Intervento a seguito del dibattito originato dall'intervento di Fausto Bertinotti tenuto a Venezia il 13 dicembre 2003 in occasione del
Convegno sul problema storico e politico delle Foibe

Non si può leggere senza emozione il testo di Fausto Bertinotti

«E allora se la guerra è stata resa impossibile, il suo surrogato è il terrorismo. Non potendo ricorrere al terrorismo principale, che è la guerra, che si combatte con armi pubbliche, si ricorre al terrorismo secondario, che si combatte con "armi private"»

Non si può leggere senza emozione il testo di Fausto Bertinotti. Il solo fatto che queste cose siano state pensate, e proposte come asse di un ripensamento radicale della storia vissuta, e di una altrettanto radicale novità della storia da costruire, e che siano dette non in una comunità di illuminati o in un laboratorio di pensiero, ma in un partito che agisce nella lotta politica reale e che partecipa, già in sede locale, a responsabilità di governo, costituisce un evento: qui sono rifiutate le antropologie pessimistiche, il sindacalismo della disperazione e il fatalismo dell'esistente; qui si ricomincia a pensare la politica, i suoi mezzi e soprattutto i suoi fini. Altra questione è naturalmente che queste cose possano diventare patrimonio condiviso e linee di azione per grandi aggregazioni umane; ciò richiede che esse siano vagliate e integrate; e poiché comportano un cambiamento di mentalità, non possono che passare attraverso il fuoco del dibattito e delle esperienze vitali.

La conversione consiste nel passaggio dal pensiero della guerra (quale è stato presente anche nella tradizione comunista) al pensiero della pace, e dalla accettazione dei metodi della violenza alla adozione di mezzi alternativi di resistenza e di costruzione politica, mezzi "deboli" e nonviolenti. Tuttavia ciò non equivale a scegliere la politica contro la guerra e la ragione contro il terrorismo: perché anche la guerra fa politica e anche il terrorismo ha le sue ragioni; se il mondo tutto rappreso nell'antitesi tra guerra e terrorismo non avesse né politica né ragioni, non sarebbe un mondo umano; come infatti ciascuna delle due parti nega l'umanità dell'altra. Ma così non è; è con uomini che abbiamo a che fare, sia quelli della guerra perpetua sia quelli del terrorismo infinito, ed è perciò che possiamo non vedere in loro solo il nemico.

Dunque la dissociazione non basta; si tratta di fare una politica che intenda e superi la politica della guerra e di avanzare ragioni che identifichino e rovescino le ragioni del terrorismo. Ciò vuol dire che l'opposizione alla guerra e al terrorismo va storicizzata; noi non siamo del mondo della guerra e del terrore, ma siamo nel mondo della guerra e del terrore, né vogliamo toglierci da esso; uscirne, sì, ma tutti insieme, attraverso la lunga fatica della storia. A metà del 900 sembrò che questo lungo cammino di secoli fosse compiuto, per quanto riguardava la guerra, e la mettemmo al bando del diritto, papa Giovanni addirittura la mise fuori della ragione. Ma evidentemente quel tempo ancora non era finito, e ora dobbiamo fare un altro duro pezzo del cammino; ma non metteremo fine alla guerra all'improvviso, né ci impadroniremo della pace con un gesto di rapina. Il tempo che resta, lo spazio intermedio è quello della politica. Anche il movimento no-global è atteso alla prova della politica.

Storicizzare la questione della guerra e del terrorismo vuol dire fare analisi separate dell'una e dell'altro. Avendo ben presente che l'uno è figlio dell'altra: diceva padre Turoldo che lo scontro tra loro è uno scontro edipico, perché "il terrorismo di cui parla l'informazione ufficiale non è che il figlio naturale - neppure bastardo - dell'altro terrorismo che è sprigionato dall'Occidente" e che oggi - proprio per la volontà di un dominio universale senza egemonia - prende le forme della guerra preventiva e perpetua. Capire questo non vuol dire giustificare, ma nemmeno permette l'indistinzione tra il governo imperiale e il governo del terrorismo, pur entrambi, come dice Bertinotti, "repellenti". Ma la distinzione permette di far politica, e proprio lì dove noi possiamo di più, perché la guerra oggi sgorga dal nostro campo.

