Elezioni politiche 2006

Fausto Bertinotti: «C’è chi a paura di una vera svolta riformatrice»

Intervista al segretario del Prc: «Lo scontro è prima di tutto con la destra. Ma è anche dentro l’Unione: tra la prospettiva di “grande coalizione” e l’alternativa». «C’è voluta una strage, in Libia, per rendersi conto che era stato superato il limite della decenza. Gravi le responsabilità di questo governo»

Fausto Bertinotti

Fausto Bertinotti

Giornate difficili, nel mondo, in Italia, nella politica - in Rifondazione comunista. «Un rumore disordinato», dice Bertinotti, rischia di sovrastare ogni altra voce, ogni serio confronto tra schieramenti e tra partiti. «Mi domando spesso, proprio in questi giorni, che cosa arriva, di tutto questo, in una casa del Tiburtino, tra le gente che prende il tram o la metropolitana - qual è, insomma, l’informazione che riceve davvero il lavoratore pendolare che ogni mattina si deve mettere in moto per andare a raggiungere un posto di lavoro lontano, magari, quaranta o settanta chilometri». Sì, è possibile che molti, oggi, prendano “lucciole per lanterne”, scambino episodi secondari con la scena principale, non vedano le gerarchie vere: ecco una delle preoccupazioni generali del segretario di Rifondazione comunista, pur abituato da sempre ad affrontare situazioni conflittuali. Oggi, dice, più che mai si tratta di ricostruire, appunto, le “gerarchie vere”, bucando la superficialità estrema, spesso strumentale, del sistema delle comunicazioni di massa. Bisogna fare un grande sforzo per rimettere al centro della campagna elettorale i temi concreti della vita, i salari, le pensioni, la salute. E’ un’indicazione politica anche per noi, per Rc, e le cose da fare e da dire da qui al 9 aprile? «Sì, per noi è essenziale una campagna elettorale di profondità, se posso usare questa espressione: andare nei territori, incontrare la gente, attivare un rapporto diretto, rompere la nebbia rumorosa dei media. Abbiamo tre obiettivi, su tutti: il primo, da non obliare mai, è il nostro contributo alla sconfitta del centrodestra e di Berlusconi. Il secondo, la necessità di far emergere il carattere riformatore e di sinistra del programma dell’Unione. Il terzo, la capacità di far valere la nuova identità di Rifondazione comunista e del nostro progetto di costruzione del Partito della Sinistra Europea. Queste tre cose stanno insieme, non possono prescindere l’una dall’altra». Proprio queste affermazioni ci consentono di affrontare, in questa intervista, le questioni calde e anche drammatiche che ci stanno di fronte.

Partiamo da colui che, si spera, è ormai un ex-ministro della Repubblica, Roberto Calderoli, quello che indossa e ostenta la maglietta blasfema anti-islamica. Un episodio gravissimo, e denso di implicazioni. Il governo, mi pare, non se la può cavare cacciandolo via, ovvero chiudendo la stalla dopo che i buoi sono scappati…

No, non se la può cavare a così buon mercato. Sotto accusa, certo, c’è un politico “estremista”, ma c’è anche e soprattutto un’intera strategia. Non il solo Calderoli, ma il centrodestra come tale ha fatto sua una scelta politica di rifiuto del dialogo, di supporto o alleanza a tutto ciò che contraddice una linea di confronto, di dialogo, di accoglienza. Come dimenticare che la Lega è una componente centrale della “Casa delle libertà” non solo dal punto di vista quantitativo, ma qualitativo? Come non ricordare che la chiave di volta del successo del centrodestra - e della sua condotta di questi anni - è stato proprio quell’incrocio tra ideologia neoliberista e populismo xenofobo (e razzista), un mix senza il quale i neoliberali erano destinati a rimanere minoranza? La crociata anti-islamica, insomma, è solo l’approdo estremo di una cultura che ha nelle sue corde interiori l’intolleranza, la repressione selvaggia, l’odio per tutto ciò che è diverso - che è scritta anche nelle posizioni sulla droga, contro gli immigrati, contro l’omosessualità. Da questo punto di vista, ci volevano la Lega e Calderoli a ricordarci di che pasta è questo centrodestra. E che sconfiggerlo è una priorità della politica e della civiltà.

Ma, appunto, forse siamo a un caso estremo. Neanche la destra ci sta. Vuol dire che sta scattando anche in loro un nuovo senso di responsabilità?

