Il ragazzo che ci accompagna nei luoghi del disastro aveva sei anni quando
Seveso, suo malgrado, stava per diventare famosissimo al mondo. La «fabbrica
dei profumi», come chiamavano allora l'Icmesa, era appena esplosa e una nube
tossica si era sparsa nell'aria oscurando per ore il cielo della Brianza.
«Io e un mio cugino stavamo giocando a pallone sul terrazzo di casa - ricorda
Massimiliano Fratter, oggi 32 anni, che abitava a 150 metri dalla fabbrica
- . Sentimmo prima un fischio fortissimo, che durò circa un quarto d'ora,
e subito dopo un odore insopportabile, intenso, che non sono mai riuscito
a descrivere con esattezza. Sembrava un misto di uova marce e disinfettante.
Non l'ho più sentito in vita mia, per fortuna. Non lo dimenticherò mai...».
Erano le 12 e 37 del 10 luglio 1976. Era un sabato, il sabato che sconvolse
la vita agli abitanti di undici comuni lombardi contaminati, a vari livelli,
dai tremila chilogrammi di veleni, tra cui la diossina, sfuggiti allo stabilimento
chimico di Meda.
Quattro furono i centri maggiormente colpiti, ma Seveso, tra Desio, Cesano
Maderno e la stessa Meda, è il paese che più di ogni altro ha pagato, e continua
a pagare, le conseguenze di uno dei più gravi disastri ambientali provocati
dalla chimica italiana.
Anzi dalla chimica svizzera, visto che l'Icmesa era di proprietà della società
elvetica Givaudan-Hoffman La Roche.
La fabbrica, successivamente demolita e sepolta in una «discarica speciale»
a due passi dal luogo in cui era situata, produceva intermedi per le industrie
cosmetiche e farmaceutiche tra i quali il triclorofenolo, un composto tossico
utilizzato come base per gli erbicidi.
La quantità di diossina che fuoriuscì dall'impianto - esplose per una reazione
chimica tra le varie sostanze che fece aumentare la temperatura fino a far
saltare la valvola di sicurezza del reattore - non è stata mai accertata con
esattezza.
E' stata variamente stimata in poche centinaia di grammi.
Tanti ne sono però bastati a cambiare la storia di Seveso.
Nessuno fuggì, ma quella manciata di Tcdd, 2,3,7,8 - sigla del tetraclorodibenzodiossina,
tra le più tossiche e resistenti delle sostanze chimiche - bloccò sviluppo
urbano e crescita economica, costrinse gli abitanti a cambiare radicalmente
stile e comportamento di vita.
L'ecosistema di una parte del territorio entrò in agonia.
Chi lavorava la terra smise di coltivarla, chi aveva gli animali li vide morire.
Le prime vittime umane della diossina - i cui effetti sull'uomo erano in gran
parte sconosciuti - furono decine di bambini, sfigurati per sempre dal cloracne.
La paura indusse le donne incinte ad abortire. Le coppie smisero di fare figli.
Tutto questo accadeva ventisei anni fa, ma il passato non se n'è mai andato
da Seveso, sorvegliato speciale dalla scienza internazionale, trasformato
in altre parole in una sorta di laboratorio vivente dove ancora oggi, a mezzo
secolo dal «giorno del dramma», ricercatori italiani e stranieri studiano
gli «effetti a lungo termine» della Tdcc sulla popolazione.
Quasi tutti i sedicimila abitanti di allora la respirarono, e tutti ce l'hanno
ancora nel sangue.
Ufficialmente morti non ce ne sono stati, ma i danni e le malattie riscontrate
negli anni tra i sevesini sono state notevoli, alcune prevedibili, altre meno.
Tra l'altro, è stato accertato che la Tcdd, agendo come sregolatore ormonale,
ha modificato il sistema riproduttivo dei maschi.
Le sue vittime preferite sono stati soprattutto coloro che all'epoca dell'incidente
avevano meno di 19 anni.
Questo ha fatto sì che a Seveso nel decennio 1985-'94 - la prima generazione
post-Icmesa che ha ripreso a fare figli - nascessero molte più bambine che
bambini. Due sono state le indagini che hanno appurato questa sorta di discriminazione
sessuale operata dalla sostanza tossica.
Paolo Mocarelli, del dipartimento universitario di patologia clinica dell'ospedale
di Desio, insieme ai ricercatori americani, ha studiato il fenomeno seguendo
nel tempo sia i 750 abitanti che vivevano nella «zona A», quella maggiormente
contaminata, sia i circa 30 mila residenti delle aree meno esposte alla diossina:
«Era già stato dimostrato che le coppie contaminate hanno una maggiore probabilità
di generare prole di sesso femminile - dice il ricercatore spiegando il metodo
di studio adottato -.