La guerra è sempre stata un orrore. Ma perché oggi apre una crisi di civiltà e può risolversi in catastrofe? Perché la guerra oggi è rimasta prerogativa di una parte sola, anzi di una sola potenza. Gli Stati Uniti, per stabilire la loro sovranità universale, si sono riappropriati della guerra, ma nello stesso tempo l'hanno resa a tutti gli altri impossibile. Creando e gloriandosi di avere una potenza militare senza pari e quale mai si è avuta nella storia, inventandosi una guerra dove si dovrebbe morire da una parte sola, affidandosi ad armi intelligenti e maneggiate da lontano, e sprigionando una superiorità schiacciante su qualsiasi avversario, hanno reso la guerra, fatto di per sé essenzialmente dialettico, per chiunque altro impossibile. Chi osa resistere loro in guerra fa la fine della Yugoslavia, dell'Afghanistan, dell'Iraq. Le sole guerre che sono ancora possibili sono quelle tra poveracci, le cosiddette guerre dimenticate. Ma con l'America non c'è partita, se la partita è la guerra.

E allora se la guerra è stata resa impossibile, il suo surrogato è il terrorismo. Non potendo ricorrere al terrorismo principale, che è la guerra, che si combatte con armi pubbliche (publicorum armorum contentio), si ricorre al terrorismo secondario, che si combatte con "armi private". Il terrorismo è la guerra degli sconfitti, che non vogliono continuare ad essere sconfitti, e che sperano di non essere più oltre sconfitti. E' terribile ma è ancora umano; e perciò è politico, ed è suscettibile di una soluzione politica. Ricomprendere tutte le possibili resistenze nell'unica categoria del terrorismo, che si tratti di ceceni, palestinesi, latino americani o iracheni, vuol dire non riconoscere più alcuna causa. Forse quelle di ieri, in modo che si possano ancora guardare i film western stando dalla parte degli indiani, ma non quelle di oggi. E' questa l'operazione dell'Occidente, ma è appunto questo che impedisce ogni uscita politica. La denuncia dell'orrore della violenza, e la scelta nonviolenta che, come giustamente ricorda Bertinotti, si può fare anche stando nel cuore della Resistenza (non violento era Dossetti, che comandava il Comitato di Liberazione Nazionale a Reggio Emilia) non possono che accompagnarsi alla intrapresa di un'altra strada che permetta agli umiliati di intravedere un'alba di giustizia.

Quest'altra strada, per noi, è di togliere politicamente all'ultima guerra rimasta, quella asimmetrica della Grande Potenza per la quale tutti gli altri sono "combattenti illegali", le radici di cui si nutre nel mitico sogno di un unico dominio, di un unico modello di reggimento politico, di un unico ordinamento economico, di un nuovo grande Leviatano che con mano invisibile gli uni destina alla salvezza, gli altri alla perdizione. Tornare al diritto, tornare all'ONU, tornare alla costruzione di una comunità mondiale nella quale pace e sicurezza siano indivisibili per tutti e l'eguaglianza torni ad essere il valore, così faticosamente conquistato, che riconosce pari in dignità e diritti tutti gli esseri umani e le "nazioni grandi e piccole": questa è la politica oggi negata, e che occorre riaprire. L'Europa certo può fare la sua parte; e per questo è attaccata, non solo da Israele o dagli anonimi di Bologna, ma dalla destra al potere in America, che solo qualche settimana fa lanciava, sulla copertina della sua rivista, la parola d'ordine: "Against United Europe", contro l'Unione Europea.

Coraggiosamente Bertinotti riapre il dossier della storia comunista. Su questo non tocca a me interloquire. Ma credo che la sconfitta non dipenda solo dalla violenza da cui essa è stata contaminata. C'è stato un limite, che Claudio Napoleoni ha indagato, nella capacità stessa di concepire il superamento del capitalismo. Su questo occorre tornare a pensare. Ma intanto nella rivisitazione a me piace ricordare che proprio nell'imminenza della sconfitta, dal cuore del potere sovietico, fu avanzato un grande progetto, politico, "per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento". Fu quella, credo, la grande occasione perduta del Novecento.

C'è dunque molto filo da tessere. È un grande merito del segretario di Rifondazione avere aperto, con la sua iniziativa, una nuova prospettiva di riflessione e di azione per tutti, ma soprattutto per i giovani. Poco prima di morire, Giuseppe Dossetti, a Massimo D'Alema che era andato a trovarlo a Monteveglio, chiese: "Ma voi, che cosa fate per i giovani? ". Questa di Bertinotti mi sembra una prima risposta.

Raniero La Valle
Roma, 9 gennaio 2004
da "Liberazione"