No, nient’affatto, il centrodestra o è complice o ha sottovalutato - e peggio mi sento, se è vera questa seconda cosa. C’è voluta una strage, in Libia, per rendersi conto che era stato superato il limite della decenza. Si è dovuti arrivare, per intervenire, a una situazione in cui l’immagine “ufficiale” del paese, nel mondo islamico, è quella di un ministro che insulta la sensibilità religiosa di milioni di persone e straparla di Occidente. L’immagine - non credo proprio che si debba minimizzare - di una politica in cui si pratica così il rapporto con una delle religioni più importanti e diffuse del mondo: il frutto avvelenato, cioè, di una propensione esplicita allo scontro delle civiltà. Alla guerra di civiltà. La strage di Bengasi, in questo senso, arriva ad “illuminare”, sinistramente, il disordine di cui parlavamo: mentre noi, qui, da giorni e giorni, siamo impegnati a scontrarci sugli aspetti secondari della campagna elettorale - questo o quel candidato, per esempio -, mentre dominano il conflitto gridato, gli insulti, le provocazioni, ci si rende conto, improvvisamente, che il comportamento concreto di un ministro provoca un massacro di persone, e nuove tensioni internazionali. Una catastrofe. Il rischio che lo scontro delle civiltà diventi non l’elemento centrale, ma quello tragicamente sovraordinatore della politica, di tutta la politica. Ecco, oltre la contingenza specifica, il caso Calderoli ci insegna proprio questo: la “legge” della complessità, valorizzata dagli ambientalisti, per cui “il battito di una farfalla in Brasile può provocare un uragano in Cina”, non vale solo per l’ambiente o le tempeste o le catastrofi naturali, vale anche per la politica. Per la cultura politica. Per le parole che si dicono, o gli atti simbolici che si compiono.

Se è così, se la situazione è così complessa, nel senso letterale del termine, quali conseguenze ne derivano, per noi? Quali sono, per dirla invece con un linguaggio classico, i “nostri compiti” in questa campagna elettorale?

Noi dobbiamo, prima di ogni altra cosa, “chiarificare” il clima, riportare la discussione - e gli interessi - alla sostanza, investire tutte le nostre energie in una Politica alta, dove si torni a ragionare dei destini delle persone, delle lotte, dei bisogni sociali. Sapendo, però, che il nostro Partito, Rifondazione comunista, è al centro dell’offensiva. E’ sotto attacco.

Chi e perché porta avanti questa offensiva?

Gli “attaccanti” sono molti. C’è il fuoco di fila delle destre, naturalmente, ma questo non ci impressiona più di tanto. Giacché l’attacco più insidioso, e intenso, ha il suo nucleo nelle ali moderate della stessa coalizione di centrosinistra. Lo prova la sequenza - abbastanza incredibile - di queste settimane: le Olimpiadi, la Tav, i movimenti, le manifestazioni nei territori, infine la campagna sui candidati “impresentabili” (che, contro una persona come Vladimir Luxuria, ha assunto accenti di vero e proprio linciaggio, di segno omofobo e intollerante). Perché lo fanno? Non ci può sbagliare. Per il timore che, insieme alla vittoria elettorale dell’Unione, ci possa essere una vera svolta riformatrice. Hanno paura, per dirla con una battuta, che il nostro slogan più importante (“Vuoi vedere che l’Italia cambia davvero”) possa concretamente avverarsi. Qui ci sono, allo stesso tempo, una sorpresa, e una sfida. Quel che si paventa è che, dopo il 9 aprile, si avvii una nuova stagione: non solo la sconfitta di Berlusconi e l’uscita dal ciclo economico e politico degli ultimi cinque anni, ma la volontà di invertire la strada degli ultimi venti.

«Noi non rinunciamo, in nulla, al nostro progetto politico, e all’autonomia: chi lancia questa accusa dimostra, una volta di più, di non capire qual è davvero la posta in gioco»

Questa offensiva, mi pare, precipita su due dimensioni: la questione del programma, per un verso, il rapporto con i movimenti, per l’altro verso. C’è un nesso, magari organico?

Certo che sì. Il programma approvato dall’Unione porta inequivocabilmente un segno riformatore: ecco ciò che preoccupa i moderati. Ma anche ciò che una parte della sinistra, e del nostro stesso partito, non vede. Lo voglio dire con franchezza: quest’ultimo atteggiamento, sia mosso da calcoli di bottega, da primitivismo politico, dal bisogno spasmodico di confermare comunque il proprio spazio, da scetticismo pregiudiziale, è un peccato mortale. Non si può sciupare così un risultato politico come quello che abbiamo ottenuto con un lavoro lungo, faticoso, paziente. Non si può non sapere che l’incapacità (o la non volontà) di mettere in valore un successo rischia di pregiudicare gli esiti dello scontro stesso. E’ tanto vero che, proprio in questi giorni, il nucleo forte di quel programma - sulla politica economica, sociale e fiscale - è stato quasi completamente oscurato dalla discussione sulla Tav. E’ tanto vero che gli altri lo hanno capito, fino in fondo. Un autorevole esponente del centrosinistra, del resto, nella fase conclusiva della discussione tra i segretari dei partiti dell’Unione, si è lamentato del fatto che questo programma “è troppo sbilanciato a sinistra” e che così si accredita la possibilità che la coalizione possa andare oltre l’alternanza, sulla strada dell’alternativa.