Dalla seconda ricerca è emerso che l'effetto sul sesso del nascituro si esprime
anche quando le concentrazioni plasmatiche della diossina sono molto basse.
Andando a valutare meglio i dati, abbiamo poi visto che questo effetto si
mantiene soprattutto se il padre è stato esposto al contaminante nel periodo
prepuberale o durante la pubertà.
In questo gruppo di soggetti sono stati infatti riportati 50 figli maschi
contro 81 femmine, quando il rapporto nelle gravidanze normali è 106 su 100».
Più complesse sono state le indagini epidemiologiche. Le fasi delle ricerche,
anch'esse finanziate dalla Fondazione Lombardia per l'ambiente, in questo
caso sono state tre.
E hanno accertato che negli «ultimi venti anni tra gli abitanti di Seveso
è aumentata l'incidenza di alcuni tipi di tumore, in particolare del tratto
digerente, dell'apparato respiratorio e del tessuto linfatico ed emopoietico».
Gli studi hanno «osservato» i residenti nelle tre zone colpite dalla nube
tossica - classificate in A, B e R (di Rispetto) secondo il grado di gravità
della contaminazione - includendo il 99% della popolazione, di cui il 95%
ha avuto bisogno di ricovero, e confrontandola come riferimento con la popolazione
limitrofa, per un totale di circa 300 mila persone.
«E' dunque molto probabile e biologicamente plausibile - scrive nella sua
relazione sanitaria del 2000, Pieralberto Bertazzi, l'epidemiologo che ha
condotto le indagini - un'associazione tra esposizione alla diossina e aumento
di tali patologie.
La mortalità generale - dice sempre Bertazzi - non ha invece subito alcun
incremento».
Insomma, la temuta strage per tumori, paventata dagli esperti subito dopo
la fuga tossica dall'Icmesa, fortunatamente non si è verificata. Ma gli abitanti,
tra i quali c'è anche ha perso sei parenti morti di cancro, continuano a non
fidarsi ciecamente dei risultati della scienza.
Quei risultati che Gaetano Carro, presidente di uno dei due comitati di cittadini
che chiedono ancora giustizia per i danni subiti, proprio non se la sente
di condividere in pieno.
Per avvalorare il suo scetticismo mostra un dossier dove ha raccolto una buona
parte dei 1500 questionari distribuiti in passato agli abitanti.
«Tra i 1150 questionari restituiti - dice Carro, genitore di uno dei tanti
bambini danneggiati dal cloracne - 81 persone a suo tempo coinvolte sono morte;
40 di queste sono decedute per tumore. Certo, non è un'indagine scientifica,
però è un campione indicativo.
E se a noi risultano tutte queste persone morte di cancro, come si fa a dire
con tanta certezza che a Seveso di diossina non è morto nessuno? Per questo
contestiamo le ricerche del dottor Bertazzi, rese note peraltro regolarmente
fino a un certo punto, poi non si è saputo più niente».
Sono più di mille le persone in causa con la Givaudan per le «alterazioni
nella vita di relazione» subite dopo lo scoppio dell'Icmesa. Il processo civile
da dieci anni passa di mano in mano da un giudice all'altro. L'ennesima udienza
è prevista per il prossimo 5 febbraio.
Ma intanto, dopo la sentenza della cassazione che pochi mesi fa ha riconosciuto
il danno morale subito a un piccolo imprenditore, altre migliaia di cittadini
chiedono la riapertura del capitolo risarcimenti.
Il processo penale si è invece concluso nell'83 con la condanna di due dirigenti
dell'Icmesa per disastro e lesioni colpose.
Di 200 miliardi di vecchie lire fu il risarcimento pagato dalla multinazionale
svizzera. Gran parte furono utilizzati per le bonifiche del territorio. Cominciate
nel `79 e terminate nell'84, hanno riguardato soltanto le aree più contaminate,
comprese tra la fabbrica, nel comune di Meda, e la zona A di Seveso, quella
che fu evacuata e poi rasa al suolo perché irrecuperabile.
Ora sono luoghi completamente trasformati.
Al posto dell'Icmesa c'è un centro sportivo, mentre sulle ceneri della zona
A è stato realizzato il Bosco delle querce, il nuovo parco cittadino dove
flora e fauna d'importazione, anche queste sorvegliate speciali, sperimentano
faticosamente il loro nuovo habitat.
