Concussione - Due anni in primo grado.
La legge impone la sospensione, ma Forza Italia, An e Lega lo salvano:
ci aveva solo provato.

L’edificante storia di Fanchin, consigliere provinciale di Milano

La corte lo condanna il Polo lo assolve

Claudio FanchinVolere non è potere, soprattutto se ci si mette in mezzo la Finanza. E la Finanza può salvarti la carriera, anche quando ti arresta. Prendete la storia di Claudio Fanchin, che era consigliere provinciale a Milano quando lo beccarono che chiedeva una “commissione” a un imprenditore di Bellinzago. L’hanno filmato, l’hanno arrestato, l’hanno pure condannato. Ma prima di tutto hanno dovuto fermarlo. E la mazzetta è rimasta a mezz’aria. Tra chi la poteva dare e chi la voleva avere è spuntato un robusto finanziere: polizia tributaria, fermi tutti. Diciotto mesi dopo, da buon politico e da vecchio democristiano, Claudio Fanchin vuole ringraziare quell’agente che l’ha fermato in tempo. Salvandogli, almeno fino a oggi, il posto in consiglio provinciale.

È una storia edificante, come sempre sono edificanti i classici. Il canovaccio infinito della seconda repubblica, che, ogni volta, trova un nome e un luogo diverso per raccontare l’eterna saga del potere e dell’arroganza. Questa volta il politico di Forza Italia si muove come un pesce nell’acqua dell’hinterland milanese, ha fatto in tempo a crescere nel Biancofiore, ma è sbocciato al sole del Cavaliere. Claudio Fanchin è funzionario della Regione Lombardia, consigliere comunale a Limbiate, consigliere provinciale a Milano e consigliere di amministrazione del Parco Nord. Davanti a lui, come al solito, la giustizia.

Lo pedinarono per due mesi. Fu un’inchiesta veloce. Tutto precipitò tra gennaio e marzo del 2001. Grazie a tante microspie, e a una telecamera che lo riprese mentre in un ristorante veniva al dunque con l’imprenditore Mario Gargantini che, però, aveva avvertito i finanzieri. Si trattava di un terreno a Bellinzago. Era già stabilito: il luogo adatto per un grande centro commerciale. Che vuol dire sviluppo, lavoro, consenso, ma soprattutto soldi. Nove miliardi, prezzo imposto. E qui Fanchin presenta a Gargantini il signor Moretti, della Moretti srl, società di intermediazione. Bisognerà che sia lui a vendere il terreno, con un “mandato irrevocabile” e una commissione, tassativa, del quattro percento. Trecentosessanta milioni, ecco la cifra. Poi un’altra società, presidente sempre il signor Moretti, avrebbe costruito il centro commerciale. Altrimenti? Altrimenti, dicono i nastri della polizia tributaria, il consigliere avrebbe fatto «melma». Quei trecentosessanta milioni, invece, sarebbero serviti «per pagare un po’ di spese». Il 2 marzo lo presero, e presero anche il signor Moretti e la moglie. Arresti domiciliari. Per Fanchin un’accusa, anche questa, classica: concussione. Quella percentuale era una tangente. Perché, scrisse il gip rinviandolo a giudizio, nel caso l’imprenditore non avesse pagato «il terreno sarebbe stato comunque inutilizzabile, perché non sarebbe stato rilasciato il nulla osta».

Lo arrestarono subito. E il procuratore capo di Milano si rallegrò anche di questo, insieme al fatto che la denuncia del Gargantini «segnala che ci sono di nuovo segni di in tolleranza verso determinati atteggiamenti». «Ci stiamo organizzando - spiegò Gerardo D’Ambrosio - per abbreviare i tempi delle indagini. Questa l’abbiamo chiusa subito per evitare il concretizzarsi di un danno per l’imprenditore». Il 15 marzo 2001, infatti, due settimane dopo l’arresto, la licenza andava assegnata. Tecnicamente, però, la mazzetta non fu mai consegnata. Poi il processo, passato alla cronaca per uno sfogo del pm, Paolo lelo, Fanchin, disse il magistrato, si è sicuramente macchiato di un reato grave. Ma almeno si fa processare, si difende «nel» processo e non «dal» processo, come invece, nello stesso tribunale ma in un’altra stanza, tenta di fare l’onorevole Previti. Un po’ per gusto della provocazione, un po’ per convinzione, Ielo chiese le attenuanti generiche per quel politico alla sbarra. Il giudice fu ancora più clemente: la sentenza del maggio scorso condanna Fanchin a due anni di carcere, con la sospensione e la non menzione, per tentata concussione. A questo punto, il testo unico della pubblica amministrazione parla chiaro, il consigliere deve lasciare tutti i suoi incarichi pubblici.

Invece no. Il presidente, forzista, del consiglio provinciale (Roberto Caputo) non interviene. Gli avvocati del suo ufficio non trovano nulla di strano nel mantenere Fan chin al suo posto. La presidente, forzista, della giunta provinciale (Ombretta Colli) non dice nulla. E il prefetto di Milano Bruno Ferrante, con molta cautela, si rimette alle decisioni del consiglio. Ma con un seggio illegittimo in un’istituzione pubblica non si può scherzare troppo. Allora Caputo scrive di nuovo al prefetto, il prefetto al ministero dell’Interno, e viene fuori che sì, non c’è proprio nulla da fare, Fanchin deve essere sostituito, sostituito temporaneamente almeno fino alla sentenza definitiva. Ma il consiglio fa finta di non sentire. «Si rifiutano di prendere atto che una condanna c’è stata - dice Paolo Matteucci, capogruppo diessino - e che il ministero del l’Interno, chiamato in causa dalla prefettura, ha espresso parere inequivocabile sulla sospensione». Caputo trova l’uovo di Colombo. Propone una delibera di sospensione, e se la fa bocciare dalla maggioranza. Compatta. Anche An e leghisti, dimenticato il giustizialismo che fu, si accodano a Forza Italia. Ventisette a quattordici, inutile il voto congiunto di centrosinistra e rifondazione.

Fanchin resta consigliere provinciale. Così come resta consigliere comunale a Limbiate e rimane nel cda del Parco Nord, organismo che ha poteri esecutivi. Il sindaco di Milano Albertini, che ce l’ha messo, non muove un dito. Tutti accettano le giustificazioni di Fanchin. Che per un verso si appella alla Costituzione, chiedendo di cancellare la norma che impone la rinuncia al seggio anche se la sentenza non è definitiva. E per l’altro bada al sodo, pensando al suo caso specialissimo: la sospensione non è obbligatoria, perché la concussione non è stata «consumata» ma solo «tentata». È la morale di questa storia edificante. Non sempre volere è potere. Un finanziere può mettersi di mezzo, e non è detto che non sia meglio così.

Il Consiglio si è rifiutato di prendere atto della condanna. Così lui resta.
E resta anche al comune di Limbiate e nel cda del Parco nord

Andrea Fabozzi
Milano, 27 settembre 2002
da "Avvenimenti"