In secondo luogo, mentre si faceva interna all’alleanza, Rifondazione comunista non dismetteva, nient’affatto, il suo rapporto con i movimenti: che resta un dato essenziale della nostra linea, della nostra strategia e della nostra stessa idea della politica, e non dipende, non può dipendere, dalla collocazione “geopolitica” del partito. Qui abbiamo rotto una tradizione: che vuole che un partito sia “movimentista” quando è all’opposizione, e “codista” quando è al governo, o si propone di conquistarlo. Noi, anche qui, abbiamo scelto una strada innovativa. Qual è, allora, la paura? Che, se l’Unione si sposta a sinistra, e se il Prc tiene ben solido il suo legame con il conflitto sociale, il risultato può essere un nuovo peso dei movimenti stessi nella politica - forse, in prospettiva, il mutamento di rapporto tra governo e movimenti. Da qui la turbativa sul programma: con il fine dichiarato di depistare le speranze e le attese. Da qui, anche, il tentativo di recidere ogni possibile nesso tra movimenti e sfera politico-istituzionale, ricacciando i primi in recinti “pericolosi” o “localistici” o comunque opposti all’interesse generale. Un tentativo, credo, destinato a non riuscire: i movimenti non si lasciano ridurre all’immagine spoliticizzata che ne viene rappresentata, sono maturi, sono capaci di afferrare i ponti - o le “cerniere”, come il Prc - che oggi ci sono tra loro e la politica.

Dunque, la campagna contro di noi è “pur cause”, non è né casuale né improvvisata?

Non dico, naturalmente, che qualcuno abbia messo in atto un complotto - me ne guardo bene. Dico invece che le ragioni per cui ci attaccano sono di fondo, sono strategiche. Lo scontro è duro, non contingente: si cerca di accreditare l’idea che Rifondazione è una forza “inaffidabile”, sia per i contenuti che propone sia perché non vuole, e non può, fare il controllore dei conflitti sociali. Uno dei nostri problemi, perciò, è battere questa immagine di inaffidabilità.

Ciò non comporta l’antico pericolo di moderare, o autocensurare, le nostre aspirazioni, o la nostra stessa autonomia, come vanno dicendo alcuni compagni?

Ma è proprio l’opposto! Noi non rinunciamo, in nulla, al nostro progetto politico, e all’autonomia di questo stesso progetto: chi lancia questa accusa dimostra, una volta di più, di non capire qual è davvero la posta in gioco. La “teoria dell’inaffidabilità” va battuta non in nome della fedeltà al governo, o con una tradizionale pratica di appiattimento su di esso, ma nel nome della svolta riformatrice da compiere, intanto portando avanti e realizzando il programma che l’Unione si è dato. Questa è la sfida - difficile, lo so. Ma non è un’altra - a meno, s’intende, di abbandonare il terreno della politica e tornare, ciascuno di noi, alle sue occupazioni preferite. Ciò spiega anche la severità e il rigore delle scelte che abbiamo compiuto in questi giorni: l’esclusione dalle nostre liste di un compagno stimabile come Marco Ferrando - che, lo ribadisco in questa sede, non sarà mai per noi un nemico - non è avvenuta a cuor leggero. Si è arrivati a questa decisione perché, in una battaglia di questa importanza e complessità, quella candidatura era diventata incompatibile proprio con la sfida di cui dicevamo, e ci costringeva a passare dal terreno offensivo a una defatigante, diuturna spiegazione delle “diversità” politiche e strategiche presenti in Rifondazione comunista. E perché, s’intende, se si entra nel merito queste diversità sono davvero rilevanti.

Medio Oriente, Iraq, nonviolenza. I sostenitori di posizioni come quella di Ferrando - negazione del diritto all’esistenza dello stato di Israele, sostegno acritico alla resistenza irakena, rivendicazione del ruolo necessario e salvifico della violenza - ritengono, ad ogni buon conto, di essere “più a sinistra” e più radicali, delle posizioni sostenute dalla maggioranza del Prc. Io, come molti altri, contesto proprio questa pretesa: come Lidia Menapace, non solo non vedo nulla di sinistra in attentati che massacrano gente in cerca di lavoro e bambini, ma dico che con queste pratiche una strategia rivoluzionaria non ha nulla a che fare - non c’entra nulla. Tu che ne pensi?

