione della ricchezza del Paese.

Oltre che garantire il principio (liberale) dell'eguaglianza dei punti di partenza, alte imposte di successione favorirebbero l'accumulazione di capitale, anziché frenarla.

Occorrerà, soprattutto, fare una scelta tra le grandi classi di reddito: salari, profitti, rendita.

Spero si comprenderà l'importanza di questo punto, che risulterà del tutto determinante per distinguere la sinistra moderata e quella radical “neogovernativa”, dalla sinistra “critica” e “non governativa”.

Ci troviamo, infatti, nel cuore della questione del rapporto tra economia produttiva ed economia finanziaria, al riguardo del quale la proclamazione di indifferenza avanzata dalla parte più autorevole della dirigenza della sinistra moderata, rappresenta il punto teorico d'appoggio della crisi bancaria italiana e della conseguente ripresa della “questione morale”, su cui ci siamo già soffermati.

L'istigazione keynesiana alla eutanasia del rentier non ha presupposti moralistici, ma strettamente economici.

La rendita taglieggia l'accumulazione di un capitale produttivo, contrasta l'eventuale crescita dell'occupazione, si appropria dei guadagni di produttività e distorce i modelli di consumo.

Profitto e rendita sono intrecciati, tuttavia il profitto può sopravvivere senza rendita, mentre non è vero il contrario.

Questo è, in un certo senso, un problema politico interno al capitale ma, come dimostrano i fatti di questi giorni cui si è già accennato, è anche un grande problema politico della sinistra.

Settore pubblico e settore privato

La terza e ultima questione da affrontare, al riguardo di un avvio di analisi economica, riguarda la struttura dell'offerta: nella sostanza il tema dei rapporti tra settore pubblico e settore privato.

Per il settore privato il problema centrale è la competitività sui mercati internazionali, e premessa alla competitività è una politica industriale reale.

Si tratta dell'esatto contrario delle politiche di svalutazione competitiva, ora impossibili, ma di cui l'industria italiana ha vissuto per troppi anni: politiche che hanno confinato l'economia italiana nelle posizioni del produttore al quale ci si rivolge quando c'è un picco di domanda internazionale temporaneamente insoddisfatto, ma che è incapace di vendere le proprie condizioni.

L'aumento della competitività, in una prospettiva di lungo periodo, non passa per una riduzione del costo del lavoro.

Sarebbe impossibile ridurre i costi del lavoro italiani al livello dei paesi meno sviluppati, né sarebbe accettabile ridurre a quel livello i salari per via indiretta, operando attraverso una riduzione dei servizi sociali, della stabilità del posto di lavoro, della previdenza, delle spese per l'istruzione e per la cura delle persone.

I bassi salari non sono mai una risposta alla disoccupazione: è la disoccupazione che costringe i salariati ad accettare lavori precari e poco remunerati.

In generale gli imprenditori che pagano poco la forza lavoro dirigono imprese inefficienti o marginali, e cercando di compensare in questo modo la loro inefficienza (su questo punto, tra l'altro, poggia anche una politica dell'immigrazione, di cui si dovrà discutere a fondo).

Non c'è industria senza un piano.

Sfortunatamente la sinistra italiana è divisa anche su questo punto: una parte di essa non crede nell'industria, ma nell'alta finanza. L'altra non crede nel piano.

La pianificazione può e deve avere un ruolo importante nella riscoperta e nella riproposta dell'impresa pubblica.

Nel nostro Paese l'impresa pubblica ha una grande storia, e l'uso corrotto che pure ne è stato fatto in passato non diminuisce l'importanza che essa potrebbe avere in futuro.

Imprenditore pubblico non è un ossimoro, mentre c'è da chiedersi che razza di imprenditori siano quelli che, grazie alle privatizzazioni, si trovano ora nella remunerativa e tranquilla nicchia del gestore privato di servizi pubblici.

L'impresa pubblica può permettersi strategie industriali che l'impresa privata, soprattutto la media e la piccola, non può permettersi.

In particolare può darsi orizzonti temporali lunghi e,dunque, può costituire, per l'industria privata un fattore di indirizzo, sostegno, stimolo concorrenziale.

In questo sta un punto di divisione netta con la sinistra moderata e radical “neogovernativa”, nella definizione della quale chiudiamo questo abbozzo di analisi economica: noi siamo per la supremazia dello Stato sociale, rispetto allo Stato minimo.

Una primissima conclusione politica

In definitiva si tratta di riaprire, partendo dall'opposizione e da una forte accentuazione del rapporto con i soggetti dell'aggregazione sociale, primi fra tutti i sindacati (confederali e di base) una prospettiva di transizione al socialismo, alla quale possono concorrere assieme socialdemocratici di sinistra, comunisti più o meno “eretici”, soggetti di movimento.

Esiste già, a livello europeo, un riferimento importante rivolto proprio nella direzione che è stata appena indicata: quello della “Linke” tedesca, chiaro esempio concreto di una “sinistra non governativa”.

In definitiva le elezioni italiane del 2006 si svolgeranno sula base di scelte misurate su categorie e fratture in via di esaurimento.

Le novità ci aspettano per il dopo – elezioni, avviando fin da adesso una profonda riflessione e proponendoci di assumerci la responsabilità di riaprire uno spazio politico di radicale alternativa allo stato di cose presenti.

Franco Astengo
Savona, 26 dicembre 2005