Il parco è anche uno dei due «cimiteri» della diossina.
L'altro, più piccolo, è vicino alla superstrada per Meda, dove sono sepolti
i fanghi tossici estratti dell'Icmesa.
Qui, nel Bosco delle querce, sotto a un'altra collina artificiale, sono invece
sepolte le macerie della fabbrica e delle case abbattute, la terra contaminata
e le stesse attrezzature usate per le bonifiche.
E' tutto sigillato, «messo in sicurezza», dentro una enorme vasca di cemento,
«continuamente monitorata» dal personale della forestale.
Inaugurato nel `96 e ancora in custodia della regione Lombardia, è ritenuto
«il posto pulito di Seveso», ma l'utilizzo sociale è ancora molto parziale,
è infatti aperto al pubblico soltanto di domenica.
Sono 37 ettari di verde ben curati ma assolutamente anonimi, dove gli ambientalisti
chiedono che venga realizzato un «percorso della memoria», che gli venga insomma
data un'identita che ne ricordi le origini.
L'iniziativa fa parte di un progetto molto più articolato che prevede, fra
l'altro, la creazione a Seveso di un archivio storico e di un centro studi
sulla tragedia che ha vissuto.
«Il ponte della memoria», questo il nome del progetto, è coordinato da Massimiliano
Fratter, del circolo di Legambiente che l'ha proposto.
«Sul caso Seveso sappiamo tutto dal punto di vista scientifico - dice Fratter
- sono stati scritti libri, fatti convegni; ha dato origine a due leggi europee
per la tutela ambientale (le due direttive Seveso, ndr), ma sulle cause della
tragedia, quindi su un certo tipo di sviluppo industriale, non è stato ancora
dato un giudizio storico.
Il nostro progetto vuole in sintesi colmare questo vuoto».
Il comune, amministrato da un'anomala giunta di centro destra e verdi è
d'accordo.
Ma non tutti in paese sono entusiasti dell'iniziativa, che andrà avanti per
tutto il 2003.
«E' vero - dice l'assessore all'ambiente, Marzio Marzorati - molti abitanti
sono stanchi di avere gli occhi del mondo puntati addosso.
Vogliono tornare a vivere una vita normale.
Ma questa legittima aspirazione non si raggiunge rimuovendo le cause del disastro,
mettendoci una pietra sopra.
Le ricerche ci dicono che la diossina non ha ucciso nessuno, ma il danno ecologico
che ha provocato è stato immenso.
Non intendiamo piangerci addosso, vogliamo invece fare di questo evento un'opportunità
positiva per il futuro, creando, insieme agli altri comuni colpiti, un osservatorio
per uno sviluppo ecosostenibile della Brianza».
Ce ne sarebbe davvero bisogno in un'area densa di piccole e medie industrie
dove i fiumi, inquinatissimi, sembrano delle anime in pena - il Seveso è una
fogna a cielo aperto - e dove l'aria, resa irrespirabile dai gas di scarico
di Tir e automobili, sarebbe perfino più venefica della diossina.
Ma l'emergenza a Seveso si chiama ancora Tdcc.
Gran parte del territorio, esclusa la ex zona A, è infatti tornato ad essere
«fuori norma».
Nella ex zona B, che comprende il territorio di quattro comuni, e dove le
bonifiche sono state molto superficiali, le concentrazioni di diossina superano
abbondantemente i nuovi limiti del decreto Ronchi del `99.
«I soldi per la bonifica integrale anche dalla zona B non erano sufficienti,
e comunque quel tipo di operazioni, ovvero la movimentazione dei terreni,
avevano dato risultati accettabili - dice Giuseppe Pastorelli, coordinatore
del gruppo di esperti nominato per la nuova valutare di rischio - è
difficile dire cosa succederà, perché se i risultati saranno negativi si porrà
di nuovo il problema di chi dovrà pagare le bonifiche, visto che dal punto
di vista giuridico la vicenda si era chiusa con il risarcimento della Givaudan».
Come andrà finire possiamo già immaginarlo. Siccome non ci sono soldi per
tutelare al massimo gli abitanti, allora è meglio rialzare la soglia di tolleranza.
Questo pensano gli amministratori dei comuni contaminati.
«Io non sono contrario al decreto Ronchi - dice il sindaco di Seveso, Clemente
Galbiati - certo, i nuovi parametri pongono grossi problemi di applicazione.
Il problema però è un altro: perché negli altri paesi europei certi limiti
vanno bene e da noi sono pericolosi? Può darsi che la legislazione italiana
sia la migliore. Ma se è così allora la si applichi ovunque».