Sono sostanzialmente d’accordo con te: in alcune posizioni così dette “estremiste”, non c’è nulla di rivoluzionario nel senso che spetta ad una parola altissima come rivoluzione, che non può non essere anche e soprattutto liberazione. Liberazione dalla fame, dall’oppressione, dall’ingiustizia, dalla violenza. Liberazione attraverso la costruzione, l’autocostruzione di sé, di un mondo diverso e di relazioni diverse tra le persone. Nelle posizioni che si autonominano “di sinistra” - come quelle che sul Medio Oriente in un modo o nell’altro negano la linea dei “Due Stati, due popoli” e disconoscono lo stato di Israele - prevale invece l’elemento militare: la replica militaristica, prima che politica, all’ingiustizia. La risposta speculare all’avversario, di cui si assumono e sostanzialmente si condividono i valori di fondo - la stessa idea di potere. Talora, mi pare, prevale perfino un’idea vendicativa, di vendetta e di “risarcimento” delle ingiustizie subite nella storia. Io so bene quanto alcuni di questi elementi siano stati presenti nelle politiche rivoluzionarie e nelle forze che si sono proposte di cambiare il mondo. Ma è venuto ormai il tempo, non più rinviabile, di una radicale innovazione di cultura politica, proprio se e perché alla Rivoluzione, come possibilità massima della politica, non intendiamo comunque rinunciare. Se è vero che oggi su di noi pesa, come una tremenda spada di Damocle, il pericolo dello scontro delle civiltà, questa cultura va dunque sradicata, abbandonata in toto, con la determinazione e la convinzione necessarie. Noi dobbiamo sapere che la politica militarizzata non ci appartiene più. Dobbiamo valorizzare e politicizzare il conflitto sempre accompagnandolo all’idea di convivenza (Calderoli docet, proprio da questo punto di vista): è questo il significato vero di un’opzione nonviolenta. Non possiamo cioè abdicare mai dall’idea di liberazione, non possiamo più seguire la vecchia strada dei due tempi - prima “vincere”, poi, forse, costruire una nuova società, migliore della precedente. I grandi teorici del “Socialismo o barbarie” - come Rosa Luxemburg e Walter Benjamin - lo sapevano bene, fin da allora: il principio di barbarie è così forte che può in ogni istante avere la meglio, anche dentro di te, anche nei momenti più epici della tua lotta. Perciò l’alterità è oggi, al tempo stesso, la chiave che identifica il senso del tuo cammino, e l’ispirazione con cui puoi entrare nella contesa politica data.

A proposito di contesa, un giudizio sulla Bolkenstein e l’ultimo così detto compromesso.

E’ stata una bella battaglia, ma abbiamo perso. Hai sì rotto la clausola del “paese d’origine”, ma la filosofia che produceva questa possibilità è rimasta in piedi. Il dato più rilevante è però politico: l’affermazione dell’idea e della pratica di “Grande Coalizione”: che altro non è che la riproposizione del liberismo temperato degli anni Novanta. Non è certo casuale che questa prospettiva riscuota il consenso dei centristi dell’Unione - quelli che qui temono il programma perché troppo di sinistra e in Europa trovano invece questo concreto riferimento.

Da questo punto di vista, si può dire che la vicenda Bolkenstein sia davvero esemplare: de te fabula narratur, come si diceva. La “Grande Coalizione” si dimostra, sul campo, una politica sostanzialmente centrista e neoliberale, che divide la sinistra, i sindacati, i movimenti stessi - vedi il paradosso della manifestazione dei giorni scorsi, grandissima, straordinaria, con alla testa, però, la Ces, ovvero le forze favorevoli a questo cattivo compromesso. Appunto: anche da noi, come dicevamo all’inizio, il futuro si gioca su di un doppio crinale. Dobbiamo sconfiggere Berlusconi, e non dimenticare mai che questa è una priorità irrinunciabile. Ma dobbiamo anche battere quel che avanza dell’idea - non necessariamente della forma - di “Grande Coalizione”. Lo scontro politico vero si giocherà tra il “centrismo dei centristi” (più che dei socialdemocratici) e l’alternativa - la strada dell’avvio di un nuovo ciclo riformatore e dell’uscita da ogni condizionamento neoliberista.

Rina Gagliardi
Roma, 19 febbraio 2006
da "Liberazione"